mercoledì 23 ottobre 2024

"I delitti della luce", di Giorgio Leoni

Nella Firenze del 1300 che si prepara al Giubileo e che è in pieno fermento edilizio, il priore Dante Alighieri è testimone di un evento eccezionale: una grossa nave, la cui polena raffigura il Giano bifronte, si è arenata nelle paludi dell'Arno. A bordo, vegliato da un equipaggio di uomini morti per avvelenamento e in evidente stato di decomposizione, uno stranissimo ed evocativo macchinario.

A poche ore di distanza, in una torre della città, viene rinvenuto il corpo senza vita dell'architetto di Federico II.

C'è qualche collegamento tra la scoperta della nave e la morte del prezioso collaboratore dell'imperatore?

Una cosa è certa. Quanto accaduto fino ad adesso, e quello che ancora dovrà succedere (una comitiva male assortita che fa tappa alla locanda dell'Angelo, altri omicidi illustri, un carico di specchi di purezza e di dimensioni inimmaginabili per la tecnica del tempo, un miracolo raffinatissimo che invoglia ad arruolarsi per l'ennesima crociata, una "vergine" ermafrodita, le forme perfette di Castel del Monte evocate dal Battisero) ruota intorno allo Stupor mundi; a quel Federico II cioè che, perennemente assetato di ogni forma di conoscenza, è morto (ucciso da chi?) alle soglie di una mirabile scoperta.

Il sommo poeta, con quella severità e intransigenza che ben conosciamo, dovrà mettere assieme i diversi e inestricabili tasselli per dare un senso a quello che si sta dipanando sotto ai suoi occhi. E tra contaminazioni filosofico-matematiche con il mondo infedele e gli scenari "demoniaci" che lo vedono spettatore interessato, impila elementi utilissimi per la Commedia che renderà immortale il suo ingegno.

Dovra vedersela con chi, in attesa della purificazione elargita a larghe mani da Bonifacio VIII, si professa strenuo sostenitore della luce "immota". D'altronde, se la luce "avesse un suo moto", esso proseguirebbe "in una corsa verso un vuoto orrendo e infinito", con la coseguenza che ogni certezza divina, compresa la Creazione, si sfalderebbe miseramente. E per evitare ciò, si è pronti a dare e, se del caso, a ricevere la morte.

Il multiforme ignegno di Federico, però, è lì a reclamare e a imporre il primato della conoscenza sopra ogni dogma: la luce, anche quella fraintesa in nome della quale si è levata la mano del fratello contro l'altro fratello, deve necessariamente muoversi, come è pronto a testimoniare quell'inspiegabile macchinario scoperto a bordo della nave arenatasi nell'Arno.

Mezzo secolo prima di questi accadimenti, alla domanda del grande imperatore su cosa ci fosse oltre la luce, la risposta è stata: solo la tenebra, "come narra la Scrittura".

Non è difficile, a questo punto, immaginare il sorriso sornione di Federico II.

Cinquant'anni dopo, a pochi giorni dalla scadenza della sua carica di priore, Dante Alighieri è chiamato a interpretarlo davvero, quel sorriso regale, sulla scia dell'inconsistenza della luce (ancora lei!) di cui sono fatti i sogni.

10 e non più di 10 #9

Un giravite, di quelli a stella, arroventato. Conficcato nel basso ventre del mio Goldrake dell'infanzia.

Tutti i bambini, specie i fratelli, sono crudeli.

Le propaggini della mia affermazione lambiscono il Portogallo.

I miei piedi di sabbia sfrangiano l'oceano.

Un riflesso in lontananza.

Alghe avvinghiate a una poltiglia di plastica informe.

L'onta riaffiora dal lago del subconscio.

La ics slabbrata nel basso ventre.

Quel che resta del Goldrake di 40 anni addietro.

"Una storia semplice", di Leonardo Sciascia

Ho trovato.

E se il punto a quest'ultima frase lasciata sul foglio fosse stato messo dall'assassino?

La segnalazione arriva alla vigilia della festa di San Giuseppe: Giorgio Roccella, un diplomatico decaduto, chiede di essere raggiunto urgentemente nel villino in cui si è rintanato per rileggere alcune lettere di Garibaldi e Pirandello. Il fatto è che si è imbattuto in qualcosa che la polizia dovrebbe vedere.

A raccogliere la telefonata è il brigadiere Antonio Lagandara, pronto a recarsi subito alla villa se non fosse dissuaso dal commissario: potrà andarci domani, se proprio ne ha voglia, perchè si tratterà sicuramente di uno scherzo.

L'indomani il brigadiere ci va e s'imbatte, suo malgrado, nel cadavere del diplomatico, apparentemente suicida per un colpo di pistola alla tempia.

Tutto chiaro se non fosse per la mano destra che, a rigor di logica, "avrebbe dovuto penzolare a filo della pistola caduta" e a quel punto, dopo la frase "ho trovato", che gli appare fuori luogo.

Farneticazioni o giù di lì.

Dal commissario al procuratore, tutti si affrettano a rubricare il caso come il più classico dei suicidi.

D'altronde, con una moglie con la quale il defunto non condivideva più niente e un figlio che è frutto dei tanti amori occasionali della donna, il Roccella poteva pur averlo qualche motivo per togliersi la vita.

«Era siciliano» la vedova risponde al questore che la interroga «E i siciliani, ormai da anni, chissà perchè, si ammazzano tra loro».

A pensarla diversamente in merito al suicidio, in uno col brigadiere, c'è il professore Carmelo Franzò, vecchio amico della vittima.

Caso vuole che il procuratore che si occupa della vicenda sia un vecchio alunno del docente.

L'occasione allora è troppo ghiotta per lasciarsela scappare: il magistrato fa subito notare come, nonostante all'epoca della scuola fosse debole in italiano, non gli sia andata poi tanto male: adesso è procuratore della Repubblica e si trova qui a interrogare il suo vecchio docente.

Già, l'italiano.

"L'italiano non è l'italiano: è il ragionare" - disse il professore. "Con meno italiano, lei sarebbe forse ancora più in alto".

Frattanto, in un ulteriore sopralluogo, il brigadiere si convince di una terribile verità: le porte dei magazzini adesso spalancate mentre prima erano chiuse con possenti catenacci; l' "odore di zucchero, di foglie di eucalipto macerate, di alcool"; l'interruttore che nonostante le ricerche accuratissime della volta precedente, viene candidamente trovato al primo tentativo, "dietro il busto di Sant'Ignazio", da uno dei membri della spedizione.

Tutti questi elementi portano in una sola direzione.

Disilluso, cerca comprensione nel professor Franzò

«Lei ha intenzione...?» gli chiede allora quest'ultimo, ma il brigadiere, "smarrito" e "stravolto", manifesta indecisione sul da farsi.

Gli eventi precipitano.

Lagandara ormai è diventato un uomo da eliminare. Si fa finta di pulire una pistola in commissariato, quando all'improvviso la si punta proprio sul sottoposto.

Si preme il grilletto, ma "l'atavico istinto contadino a diffidare, a vigilare, a sospettare il peggio" gli viene in soccorso: il brigadiere evita così la pallottola, ed è lui ora a sparare e ad uccidere chi lo voleva morto.

Forze dell'ordine, magistratura, l'insospettabile prete all'antica. Un meccanismo perverso, oliato da tanti "mezzi uomini" devoti al dio del profitto che pur dovrebbero, innanzitutto per il ruolo ricoperto, esserne gli antidoti.

Un capolavoro "semplice", questo di Sciascia. Un congegno pressochè perfetto condensato in poche, illuminanti, pagine.

10 e non più 10 #8

Di ritorno da un incontro in presenza.

Dopo un anno di frequentazione social.

Ho presidiato un angolo di visuale dove lei non poteva vedermi.

L'ho contemplata estasiato.

Mi sono fatto stuprare l'anima.

Me ne sono andato.

Senza incontrarla.

È più bella della foto del profilo.

Una logica sconclusionata.

Disturbata.

 

"Ombre nell'ombra", di Paco Ignacio Taibo II (traduzione di M. P. Ferrari)

In una Città del Messico violenta e dalle trame politiche abrasive, quattro personaggi a dir poco singolari si ritrovano al tavolo (rigorosamente notturno) del domino: il giornalista Pioquinto Manterola (responsabile della cronaca nera a El Democrata), il poeta Fermin Valencia (reduce dalle scorribande della Division del Norte di Pancho Villa), l'avvocato Alberto Verdugo (difensore di prostitute e di poveri cristi) e Tomas Wong (dirigente anarchico che si ostina a scambiare la "r" con la "elle" più per abitudine che per tributo alle sue origini).

I quattro amici continuerebbero tranquillamente a vivere di quel poco che riescono a tirar su con le proprie arti, ognuno perso nei corroboranti fallimenti che creano condivisione, se non fossero testimoni, loro malgrado, di una serie di morti insolite: un suonatore di trombone stecchito mentre si esibisce nella banda, un cadavere precipitato da un edificio, un apparente suicida...

Sullo sfondo, una conturbante vedova, un apparato militare invischiato nelle sordide trame dei ribaltamenti di potere, politici dal pelo sullo stomaco spesso quanto una fune da traino, le compagnie petrolifere in uno con le direzioni delle fabbriche ossessionate dal sistematico sfruttamento della manodopera, dell'ambiente.

Tra bicchieri di habanero, sigari chilometrici e armi che spuntano con una frequenza impertinente, la sgangherata combriccola s'imbatte, trova, tesse i fili dei vari collegamenti fino a mettere le grinfie sul bandolo della  cervellotica matassa.

Dopo la scapicollata rapina in banca (!), il documento è nelle loro mani.

Le carte le dà, in questo giro di domino, proprio il giornalista Pioquinto Monterola: il memoriale che prova come le compagnie nordamericane stiano finanziando una sollevazione per provocare la secessione della regione petrolifera dal resto del paese, è a sua disposizione.

C'è solo un problema: il Governo non vuole che questo documento venga reso pubblico. E i quattro scavezzacolli, tremendamente idealisti e provocatoriamente alieni alle lusinghe del potere, stanno per far saltare il banco e compiere l'ultimo azzardo.

Non c'è somma che possa trattenerli dal farlo. C'è però la vita in pericolo di alcuni compagni e...si sa, quando agli irriverenti caballeros minacci di portar via un paio di elementi della stessa risma, tutto cambia.

Poco male, c'è sempre la lettera di ringraziamento del presidente della Repubblica per lo scampato pericolo, che dovrebbe rincuorarli.

Peccato però che il poeta invitato a leggerla, se ne esca con tali, sconcie parole: «...non mi piace esser prosaico (...), ma se non fosse monco, il signor presidente della Repubblica me l'avrebbe fatto a due mani».

Non c'è niente da fare, davvero brutti, irredimibili ceffi i personaggi (meravigliosi!) di Paco Taibo II.

10 e non più di 10 #7

Oggi è l'ultimo giorno.

Figlio del lampo di magnesio
sul rosso folle del manganesio
, passo la mano.

Mi sono nutrito di pellicole ingiallite, di fotografie in cui anche il primo piano raccattava proiezioni d'alterità.

Ho riso. Mi sono commosso. Ho perdonato la cataratta appuntata sui capezzoli dell'adolescenza.

L'obiettivo asettico del cellulare mi sgualcisce le emozioni.

Il click parsimonioso si è svilito nell'orgia del superfluo.

Il pixel ha addomesticato l'occhio.

"L'omicidio Carosino. Le prime indagini del commissario Ricciardi", di Maurizio De Giovanni

Ed eccolo qui il delegato Luigi Alfredo Ricciardi mentre se ne sta al caffè Gambrinus, intento a sorseggiare il secondo caffè della giornata; il primo, manco a dirlo, è quello puntualmente preparatogli dalla tata Rosa.

Lo sguardo tradisce il biasimo per la sua singolarità: il delegato infatti "vede i morti ammazzati" ("il fatto", come lui stesso definisce questo potere), unicamente però quelli uccisi con violenza. Li vede "sul posto dove è successo" per un tempo variabile e, soprattutto, li vede mentre ripetono l'ultima parte del pensiero che la morte ha amputato, "con lo stesso tono e le stesse parole".

Non c'è crocicchio di persone (reali) che non venga attraversato da "umanità" varia, rigorosamente trapassata per un evento comunque traumatico.

Come poter condurre un'esistenza ordinaria in mezzo a questa babele di corpi martoriati?

Come restare indifferenti alle voci che ripetono singulti di vita, gli ultimi, nella speranza di ottenere una qualche forma di giustizia?

Non è possibile, e Ricciardi ne è perfettamente consapevole, nonostante Enrica, la giovane che lui guarda ogni sera dalla finestra di casa sua mentre si ammanta di quella normalità che a lui è preclusa.

Chissà se...ma no, che sciocchezza: "l'urlo della mia carne non lo ascolto, e non mi disturba".

La notizia del giorno è che la Duchessa di Carosino è stata assassinata ieri sera, appena tornata dal San Carlo.

Il questore è in evidente stato di agitazione, e non solo per l'importanza della vittima.

"Ho bisogno di un'immediata soluzione di questo caso...il Duce in persona...capite...il Duce!".

Per gli addetti ai lavori, è risaputo che Ricciardi risolve il caso, ogni caso, e scova il colpevole. E per questo, nonostante diffidino di quel talento senz'altro luciferino, lo rispettano.

In una Napoli scossa per l'omicidio d'alto rango finanche nei vicoli dei poveri cristi, il delegato si fa accompagnare sul luogo del delitto come sempre dal brigadiere Maione.

"L'anello che manca" ha esalato in un sospiro la Duchessa che è stata uccisa da un calcio violentissimo al torace e poi sparata, quando ormai già era morta.

Stavolta una seconda frase della vittima, quella che consentirà di appurare la verità, sarà svelata al delegato dal sogno in cui la Duchessa soppianta il vignaiolo della prima manifestazione de "il fatto": "Ti si sporcano le scarpe".

L'anello spiega un gesto che avrebbe voluto essere mortale; le scarpe sporche a causa della pioggia, invece, rivelano il vero assassino della nobildonna.

Nella seconda indagine, I vivi e i morti, la pioggia che infradicia una Napoli peccaminosa e lasciva, porta all'attenzione del delegato Ricciardi addirittura tre vittime: don Raffaele Ammaturo, prete con una predilezione per le figlie (minorenni) della povera gente, la cui ultima frase è: "No, perchè a me, sì...proprio voi, sì..."; la maitresse Wanda, "la tenutaria di uno dei più esclusivi bordelli di via Elena", che cristallizza l'istante prima della fine nelle parole "Ho una signorina nuova, giovane giovane..."; il buttafuori di un ristorante che, al cospetto di Ricciardi, si scusa con deferente disagio: "Stasera no, signori, non si può entrare...".

Qual è il nesso, a parte il punteruolo conficcato in qualche parte del corpo, tra i tre omicidi?

"Il modo di pronunciare la parola", più che le parole stesse: eccola la chiave di tutto.

Il delegato si reca dal colpevole convenendo che sì, un padre morto per sifilide potrebbe essere una giustificazione sufficiente per uccidere tre persone.

Nell'ultima indagine, Mammarella Ricciardi, affiancato dal bonario Maione ("È così come lo vedete, Maione. Non ha doppio fondo"), è chiamato a prestare i suoi servigi ancora una volta in un bordello.

Il canovaccio prevede che venga accompagnato fin sulla soglia della porta nella cui stanza è avvenuto l'omicidio. Non oltre: perchè (credenza dei colleghi) il delegato dev'essere lasciato libero di foraggiare il suo fenomenale spirito d'osservazione; perchè (la verità) Ricciardi deve trovarsi da solo di fronte alla "rediviva" vittima che si cimenta nell'abituale performance de "il fatto".

La morta risponde al nome di Maria Rosaria, in arte Gilda. E Gilda, nonostante il taglio netto "che partiva sotto il seno sinistro e arrivava quasi all'anca destra", ride di una grossa risata contagiosa: "Mammarella, mi vuole da mammarella".

Mai irridere chi si sente investito del compito di salvare una donna perduta!

Ricciardi riunisce tutti nel salone: Madame, Rindone, il dottore, le guardie, le signorine. Se ne sta zitto. Mezz'ora. Un'ora. Un'ora e mezza.

A un certo punto, da un angolo del salone: «Commissario» si materializza l'impazienza dell'assassino «dobbiamo aspettare ancora molto? Perchè se è così, devo avvisare mia madre che mi aspetta, a casa».

Proprio così. Mammarella potrebbe preoccuparsi.