Nella Firenze del 1300 che si prepara al Giubileo e che è in pieno fermento edilizio, il priore Dante Alighieri è testimone di un evento eccezionale: una grossa nave, la cui polena raffigura il Giano bifronte, si è arenata nelle paludi dell'Arno. A bordo, vegliato da un equipaggio di uomini morti per avvelenamento e in evidente stato di decomposizione, uno stranissimo ed evocativo macchinario.
A poche ore di distanza, in una torre della città, viene rinvenuto il corpo senza vita dell'architetto di Federico II.
C'è qualche collegamento tra la scoperta della nave e la morte del prezioso collaboratore dell'imperatore?
Una cosa è certa. Quanto accaduto fino ad adesso, e quello che ancora dovrà succedere (una comitiva male assortita che fa tappa alla locanda dell'Angelo, altri omicidi illustri, un carico di specchi di purezza e di dimensioni inimmaginabili per la tecnica del tempo, un miracolo raffinatissimo che invoglia ad arruolarsi per l'ennesima crociata, una "vergine" ermafrodita, le forme perfette di Castel del Monte evocate dal Battisero) ruota intorno allo Stupor mundi; a quel Federico II cioè che, perennemente assetato di ogni forma di conoscenza, è morto (ucciso da chi?) alle soglie di una mirabile scoperta.
Il sommo poeta, con quella severità e intransigenza che ben conosciamo, dovrà mettere assieme i diversi e inestricabili tasselli per dare un senso a quello che si sta dipanando sotto ai suoi occhi. E tra contaminazioni filosofico-matematiche con il mondo infedele e gli scenari "demoniaci" che lo vedono spettatore interessato, impila elementi utilissimi per la Commedia che renderà immortale il suo ingegno.
Dovra vedersela con chi, in attesa della purificazione elargita a larghe mani da Bonifacio VIII, si professa strenuo sostenitore della luce "immota". D'altronde, se la luce "avesse un suo moto", esso proseguirebbe "in una corsa verso un vuoto orrendo e infinito", con la coseguenza che ogni certezza divina, compresa la Creazione, si sfalderebbe miseramente. E per evitare ciò, si è pronti a dare e, se del caso, a ricevere la morte.
Il multiforme ignegno di Federico, però, è lì a reclamare e a imporre il primato della conoscenza sopra ogni dogma: la luce, anche quella fraintesa in nome della quale si è levata la mano del fratello contro l'altro fratello, deve necessariamente muoversi, come è pronto a testimoniare quell'inspiegabile macchinario scoperto a bordo della nave arenatasi nell'Arno.
Mezzo secolo prima di questi accadimenti, alla domanda del grande imperatore su cosa ci fosse oltre la luce, la risposta è stata: solo la tenebra, "come narra la Scrittura".
Non è difficile, a questo punto, immaginare il sorriso sornione di Federico II.
Cinquant'anni dopo, a pochi giorni dalla scadenza della sua carica di priore, Dante Alighieri è chiamato a interpretarlo davvero, quel sorriso regale, sulla scia dell'inconsistenza della luce (ancora lei!) di cui sono fatti i sogni.