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mercoledì 15 marzo 2017

Donnavventura in attesa di Poirot su rete 4

Ogni sabato pomeriggio, in attesa di Poirot su rete 4 (canale che per me esiste solo per lo sceneggiato ispirato ai racconti di Agatha Christie), mi sorbisco gli ultimi strascichi di Donnavventura.

No, ja, così sa troppo di matusa intellettualoide. Rettifico: rete 4, "che per me esiste solo per Poirot e per i film di Bud Spencer e Terence Hill."
Ecco, così va meglio. Torniamo a Donnavventura, però.
Per carità, l'idea alla base del programma sarebbe pure interessante: sette ragazze (il sito di Donnavventura ci tiene a precisare che trattasi di giornaliste...sarà!)  alla guida di quattro pick-up rossi (sette diviso quattro fa... poco più di una ragazza e mezzo a bordo di ogni macchina: le polveri sottili, commosse da tanta generosità, ringraziano) scorrazzano per il mondo alla ricerca di luoghi ed esperienze spettacolari.
Ora, a parte il fatto che le giovani pulzelle in questione casualmente sono tutte alte, magre, belle e bone; che altrettanto casualmente sembrano vivere ogni esperienza, anche quella meno entusiasmante, con l'espressione propria dell'Estasi di Santa Teresa d'Avila del BerniniA parte tutto questo, dicevo, quello che proprio non si può sopportare, è la presenza pervasiva, ossessionante, della marche nel programma trasmesso su rete 4.
Innanzitutto e sopratutto, 1A Classe di Alviero Martini: qualsiasi cosa indossino, sfoggino le valchirie di Donnavventura, potete stare certi che ha da qualche parte impresso il "marrone continentale" del celeberrimo brand. A tal proposito c'è da scommettere che, a guardare bene le inquadrature sempre ammiccanti della fortunata trasmissione, sicuramente in qualche angolo della ripresa, come un messaggio subliminale del rocker satanico di grido, compariranno le nuances inconfondibili della 1A Classe.
Non che abbia qualcosa contro i brand in generale e la 1A Classe in particolare, sia chiaro. Solo che sono sempre più convinto che, mentre anni fa la marca, proprio per la difficoltà oggettiva di farsi pubblicità, era davvero, quasi sempre, garanzia di qualità, oggi le cose stiano diversamente. Nella nostra società a uso e consumo della ripresa video, infatti, si pensa prima a farsi pubblicità e poi, se proprio si vuol durare oltre il breve volgere di una stagione, si cerca anche di fare i prodotti come Dio comanda.
Per altri versi, è ciò che accade, ad esempio, per i cantanti: qualche decennio fa, per l'ugola vogliosa di successo, l'apparizione in televisione era il punto di arrivo di una carriera iniziata nelle ruspanti feste di piazze e poi, a colpi di abnegazione e sacrificio, approdata alla ribalta televisiva. Oggi, invece, il discorso si è capovolto: si va prima in tv per marcare la propria esistenza artistica e poi, se proprio si diventa bravi e si ha seguito, si viene insigniti della veste di cantante.
Ritornando alle marche, a ben vedere è giustificata questa logica, vuoi perché se non sei riconoscibile, a prescindere addirittura dalla qualità della tua offerta, sei tagliato fuori vuoi perché il consumatore è talmente anonimo, talmente insicuro, che ha bisogno di un brand che gli dia una identità purchessia e un posto nel mondo che ne legittimi l'esistenza.
Vabbuò, ora ho detto quello che penso di Donnavventura e della dominazione delle marche in questa trasmissione, e non solo. Mo fatemi il piacere, lasciatemi stare in pace qui, sotto le coperte, che dopo l'ennesima pubblicità intenta a veicolare il millesimo brand della giornata, inizia il mio Poirot. Mi devo concentrare: la bellezza è a tal punto complicata da non consentire distrazioni se non si vuole perdere il filo dell'indagine.
(...) hamburger, che sarebbero venti lire di pane, centottanta di polpette e milleottocento lire di nome americano. (Stefano Benni, "Saltatempo").

giovedì 23 febbraio 2017

Una lingua si aggira per le strade dell'Occidente

Slurp, gnam, yum, crunch, slap, chomp. È la lingua, signori

Beninteso, per essa si vuole qui alludere a ogni singolo muscolo, organo o affine comunque utilizzato per mangiare, sorbire, gustare, succhiare, sgranocchiare, etc..
La lingua: il vero e, a questo punto, unico fantasma rimasto ad aggirarsi per le strade dell'Occidente.
Come dite? Esagero? Alzate lo sguardo dal display, allora, e guardatevi attorno: in qualsiasi crocicchio di strade, a ogni angolo di semaforo, a cavallo di tutte le parallele di marciapiedi, s'invoca, si blandisce, si adesca solo lei, nostra sorella Lingua.
Poco importa che tu sia ricco o povero, magro o grasso, erudito o zoticone. Tutto quello che conta, è quanto la tua lingua sia capace di farsi ingolosire da bizzeffe di ristoranti finto vintagedai mille fast food salmodianti maionese e ketchup, dall'ennesimo bar esotic-trash che rimanda a trasognanti atmosfere cafonal-chic.
La lingua, mesdames et messieurs, l'unico organo dotato di memoria elefantiaca. Chiedi a qualsivoglia, rapsodico omuncolo cavalcante smog e polveri sottili, dove deve andare sferzato da così tanta fretta e cosa debba fare con la boccuccia perennemente atteggiata a "culo di gaddrina".
Ti parlerà di stress che tutto obnubila, di mete che non si ricordano, di affari che annegano nell'ultimo fondo di caffè.
Ebbene, miei cari amici, l'unica cosa di cui, la personcina trafelata di cui sopra non si scorderà mai, la sola ossessione che si pianterà come un chiodo al centro della sua memoria, sarà quello che ha mangiato stamattina.
La lingua, cioè, che una volta evocata, ammantata da succulenti papille gustative riandrà, lucida di un nitore adamantino, al caffè di cinque minuti fa, alla nutella di stamane, alla pasta e fagioli (riposata, ça va sans dire) innaffiata dal vino simil biologico, di ieri sera.
E giù giù, in un sabba infernale di sapori e odori, libagioni e indigestioni, fino alla notte dei tempi quando, dopo la prima guerra tra Homoincazzosus e OminculusKazzimmoso, sorse la primigenia paura di restare senza cibo.
Ebbene, stiamo fermi ancora lì. Inghiottiamo calorie mentre guardiamo carboidrati in televisione, bestemmiando anatemi innervati dall'aroma di caffè per la pagella scarsa del figlio all'Alberghiero.
Una siderale, pantagruelica lingua, che fagocita ogni differenza architettonica (un angolo di Salerno, con i suoi tabernacoli di dolci e salati, è praticamente uguale a uno di Londra), qualsiasi tipicità locale (la sfogliatelle di Shangai guardano di sottecchi 'a sfugliatella 'e Napule).
Ma come il Pelide Achille ha il suo tallone, come l'ossigenato Trump ha il suo vocabolario, così pure l'insaziabile lingua ha il suo punctum dolens: la piazza assolata del paese, arroccato sulle pendici del compassato buonsenso, dove gli unici addensanti della crema sono le uova covate a prati freschi e ruzzolate brinose.
Poco male. Ogni regola ha la sua eccezione.
La lingua guarda con noncuranza il paesello bucolico, e si attorciglia famelica intorno all'ennesimo MangiaeBevi "che si apre madreperlato come ostrica, dove le perle siamo noi, da lisciare, (s)fregare per bene fino a consumarci."

martedì 23 dicembre 2014

Morto Babbo Natale, viva Babbo Natale

“Morto Babbo Natale”. Ebbene sì, il nostro giornale ZerOttoNove (ZON), è stato il primo a diffondere la ferale notizia.

È stata la vocina affranta di uno dei folletti a telefonarci in redazione. Poiché però, in quel momento, vi ero presente solo io, il direttore  ha dovuto abbozzare: meglio un giornalista di mezza tacca sul locus commissi delicti, che il rischio di lasciarci soffiare lo scoop (e che scoop!) della morte di Babbo Natale.

Appuntamento a mezzanotte in punto sul tetto della biblioteca dell’Università.

Si materializza, ad una decina di metri dal mio naso rigorosamente all’insù, una slitta immensa, trainata da una messe di renne. A guidarla il folletto che, non appena mi invita a salire per la scala di luce e polvere di stelle srotolata fino ai miei piedi, riconosco essere la mia fonte.

Mi si bendano gli occhi.

In un tempo che non so quantificare, mi sorprendo seduto, finalmente con gli occhi liberi, davanti ad un pantagruelico camino. In mano, una tazza di cioccolata calda.

Il folletto abbacchiato, dopo aver tentato di sedare la disperazione della Befana, mi si siede di fronte.

Mi dice che può parlarmi solo per cinque minuti: il tempo necessario, cioè, per evitare di corrompere la sua natura di fiaba. Così dicendo, mi pone in grembo un pacco di libri avvolti in carta da spedizione.

<Quando il dolce Babbo Natale – spiega il folletto ancora provato – si è reso conto che Amazon “spedisce” più velocemente di noi, non c’è l’ha fatta.>

Lo guardo ammammaloccuto.

Il folletto si soffia il naso e riprende:<Ovviamente non è solo per questo che ha deciso di farla finita. E prima ci si mettono i Natale a mezze maniche; poi i regali sempre più stupidi richiesti dai bambini; ancora le stufe a pellet che soppiantano i camini; infine, le continue interferenze, coi nostri voli, di aeroplani, satelliti vari, e cianfrusaglie volanti>.

Lo osservo insoddisfatto.

<Però, – ammette, riuscendo a sorridere per un breve istante – forse i tuoi colleghi di giornale ti sottovalutano. Ebbene, – confessa ora intristito non più soltanto dalla morte del suo capo – il motivo principale che ha indotto Babbo Natale a togliersi la vita, è che nessun bambino desidera più davvero qualcosa. Ogni desiderio, – spiega immalinconito – si nutre dell’attesa. Nel momento in cui tra la voglia della strenna e il suo ottenimento non vi è alcun lasso di tempo, la felicità è dimidiata. La verità – e il suo sguardo penetra il mio – è che il desiderio è morto. Gli occhi dei bambini non invocano più la venuta di Babbo Natale. Ed è per questo che….morto Babbo Natale, – esplode in un repentino, quanto inspiegabile, urlo di gioia – viva Babbo Natale! Da questo momento in poi, – e il rintocco tonitruante di un pendolo dal Paese di molto lontano mi fa sobbalzare – amico caro, Babbo Natale sarà morto per i bimbi opulenti d’Occidente. Sarà, invece, vivo, vivissimo, per quei piccoletti che ancora hanno voglia di appendere lo sguardo alla gruccia della sua scia luminosa, nell’attesa cullata per un anno intero>.

Non c’è tempo per capire. Uno smilzo Babbo Natale, con le guance lisce come il popò di un bambino,  mi si materializza davanti.

<Non ho spazio per i vostri eccessi: – mi dice nell’atto di accarezzare una pancia che non c’è più – il mio impegno, la mia opera, saranno rivolti solo a chi ha ancora, nel cuore e nel fisico, qualche mancanza da colmare>.

Mi sorprendo a svegliarmi.

Sono davanti al monitor del pc in compagnia della birra a triplo malto, per fegati allevati a vodka e whisky, che non è riuscita ad allontanare l’abbiocco.

Deluso per l’inganno onirico, apro il balcone e guardo in su.

Una cometa iridescente, lunga quanto l’attesa di un desiderio, si sposta verso il Sud del mondo.

Buon Natale!