lunedì 21 ottobre 2024

"Il cappello del prete", di Emilio De Marchi

Perchè a volte può bastare un cappello, magari proprio da prete, per confutare il nichilismo del dottor Panterre. Lo capirà a proprie spese quel satanasso del barone Carlo Coriolano di Santafusca che se ne sta a rimpiangere la scarsella vuota e la magione in rovina.

Ha bisogno di restituire una cartella da quindici mila lire, il signor barone, se non vuole patire l'onta di una denuncia al procuratore del re.

Pensa che ti ripensa, il nobile decaduto ha l'illuminazione: vendere la casa avita a chi ha i denari per acquistarla. E chi meglio di prete Cirillo che pratica l'usura e che ha nomea di negromante per aver dato alcuni numeri buoni al lotto?

L'appuntamento a Santafusca è fissato. Prete Cirillo, non prima di aver scambiato un terno secco sulla ruota di Napoli con un cappello da monsignore cucito da Filippino, lascia il basso in cui abita e si avvia verso l'ultima destinazione. Nella villa blasonata del barone infatti, per mano dello stesso nobile, vi troverà la morte.

Delitto perfetto? Così sembrerebbe se non fosse per il cappello del prete.

Le cose sono andate pressapoco così: un cane ruba il cappello del parroco lasciato inavvertitamente sul luogo del delitto (l'unico errore del barone) e lo porta a Salvatore, custode della villa. Frattanto costui muore e a dargli l'estrema unzione è quel santo di don Antonio che inavvertitamente scambia il suo, di cappello, con quello di cui si è appropriato il custode. E mentre il cappello, per un rimorso di coscienza, ritorna al suo creatore, quel Filippino che ha giuocato gli ultimi soldi proprio sul terno rivelatosi vincente, lo stesso copricapo viene a denunciare incontrovertibilmente la scomparsa di prete Cirillo. Pure perchè nel frattempo il copricapo addirittura si sdoppia e il secondo, creduto primo e unico, passa nelle mani di un parente di Salvatore e verrà recuperato da un fantomatico cacciatore (alias il barone di Santafusca). Quest'ultimo lo affoga in alto mare per sbarazzarsene una volta per tutte, ma senza alcun costrutto.

Ironia della sorte, il barone di Santafusca inizia a vincere al gioco in maniera smodata, proprio ora che non avrebbe bisogno di soldi per via delle ricchezze della buonanima del curato di cui si è impossessato.

E intano, nonostante la tanto decantata superiorità della materia rispetto allo spirito, il barone di Santafusca sembra quasi inseguito dal cappello del prete e dai mille accadimenti che verranno a riguardarlo. Finchè, convocato in tribunale per una deposizione che non può che assumere i connotati di una formalità (lui è pur sempre" U barone" !), inizia a contraddirsi e a non reggere oltremodo il peso della coscienza. Quella coscienza che sarà avviluppata dalla seta del cappello fino a trovarsi inchiavardata nelle secche della verità. Non gli resta che confessare, ebbro di furore per non essere stato in grado di declinare il suo materialismo al cospetto di un misero copricapo da prete.

Pubblicato nel 1888 quando Giovanni Verga dava alle stampe il Mastro Don Gesualdo, l'opera di Emilio De Marchi, per ammissione dello stesso scrittore, vuole provare che si può scrivere un ottimo romanzo d'appendice senza recarsi necessariamente in quel di Francia. Tutto questo non disdegnando (tutt'altro!) il grosso pubblico, i famigerati "centomila" (lettori) cioè che ben presto l'opera raggiungerà, grazie anche all'uscita a puntate sul Corriere di Napoli.

"La gita in barchetta", di Andrea Vitali

Ed eccoci in una nuova storia del sempre godibilissimo Andrea Vitali. Da dove partiamo, 'sto giro? Proprio dalla gita in barchetta del titolo, che verrà a costituire lo snodo principale della vicenda raccontata nel libro.

Sulla barca ci sono Vincenza e Niccolò.

Vincenza è la terza figlia, fresca di diploma magistrale, di Elena Fulgenzi, vedeva Cereda. Quest'ultima, bella e disincantata per via di un marito rivelatosi troppo presto un cattivo affare, ha altre due figlie, entrambe di capitale importanza nell'economia del romanzo.

C'è Rita detta "La Scionca" per via di un'evidente zoppia, che è la più saggia e la più responsabile delle sorelle, a cui tutti ricorrono per cercare sostegno e comprensione. Tutti tranne la madre, che vede in Rita l'emblema della vita grama che ha condotto e una minaccia per quella che ancora resta. Poi c'è la malmaritata Lirina, costretta a sopportare, con frequenti cadute nello squallore avvinazzato, il marito Loreto Damato a cui purtuttavia trova la forza di ribellarsi. E infine, ecco Vincenza che se ne sta nella barchetta, nella parte più profonda del lago, in compagnia del bel Niccolò: una ragazza di una bellezza adamantina che viene a essere l'unica possibilità di riscatto per la vedova Cereda.

Un giorno si presenta alla sartoria della vedova, Assunta Sciacca, una donna che lesina il centesimo in vista del lusso che da lì a poco pervaderà la sua esistenza e quella dell'intera famiglia: quel Niccolò che si laurerebbe dottore in giurisprudenza ma che per la mamma è già avvocato. Ci sono dei pantaloni da allungare che esigono l'intervento della Fulgenzi. E l'Assunta, ancora coi calzoni in mano, scorge la leggiadria di Vincenza mentre la Cereda immagina l'avvocato proprietario dei pantaloni e e soprattutto la vita di agi che si cela dietro quel titolo se solo...

Le due donne, le due madri, s'incontrano, e brigano per realizzare il meglio per i loro rampolli. Vincenza e Niccolò: una unione perfetta, se non fosse per quella gita in barchetta e per tutto ciò che ne conseguirà.

In questo romanzo, tripudio della femminilità, ci appare un Vitali diverso: più poetico, meno impigliato nei gustosissimi siparietti e inciuci di paese (che pur ci sono, ci mancherebbe!), con una venatura crepuscolare che non dispiace.

Senza contare l'inconsueta ambientazione: non più gli anni '30 del secolo scorso, o comunque il Ventennio, ma addirittura i primi anni Sessanta: gli stessi anni che consentono a un indovinatissimo Marinati Gioele, al secolo Sofia per le preferenze "dell'altra sponda", di riesumare dal suo giradischi spalancato a favore di balcone hit del calibro di In ginocchio da te o È l'uomo per me.

Colonne sonore, manco a dirlo, che sia accordano alle alterne vicende sentimentali del personaggio e che ci fanno compagnia durante la lettura.

"La vedova Couderc", di Georges Simenon (trad. E. Franzosini)

Un uomo cammina sotto il sole, al centro della strada. Passa un autobus. Alza una mano e sale a bordo con la stessa naturalezza con cui avrebbe fatto qualsiasi altra cosa.

Sul bus c'è una donna con "una macchia coperta di peli scuri e come di seta sulla guancia sinistra".

Lui è Jean, lei è Tati, la vedova Couderc.

Lui è figlio del ricco fabbricante di liquori di Montluçon. È un figlio rinnegato perchè insiste nel chiedere al padre gaudente la parte di eredità della madre. E lo è soprattutto perchè ha appena finito di scontare la pena per l'omicidio di un uomo.

Per quale motivo ha ucciso? Per l'incomprensione del suo professore d'inglese del liceo e perchè ancora una volta qualcuno ha preteso troppo da lui.

Lei è, per l'appunto, la vedova Couderc, in guerra perenne con la famiglia del defunto marito per tenersi per sè la casa in cui è entrata sguattera. A tal fine, si concede al suocero con una naturalezza disarmante.

Perchè decide di portarsi a casa Jean? Perchè sente che è l'uomo giusto per darle manforte nei suoi propositi.

E intanto il destino inizia a oliare le sue ruote dentate.

Di fronte alla casa di Tati, c'è quella della cognata. E in essa, la giovane Fèlicie, dai capelli rossi e dalla carnagione setosa, che accudisce un bambino fatto con chissà chi.

Jean, impegnato nelle mille incombenze che la vita contadina richiede, sembra poter essere in grado di condurre un'esistenza finalmente serena. Poi c'è Fèlicie...

Frattanto la vedova Coudrec ha una colluttazione con il cognato. Si procura una ferita profonda al capo che la costringe all'immobilità e, di conseguenza, la rende totalmente dipendente da Jean.

La sua smania di controllo cresce ancora di più.

Le cose all'improvviso precipitano: Fèlicie desidera "un appartamentino di tre stanze dove stare tranquilli" così come la Zèzette dell'adolescenza di Jean pretendeva la vita a cui si sentiva destinata. Dal canto suo, la vedova Coudrec vorrebbe che Jean reclamasse dal padre la sua parte di eredità.

C'è altresì l'ardente desiderio della donna di tenerlo sempre con sè, magari di condividerlo anche con altre donne, purche trà queste non ci sia quella strega di Fèlicie.

Jean capice che gli ingranaggi lo stanno conducendo verso l'esito che prima o poi l'avrebbe riguardato: "l'omicidio sarà punito con la pena di morte nel caso in cui sia stato preceduto, accompagnato o seguito da un altro crimine". E il martello che gli era servito per togliere i ripiani della frutta è lì, a portata di mano.

Il fato ineluttabilmente si compie, non prima di aver sofferto un solo, rapidissimo moto di rabbia (Sono stufo! stufo! stufo! (...) Capisci? Capite, tutti quanti? Sono stufo!...) che avvicina Jean al Meursault de Lo straniero prima dell'esecuzione. Ma, a ben vedere, in comune con l'opera di Camus c'è pure il senso angoscioso del destino che si compie a prescindere dal volere dei protagonisti.

Georges Simenon, come già nell'altra opera L'uomo che guardava passare i treni, dimostra che si può essere grandi giallisti e dar vita a un personaggio meraviglioso come il celeberimo commissario Maigret, solo se si è capaci di scandagliare con mirabile maestria il cuore umano.

"Critica della identità pandemica", di AA. VV.

 Critica della identità pandemica, edizioni Melagrana, è un volume che raccoglie ben quarantuno testi apparsi sulla rivista online LEF, dal marzo 2020 al marzo 2021: dal periodo, quindi, di maggior recrudescenza della pandemia fino al suo efficace contrasto.

Questo testo corale si propone come un’accurata indagine sulle dinamiche dapprima embrionali, poi via via sempre più nitide nel suo sviluppo, del Covid-19: il suo stravolgimento delle strategie sanitarie, la sfida che la pandemia, ben presto diventata sindemia, ha lanciato al nostro welfare state e all’idea stessa di politica. 

Per muovere una critica accurata, però, c’è bisogno di analizzare il fenomeno e le sue ripercussioni nelle diverse fasi che lo contraddistinguono: guardare, capire, parlare, agire. E sono proprio queste le categorie in cui gli scritti vengono ordinati, a seconda del riferimento di ognuno di essi alla fase in cui l’intellettuale engagé si pone di fronte all’oggetto della sua ricerca.

Il leitmotiv dell’analisi è l’estrema fragilità dell’essere umano (la c.d. canna pensante di Blaise Pascal) che può essere annientato dal vapore o da una goccia d’acqua e, ciononostante, credersi onnipotente. Ma l’unica onnipotenza che ci possiamo riconoscere nonché permettere, chiosa il prof. Rino Malinconico, è quella del pensiero (Cogito, ergo sum) che ci attribuisce la “signoria” sul mondo. Non di un semplice “pensare” astratto o puramente contemplativo si tratta, bensì di un “pensiero combattente”, che ci fornisce la cassetta degli attrezzi anche per fronteggiare un’epidemia di proporzioni mondiali come il Covid-19.

Eppure la pandemia ci deve fungere da monito: occorre rigettare, una volta per tutte, la declinazione capitalistica della c.d. vita egotica per far spazio alla fragilità nel nostro vivere quotidiano; e dentro questa vulnerabilità, cercare la via di uscita. E sì perché, secondo gli autori di Critica della identità pandemica, una uscita di sicurezza capace di metterci in salvo, non solo c’è, ma è obbligatorio percorrerla se ci si vuole immunizzare dalle brutture e dalle ingiustizie di questa società alienata: la svolta convinta e ostinata a sinistra.

Il momento per rifondare una Sinistra veramente tale, paradossalmente, è proprio questo: quello, cioè, in cui i dogmi del liberismo sono stati sbugiardati. Si è constatato, infatti, che la tanto decantata economia moderna, se non funzionano la politica e lo Stato, non ha spazio. Ma vi è di più: si è dimostrato anche che lo Stato e la politica non sono autonomi, in quanto dipendono fortemente dalla società. Basta guardare, a tal proposito, a cosa è stata costretta a fare la politica nella fase più acuta della pandemia; e la sospensione del patto di stabilità e la chiusura delle fabbriche sono solo due esempi.

Senza contare il fatto che è il paradigma capitalistico in quanto tale a essere investito e posto sotto accusa. E ciò per la sua nefasta eppur convincente attitudine a ridurre la natura e l’umano a nient’altro che merci, commisurate tra loro attraverso i valori di scambio. Poi può capitare che si diffonda un virus mortale, e la trama e l’ordito della destra più becera si sfilaccia miseramente.

Sta alla Sinistra trovare la forza e la maniera di approfittarne, non prima di aver fatto chiarezza al suo interno, anche a livello strutturale: questo tempo fluido può ancora farsi rappresentare da una Sinistra che, parafrasando Jean Paul Sartre, si articola come una “organizzazione pratico-inerte” o non piuttosto come un più dinamico “gruppo in fusione”?

Questa raccolta di scritti, pur essendo accomunati dal pensiero progressista dei loro autori, racchiude diverse sensibilità e approcci al Covid-19 e, soprattutto, alla sua incidenza sulla società che dev’essere necessariamente rimodellata. Se non ora, quando?

"Non so", di Andrea Licalzi

Ci sono dei libri che, in situazioni normali, non compreresti. Poi ti soffermi a leggere la quarta di copertina color Tex Willer, e scopri che tu e il protagonista avete in comune un’esperienza che merita approfondimenti. E così, senza nemmeno accorgertene, il libro di Lorenzo Licalzi diventa il tuo nuovo compagno di viaggio.

Mario Dominici, fin dalla fanciullezza vissuta in periferia, “sa di non sapere”. E di questo “non so” si fa scudo per approcciarsi alla vita.

Io faccio parte di quella percentuale minima di italiani che ai sondaggi risponde non so.

Michel, il suo amichetto immaginario, lui sì che sa come si affronta la realtà. In assenza di questa consapevolezza, la vicenda umana di Mario, dalle angherie più o meno gratuite infertegli dal disadattato Solinas fino al riconquistato rapporto con il piccolo Leonardo, può essere vista come l'eterna rincorsa da parte di Willy il Coyote all’inafferrabile Beep Beep: sempre a un passo dalla cattura, eppure puntualmente a mani vuote.

Dall’amore per la musica dell’adolescenza che lo porta a lavorare e a dormire in una radio, alla necessità del viaggio on the road anche nelle condizioni più estreme.

E come non parlare, poi, dell’amore della sua vita, quella Giulia che, pur partendo da un retroterra socio-culturale assai distante dal suo, si spoglia delle sue sovrastrutture fino a rivelarsi l’incastro perfetto per l’immaturo Mario? Senza contare, infine, l’improvvisa paternità che costringerà il protagonista a fare finalmente i conti con la sua vera natura e a imporgli un corso accelerato di crescita.

È (anche) un percorso iniziatico, quello del protagonista, che non potrà fare a meno delle cadute che il tragitto porta inevitabilmente con sé: il viaggio in Giappone per mettersi alla prova e osare di più rispetto al comodo posto in banca confezionatogli dal suocero, ne è una esemplificazione. Ma qui, ecco apparire la conturbante e mistica Naoko che sembra uscita pari pari da un libro di Murakami e che probabilmente è decisiva per salvare la vita di Giulia.

Sarà vero che in un’altra vita è stata l’anima gemella di Mario?

Comunque stiano le cose, la vita occorre viverla adesso e subito. E quindi, tra la voglia di dare una sorellina a Leonardo, la ripresa di quel viaggio rimandato alla soglia delle responsabilità e un lavoro che è finalmente confacente alla passione del protagonista, Giulia e Mario sono, ora sì, consapevoli dell’indispensabilità dell’una per l’altro.

E il “non so” di Mario, da autentica indecisione, si trasformerà in un’invincibile arma politica  (basterebbe questo per creare scompensi inimmaginabili alla cosiddetta società capitalistica avanzata).

Un libro giovane e fresco, questo di Licalzi, che incuriosisce e crea complicità tra scrittore e lettore; a tal punto da poterne trarre un film anche meno leggero di quelli che, di solito, vengono ispirati da opere del genere.

"A cantare fu il cane", di Andrea Vitali

Nella via Manzoni di Bellano, un «Al ladro! Al Ladro!» squarcia la quiete della notte.

La presunta derubata sarebbe la signora Emerita Diachini e il ladro, manco a dirlo, quell'impiastro di Serafino Caiazzi.

L'indefessa guardia notturna Romeo Giudici, però, veglia sul sonno degli onesti cittadini: lo scontro (soprattutto fisico) è inevitabile. Ma tant'è, giustizia è fatta...?

Al maresciallo Maccadò la faccenda, comunque la si guardi, non lo persuade: il colpo sarebbe fuori dal profilo criminale del Caiazzi, null'altro che un ladro di polli quando il contadino è assente e il pollo in questione ha acconsentito a farsi rubare.

Poi ci sarebbe la circostanza che l'Emerita, la derubata, è in trepidante attesa di un marito che rinverdisce i fasti del Fascio in terra d'Africa oltrechè essere madre di un figlio, il Vinci, anche lui coinvolto in un certo modo in uno scontro fisico.

Intrecciato a questo furto dai contoni fumosi, ci sarebbe la faccenda del giovane Filippo Buonavigna che avrebbe fatto la fuitina con la conturbante Omosupe del circo Astra: un'escapologa etipope di una bellezza conturbante che nasconde un particolare che costituzionalmente non le dovrebbe appartenere. E, a questo proposito, spetterà all'appuntato Misfatti, che per poco non ci lascia le penne, venirne suo malgrado a conoscenza.

Ritorna, a grande richiesta, il maestro Fiorentino Crispini il quale, com'è suo solito, fa voli pindarici sulle colonne de La Provincia-Il Gagliardetto che rasentano la "diffusione di notizie false e tendeziose" minacciatagli dal maresciallo.

Una menzione d'onore merita la "piccola" Elena Civignola che, sentinella occhiuta dietro alle persiane del civico dirimpetto a quello agli onori della cronaca, darà una mano al Maccadò nel venire a capo di alcune cose della massima importanza.

Tra le maschere fisse del rutilante teatro del Vitali, immancabili sono le figure dell'arguto prevosto inscindibile, quest'ultima, da quella della terragna perpetua e all'altra dell'energica suora dell'ospedale di Bellano.

In questa commedia degli equivoci dove ciò che appare è sempre diverso da quello che in effetti è, campeggia il cane: un bastardino che con il suo abbaiare a chi non conosce e l'indifferenza verso gli habitueès della casa, svelerà l'assenza di ogni furto e, di converso, una tresca amorosa insospettata.

A proposito di svelamento, c'è ancora l'indovinello che il prevosto alla fine della messa grande ha posto ai bambini: "davanti a chi anche il Papa deve togliersi il cappello?". E la banda Maccadò, quattro figli maschi e il quinto (magari femmina?) ancora gelosamente custodito nella pancia di Maristella, lo vogliono fermamente risolvere. Non foss'altro che per accaparrarsi il libro illustrato promesso in premio dal prevosto a chi svelerà l'arcano.

"La dismissione", di Ermanno Rea

Vincenzo Buonocore, entrato nell'Ilva di Bagnoli come semplice operaio, brucia pian piano le tappe, fino a diventare tecnico specializzato alle colate continue.

Adesso, nell'imponente opera di dismissione dello stabilimento napoletano, a lui viene affidato il compito di smontare il suo reparto, ormai venduto ai cinesi.

Buonocore, però, non si limita ad assolvere un compito, nossignore: lui vuole, come già faceva il padre ebanista nel suo lavoro, raggiungere la perfezione. La dismissione dell'Ilva, in altri termini, deve diventare il suo canto del cigno, l'opera d'arte di tutta una vita fatta di impegno, lotte sindacali, conquiste civili e politiche. E ciò proprio nel momento in cui si rende conto di come la dismissione dello stabilimento significhi la mortificazione dell'impeto di riscatto di buona parte del Sud Italia.

L'Ilva, allo stesso modo di un corpaccione che fagocita successi e fallimenti, passa dalla migliore acciaieria d'Europa, al carrozzone in cui sistemare camorristi e nullafacenti, fino a trasformarsi nell'ennesimo costo da tagliare proprio nel momento in cui la politica vi investe fior di quattrini.

Sullo sfondo, l'amicizia di Buonocore con il saggio Chung Fu, le lusinghe e le miserie di una Napoli iridescente, il rapporto del protagonista con Rosaria, sua moglie, improvvisamente incrinato da un'omissione, la fuga vigliacca sotto il portone di Marcella, bellezza effimera che si trova a soccombere assieme allo stabilimento: a volte, il funerale di un membro della comunità, anche esterno ai "lumi d'officina", diventa il de profundis dell'idea stessa di rivalsa di un intero popolo.

Scritto come una sorta di confessione del protagonista, il libro schiude una serie di universi (la fabbrica, la città, le paure, i successi, le sconfitte) tutti indagati con mirabile garbo e dedizione da Ermanno Rea.