Questo volume della Storia d'Italia si apre con la rassegna delle varie Accademie che, in assenza di un "pubblico" (la pochissima scolarizzazione è appannaggio della Chiesa che rifiuta la libertà di discussione e di critica), svolgono il ruolo di "centrali" per stabilire e mantenere contatti permanenti tra gli uomini di scienza. Ed ecco fiorire l'Accademia dei Lincei del nobile romano Federico Cesi, così chiamata perchè i suoi soci si piccavano di osservare la natura con lo sguardo acuto della lince. C'era poi l'Accademia degli Umidi del farmacista Anton Francesco Grazzini nata per difendere il volgare dal bucato di latino in cui alcuni volevano immergerla. Più tardi, quest'ultima assunse la denominazione di Accademia della Crusca con il frullone come simbolo, una sorta di setaccio, e per motto "Il più bel fiore ne colsi". Infine, tra le altre, l'Accademia del Cimento, ad opera del principe Leopoldo, che aveva come insegna un fornello acceso e il motto "Provando e riprovando".
Il secondo capitolo è dedicato alla figura del papà de l'Adone, il cavalier Giambattista Marino. Dalla sua gioventù spensierata e libertina in quel di Napoli, si passa, sul finire della vita, al suo "Se il libro merita il fuoco che s'abbruci" pronunciato al cospetto del giudizio di immoralità dell'Inquisizione. Gli scrittori considerano il cavalier Marino il perfetto simbolo del Seicento: gonfio, ampolloso, prezioso e pieno di vuoto. E forse per questo è considerato il genio del suo secolo.
Si passa poi a Bernini e al barocco. Per quanto riguarda quest'ultimo, oltre a uno stile architettonico, il barocco rappresenta un fenomeno culturale e di costume. Sia che la sua etimologia derivi dal portoghese "barroco" (perle non sferiche irregolari e bizzarre) sia da "baroco" (modo di ragionare pedantesco e artificioso dei filosofi aristotelici), esso costituisce il tipico prodotto della Controriforma. Nei Paesi protestanti infatti, si diffonde solo per contagio. Con riferimento al Bernini, gli autori affermano che Bernini non diventò Michelangelo perchè neanche Michelangelo, se fosse nato allora, sarebbe diventato Michelangelo. Ciò a significare la pochezza del tempo in cui gli toccò di vivere. Dopo un breve resoconto sulle opere e sulla vita del Bernini, ci si concentra sul Borromini, al secolo Francesco Castelli, passato alla storia come il suo rivale nonostante inizialmente lavorò proprio alle dipendenze del Bernini. Rimane impressa la fine tragica dell'artista (trapassatosi da parte a parte con la spada, probabilmente in preda a una crisi depressiva).
Il quarto capitolo è imperniato sulla figura della regina Cristina di Svezia che non amando la sua patria, la Svezia per l'appunto, voleva trasformarla in un'altra Italia, tant'è che venne ad accasarsi a Roma. Allergica all'amplesso in cui vedeva una sorta di sottomissione che la sua indole non poteva sopportare (probabilmente era lesbica), attirò alcuni importanti filosofi alla sua Corte come Grozio e Cartesio.
Ci si occupa poi di un genere in cui l'Italia raggiunse l'incontrastata eccellenza: il melodramma, il cui cigno fu indiscutibilmente Claudio Monteverdi, diventato in seguito maestro della cappella ducale di San Marco. È un mondo rutilante in cui folleggiano castrati e tifosi da stadio perchè l'Italia non "faceva" il melodramma, lo era.
Le vicende italiane però, non possono essere comprese se non s'immergono nella storia europea. La seconda parte del libro, quindi, si apre con gli anni della decadenza spagnola, anche per la cacciata insensata e controproducente delle uniche minoranze produttive: gli ebrei e i moriscos. È la Francia che adesso ha un ruolo egemone in Europa, con la designazione a suo successore da parte del Cardinale di Richelieu, dell'italiano Giulio Mazarino: i due uomini si somigliavano. Richelieu era d'acciaio, Mazarino di gomma. Quest'ultimo diventò il padrone della Francia con l'avallo di un giovanissimo Luigi XIV. E il suo calcolo lo spinse a una scandalosa alleanza con l'Inghilterra di Cromwell, il dittatore calvinista che aveva fatto decapitare il suo re.
«Maestà vi devo tutto, ma pago il mio debito dandovi Colbert» queste pare fossero le ultime parole di Mazarino al Re Sole. Si rivelarono ben presto profetiche: Colbert infatti ha dato alla Francia il suo definitivo assetto di Stato accentrato in campo politico, economico e amministrativo.
Si passa poi all'Inghilterra in cui, un piccolo proprietario terriero allevato nella religione calvinista, il già citato Oliver Cromwell, si venne ben presto a scontrare con il re Carlo I. Alla testa dei suoi Ironsides annientò le truppe del re che non aveva voluto firmare, in cambio della concessione di fondi per la guerra contro la Spagna, la "petizione dei diritti" con cui si riconosceva in esclusiva alla Camera il diritto d'imporre tasse e tributi.
Dopo questa doverosa parentesi europea, si ritorna nel Bel Paese, e precisamente nel Piemonte, l'unico stato italiano ancora vivo anche nella seconda metà del Seicento. Si passa dalle manie di grandezza di Carlo Emanuele II, al malaticcio Vittorio Amedeo, almeno fino a quando non gli si diedero da mangiare certi bastoncini di farina chiamati grissini che lo fecero miracolosamente rifiorire. I due scrittori aprono poi un riflessione sui valdesi di Pietro Valdo (novello san Francesco che, da ricco mercante di Lione, si spogliò di tutti i suoi beni) e sui suoi seguaci, i cc.dd. "Poverelli di Lione". Col loro messaggio rivoluzionario, si insediarono per la maggior parte lungo il versante orientale delle Alpi Cozie e vennero ben presto, dopo la revoca dell'editto di Nantes, rimessi al bando.
L'ottavo capitolo è dedicato alla Serenissima che conserva qualche anelito di vita nell'asfittico panorama italiano di fine '600. La figura preminente è quella di Francesco Morosini, capo della flotta della Signoria e uno dei più grandi ammiragli di tutti i tempi. A tal punto che fu eletto Doge quasi a furor di popolo.
Non potevano mancare all'elenco il Granducato di Toscana con lo sfortunato matrimonio tra Cosimo e Margherita Luisa d'Orleans e lo Stato pontificio con il duro colpo inferto al prestigio temporale della Chiesa dalla pace di Westfalia. Ormai lo Stato pontificio non ha alcuna voce in capitolo al di fuori dei suoi confini.
Si chiude in bellezza con il Viceregno. Napoli, a quei tempi, era la città più popolosa d'Italia. I nove decimi dei suoi abitanti erano lazzari. E tra questi spicca la figura del pescivendolo Tommaso Aniello (Masaniello) che nel 1647, a causa del ripristino della gabella sulla frutta imposta dal Vicerè duca d'Arcos, alimentò la sua fama di rivoluzionario. Fu capopopolo anche con l'aiuto dell'equivoco avvocato Genoino che, a quanto pare, arrivò ben presto a manipolarlo per i suoi fini. Masaniello, alla stregua di Cola di Rienzo, dopo un inizio promettente, cominciò ad assumere atteggiamenti stravaganti che lo resero inviso allo stesso popolo di cui si faceva paladino. I napoletani infatti, ben presto non ne poterono più delle sue stravaganze, e addirittura lo decollarono. Poi, dopo avergli ricucito la testa sul busto,lo lavarono, lo vestirono, gli misero al fianco la spada e il bastone di comando, tributandogli solenni esequie, cui parteciparono quarantamila persone.
Il capitolo sul Viceregno si chiude con la figura di un altro capopopolo che prese il testimone di Masaniello: Gennaro Annese, fabbro, che riuscì a farsi nominare "generalissimo" contro gli spagnoli e addirittura a instaurare una effimera Repubblica. Gli spagnoli, però, troppo presto fecero ritorno a Napoli nel canovaccio della più bieca restaurazione.