C'è un'intercapedine nel lungo fluire dei decenni che vanno dagli anni '50 del secolo scorso ai giorni nostri; una terra di nessuno in cui l'umanità bramosa di superare lo stallo (economico, politico, sociale) di un conflitto annichilito dall'olocausto nucleare, ha la necessità di abitare. Vieppiù nella periferia napoletana in cui, da quando si ha memoria, l'umanità è sempre stata divisa tra i vicerè e i lazzari, tra i bassi di Forcella e i villini del Vomero.
C'è sempre un rione dal quale si deve fuggire, soprattutto quando ci si accorge di essere diversi. La vita, però, come la pentola di rame che raccoglie l'ultimo schizzo di sangue di Don Achille e quella che si squarcia al centro per le continue "smarginature", fa il suo corso, incurante delle umane meschinerie.
Elena e Lila, due bambine la cui miseria (più o meno identica, più o meno invalidante) le confinerebbe nei rodati ingranaggi di un'esistenza viscerale, hanno le capacità per uscirne fuori, per andare oltre i traffici dell'usciere (Elena) e le tomaie "tristi" dello scarparo (Lila).
La scuola, come ancora poteva accadere, è lì a portata di mano per attribuire meriti, indicare direzioni, scrollare pesi.
E sono simili, Elena e Lila, pur nella loro diversità. Sono la catapulta "caricata" fino allo stremo per il lancio più lontano possibile dai margini paludosi del rione.
Per Elena c'è una maestra che riesce a vincere le resistenze della mamma con l'occhio fuori fuoco, l'andatura claudicante, il peso del donnone che si è ormai acquattata sugli ancestrali influssi di un brulicare "minimo". Per Lila, invece, è proprio la stessa maestra di cui sopra a fallire nel proposito: Nunzia, la mamma analfabeta, ha avuto l'ordine da Fernando lo scarparo, suo marito, di non piegarsi. Nonostante sua figlia sappia miracolosamente leggere quando gli altri bambini, compresa la bravissima Elena, si destreggiano a fatica tra "mazzarelle" e i primi ghirigori, Lila non ha accesso all'affrancamento dall'ignoranza. Per lei non c'è futuro diverso dallo smarrimento tra gli istinti atavici del rione.
L' "amica geniale", però, non ci sta: strizza gli occhi come quando sta per liberare le sue inesauste energie, e prova a seguire per vie solitarie e accidentate i progressi scolastici di Elena, fino ad anticiparli e addirittura superarli.
Elena legge i libri consigliati a scuola, lei ne legge dieci volte di più, prendendoli a prestito dalla biblioteca del maestro Ferraro anche ricorrendo al nome dei suoi familiari pressochè analfabeti; Elena si iscrive al ginnasio con l'obbligo di essere sempre la migliore pena l'immediato avviamento al lavoro, e Lila le rivela che il grammofono ha un'etimologia greca, e che se ha un po' di tempo, gli scriverà i loro nomi di battesimo con l'alfabeto greco.
Poi c'è la vita reale, quella che intreccia amori, amicizie, ripicche e violenze. Fin da quando le due amiche del cuore si recano da don Achille per farsi giustizia delle bambole rubate, il meccanismo della vita in sincrono si avvia in maniera inesorabile. Eppure gli sviluppi sono destinati a essere completamente diversi: la geniale Lila, costretta a sguazzare nelle piccinerie del quartiere, s'impone di piegare l'esistenza alle sue esigenze, fino a diventare, grazie alla sua bellezza e alla forza di carattere, il modello (odiato-amato) di una resurrezione "interna"; Elena, invece, proprio quando la sua compagna convola a nozze con chi dovrebbe liberarla (assieme soprattutto all'amato fratello Rino) dalla povertà, capisce che la sua resurrezione non può che trovarsi al di là di quel rione che lei e Lila, da piccole, non riuscirono mai veramente a superare.
Alla fine però, tra le meschinità di un matrimonio che immilla le differenze sociali tra i pezzenti e gli arrivati, un paio di scarpe rimette in gioco tutto: le stesse scarpe Cerullo che Lila aveva disegnato e cucito con le sue mani da bambina, condannata a esprimere così la sua indomabile genialità.