mercoledì 23 ottobre 2024

"L'amica geniale - volume primo", di Elena Ferrante

C'è un'intercapedine nel lungo fluire dei decenni che vanno dagli anni '50 del secolo scorso ai giorni nostri; una terra di nessuno in cui l'umanità bramosa di superare lo stallo (economico, politico, sociale) di un conflitto annichilito dall'olocausto nucleare, ha la necessità di abitare. Vieppiù nella periferia napoletana in cui, da quando si ha memoria, l'umanità è sempre stata divisa tra i vicerè e i lazzari, tra i bassi di Forcella e i villini del Vomero.

C'è sempre un rione dal quale si deve fuggire, soprattutto quando ci si accorge di essere diversi. La vita, però, come la pentola di rame che raccoglie l'ultimo schizzo di sangue di Don Achille e quella che si squarcia al centro per le continue "smarginature", fa il suo corso, incurante delle umane meschinerie.

Elena e Lila, due bambine la cui miseria (più o meno identica, più o meno invalidante) le confinerebbe nei rodati ingranaggi di un'esistenza viscerale, hanno le capacità per uscirne fuori, per andare oltre i traffici dell'usciere (Elena) e le tomaie "tristi" dello scarparo (Lila).

La scuola, come ancora poteva accadere, è lì a portata di mano per attribuire meriti, indicare direzioni, scrollare pesi.

E sono simili, Elena e Lila, pur nella loro diversità. Sono la catapulta "caricata" fino allo stremo per il lancio più lontano possibile dai margini paludosi del rione.

Per Elena c'è una maestra che riesce a vincere le resistenze della mamma con l'occhio fuori fuoco, l'andatura claudicante, il peso del donnone che si è ormai acquattata sugli ancestrali influssi di un brulicare "minimo". Per Lila, invece, è proprio la stessa maestra di cui sopra a fallire nel proposito: Nunzia, la mamma analfabeta, ha avuto l'ordine da Fernando lo scarparo, suo marito, di non piegarsi. Nonostante sua figlia sappia miracolosamente leggere quando gli altri bambini, compresa la bravissima Elena, si destreggiano a fatica tra "mazzarelle" e i primi ghirigori, Lila non ha accesso all'affrancamento dall'ignoranza. Per lei non c'è futuro diverso dallo smarrimento tra gli istinti atavici del rione.

L' "amica geniale", però, non ci sta: strizza gli occhi come quando sta per liberare le sue inesauste energie, e prova a seguire per vie solitarie e accidentate i progressi scolastici di Elena, fino ad anticiparli e addirittura superarli.

Elena legge i libri consigliati a scuola, lei ne legge dieci volte di più, prendendoli a prestito dalla biblioteca del maestro Ferraro anche ricorrendo al nome dei suoi familiari pressochè analfabeti; Elena si iscrive al ginnasio con l'obbligo di essere sempre la migliore pena l'immediato avviamento al lavoro, e Lila le rivela che il grammofono ha un'etimologia greca, e che se ha un po' di tempo, gli scriverà i loro nomi di battesimo con l'alfabeto greco.

Poi c'è la vita reale, quella che intreccia amori, amicizie, ripicche e violenze. Fin da quando le due amiche del cuore si recano da don Achille per farsi giustizia delle bambole rubate, il meccanismo della vita in sincrono si avvia in maniera inesorabile. Eppure gli sviluppi sono destinati a essere completamente diversi: la geniale Lila, costretta a sguazzare nelle piccinerie del quartiere, s'impone di piegare l'esistenza alle sue esigenze, fino a diventare, grazie alla sua bellezza e alla forza di carattere, il modello (odiato-amato) di una resurrezione "interna"; Elena, invece, proprio quando la sua compagna convola a nozze con chi dovrebbe liberarla (assieme soprattutto all'amato fratello Rino) dalla povertà, capisce che la sua resurrezione non può che trovarsi al di là di quel rione che lei e Lila, da piccole, non riuscirono mai veramente a superare.

Alla fine però, tra le meschinità di un matrimonio che immilla le differenze sociali tra i pezzenti e gli arrivati, un paio di scarpe rimette in gioco tutto: le stesse scarpe Cerullo che Lila aveva disegnato e cucito con le sue mani da bambina, condannata a esprimere così la sua indomabile genialità.

"Colpo di luna", di Georges Simenon

Nonostante il grande e meritato successo delle inchieste del commissario Jules Maigret, Georges Simenon non ha mai nascosto la sua predilezione per i "romans-romans", come amava definire lui stesso le opere in cui non era protagonista il predetto commissario.

Malgrado apprezzi molto i libri incentrati sul personaggio di Maigret, se solo penso alla bellezza de L'uomo che guardava passare i treni e allo stesso Colpo di luna, ebbene non riesco a dargli tutti i torti.

Timar è partito da La Rochelle per la sua avventura coloniale in Africa, per la precisione a Libreville, Gabon.

Nelle sue fantasticherie di giovane europeo, il continente nero è un incubatore inesauribile di avventure ed esperienze che aspettano solo il suo arrivo per dipanarsi nelle cangianti sfaccettature di cui sono intrise.

La prima notte all'Hotel Central c'è l'incontro con la razza dei dominatori bianchi, abbrutiti dal whisky che scorre a fiumi e desiderosi di imprimere la loro orma "colona" sul commercio del legname così come sul ventre rassegnato delle giovani africane.

L'entusiasmo, almeno quello iniziale, in Timar però non manca. E poi fin da subito c'è l'incontro con la rassicurante Adele, la moglie del proprietario, che osserva il suo corpo pressochè adolescenziale con una concupiscenza tra l'ironico e il materno.

Sfruttando le sue credenziali di europeo con protezioni di una certa importanza, Timar entra nell'inclito circolo dei mediocri e corrotti funzionari e fino a quando agisce in base a canoni coloniali, gode di una stima e di una protezione considerevole.

Poi però avviene l'omicidio di Thomas. A tutti è chiaro chi sia stato a premere il grilletto. Anche Timar ne è perfettamente consapevole e sarebbe pure disposto ad accettarla, questa verità sussurrata ma che è destinata ad essere ribaltata nelle sedi giudiziarie.

Tuttavia, è cosa risaputa, le notti africane sono popolate di bisbigli, di fantasmi, di singulti di coscienza.

Madido di sudore, stremato dalla febbre che cova da qualche parte nella sua anima e con il corpo di Adele accanto finalmente libero dalla consueta veste nera sotto la quale non è solita indossare biancheria intima, non riesce a trovare pace.

Perchè, appena partito da quella Libreville nella quale si stava finalmente ambientando, la sua Adele si è fermata nella capanna del capo tribù? E perchè, dopo aver conosciuto il passato della donna con cui si è messo in affari e che indubbiamente ama, la stessa gli lascia un biglietto nel quale comunica di star via qualche giorno, chiedendogli di rimanere tranquillo?

L'unica è partire con una piroga, malgrado il caldo del mattino già inoltrato sconsiglierebbe vivamente il viaggio. Ma Timar è deciso. Si prende dodici uomini, dodici neri che s'impegnano fino allo stremo per rendergli meno gravosa possibile la traversata, e inizia a risalire il fiume. Destinazione Libreville.

C'è il processo. La verità di comodo da dare in pasto al pubblico è già bella e confezionata. A sparare non è stata la sua donna, ma un povero indigeno scelto, dietro una grossa somma promessagli proprio da Adele, da quel capo tribù nella capanna del quale si era fermata al suo arrivo.

I bianchi l'avranno ancora una volta vinta.

Quando però Timar riconosce nei tratti del capro espiatorio lì di fronte a lui una qualche somiglianza con la giovane vergine che si è arrendevolmente concessa a lui; quando intuisce che Adele probabilmente è andata a letto con un altro importante funzionario per imprimere alle indagini il corso voluto; quando infine capisce che colui che sarà condannato altri non è che l'ennesimo appartenente alla razza vessata e spogliata di tutto dalla prepotenza bianca, non ce la fa più.

Grida finalmente la verità. Svela il nome dell'omicida.

D'altronde, si sa: "ai bianchi, soprattutto a quelli giovani, fragili e sprovveduti come Joseph Timar, capita, quando arrivano nelle colonie, si prendere un colpo di luna".

"Ci vuole orecchio", di Gino Vignali

Siamo a Rimini, in un maggio che sta studiando con profitto per diventare giugno.

Sul peschereccio Aurora dell'avvocato-pescatore (binomio interessante, specie di 'sti tempi di magra!) Valentino Costanza, campeggia una targa in rame: "Il giorno ha occhi, la notte ha orecchie"; ed è proprio l'udito il senso che più degli altri servirà per risolvere almeno una delle due indagini che cadranno sul capo dell'avvenente vice questore Costanza Confalonieri Bonnet e dei componenti della sua pittoresca squadra omicidi: l'ispettore Orlando Appicciafuoco detto Seneca per la sua abitudine di infarcire pressochè ogni dialogo con aforismi latini; Emerson Leicher Palmer Balducci "nel quale ignoranza e simpatia per prevalere all'ultimo quindici e ogni mese finisce al tie-break"; Cecilia Cortellesi, morosa di Emerson, giovane nerd e con una raggiera di conoscenze di tutto rispetto.

Un trolly pescato dall'Aurora: fattura vecchia di almeno un anno e, all'interno, lo scheletro che apparentemente sembra di un bambino, tanto ridotte appaiono le sue dimensioni. Abbaglio: le ossa sono quelle di una piccola contorsionista da circo, a cui è stato spezzato l'osso del collo. E il circo, in questa storia, c'entra eccome: a partire dal conflitto, tutto circense, tra il clown bianco (l'apollineo) e il clown augusto (il dionisiaco) e la magia del maestro Fellini che proprio di circo in molti casi si nutre.

Più o meno contestualmente al ritrovamento del trolly, una seconda gatta da pelare per la squadra omicidi di Rimini: una ricchissima ed enigmatica donna, Diamante Brandolini, viene uccisa davanti al portone di casa. Tutti gli indizi, finanche una telefonata lasciata nella segreteria telefonica dell'eccentrico patrigno di Costanza Confalonieri Bonnet Leo Liverani, convergono suil marito di Diamante, l'avvocato Nico Capresi.

Ma se per risolvere il primo caso ci sarà bisogno di una lente a contatto rigida trovata nel trolly oltrechè dell'infiltrazione del pratico Emerson nell'ambiente del Circo Kodra, per venire a capo della seconda indagine servirà proprio un orecchio assoluto e...una partita di calcio della Champions League in tv (succede anche questo!).

Ci vuole orecchio è la seconda, garbata e riuscita parte della tetralogia riminese di Gino Vignali nome, quest'ultimo, indissolubilmente legato a quello di Michele Mozzati (i celeberrimi Gino&Michele tra i fondatori, tra l'altro, della Smemoranda).

martedì 22 ottobre 2024

"Corpi al sole", di Agatha Christie

La premessa di questa nuova storia della regina del giallo è dei più promettenti: i corpi al sole all'isola del Contrabbandiere che eccezionalmente annoverano tra le loro fila anche quello di Hercule Poirot (ebbene sì, incredibile a dirsi, pure l'ispettore belga si lascia tentare dalle sirene agostane) sono assimilabili ai corpi allineati sui tavoli di marmo de La Morgue, l'obitorio di Parigi. A una prima e superficiale vista infatti, appaiono pressochè tutti uguali, proprio come i bagnanti che cercano requie dal caldo prendendo i bagni di mare.

Se a questa prima, lugubre riflessione, aggiungiamo il sentore della presenza del male nel luogo di villeggiatura lamentato dal reverendo Stephen Lane, il quadro è completo.

La conturbante Arlena Stuart, la classica donna per cui ogni uomo è disposto a perdere la testa, porta lo scompiglio nel clima alquanto compassato dei bagnanti dell'isola del Contrabbandiere.

È evidente agli occhi di tutti che l'ultima vittima della mangiatrice d'uomini è l'aitante Patrick Redfern che pure sarebbe innamorato della moglie, l'eterea e cerebrale Christine.

Al fascino di Arlena, però, non si resiste. E ciò nonostante in vacanza siano presenti anche il capitano Marshall, suo consorte taciturno e introverso e la figlia di quest'ultimo, la suggestionabile Linda.

Insolitamente per la sue abitudini, Arlena si sveglia presto e non fa colazione in camera: ha fretta di recarsi a un appuntamento e per arrivarvi indisturbata prega il solerte Poirot, incrociato per caso, di non fare parola di quell'incontro. Quindi sale in barca e fa rotta verso una delle tante insenature che drappeggiano la costa frastagliata.

Anche Patrick assieme alla signorina Brewster è sulla barca e sono proprio loro due a scoprire più tardi il corpo di Arlena che galleggia senza vita: strangolata con una forza che può appartenere solo a un uomo.

Con chi si doveva incontrare la donna? E chi, oltre al marito e alla figliastra, si sarebbe avvantaggiato della cospicua somma di danaro donata ad Arlena da uno dei tanti spasimanti?

Hercule Poirot è chiamato, pure nell'occasione rarissima di una sua vacanza, a sbrogliare la matassa. Il sagace ispettore intuisce da subito che si trova al cospetto di un delitto "rifinito".

Occorre mettere quanto prima in funzione le sue proverbiali celluline grigie: tra bottiglie lanciate da un balcone con l'evidente premura di liberarsi del loro contenuto quanto prima, un libro di stregoneria con l'annessa bambola di pezza i cui resti sono stati bruciati nella bocca del camino; e ancora, tra un orologio da polso manomesso per ben due volte per far credere possibile quello che il trascorrere del tempo escluderebbe, e una grotta piena zeppa di scatole di eroina (tanto per complicare un po' le cose), la mente conseguenziale di Poirot lavora alacremente.

A un certo punto capisce di aver bisogno di ricorrere agli annali della criminologia: in un altro posto dell'Inghilterra, uno strangolamento con caratteristiche oggettive e soggettive troppo simili al caso di Arlena.

È la conferma che l'ispettore attendeva e dopo una "merenda" pretenziosa organizzata con tutta la comitiva per stemperare la tensione ma che serve, a conti fatti, per mettere a punto gli ultimi dettagli, il brillante Hercule è pronto a svelare l'identita dell'assassino e il movente.

 

"La collina dei delitti", di Roberto Carboni

La scelta di un libro, almeno per quanto mi riguarda, è sempre un'operazione complessa. In questo caso, per esempio, non conoscevo l'autore e il titolo mi sembrava troppo abusato. Poi nella quarta di copertina, leggendo la biografia di Roberto Carboni, ho scoperto che nel 2018 ha vinto il SalerNoir Festival.

Mi sono deciso, spinto da una sorta di curiosità conterranea, ad acquistarlo e fin dalle prime pagine, ho capito di aver fatto un buon acquisto.

Ci troviamo in un territorio compreso tra Bologna e Modena, dove sulle colline di Montebudello viene rinvenuto un primo cadavere. Ha la testa mozzata e le mani amputate con l'evidente scopo di impedirne l'identificazione. A questa prima scoperta ne fanno seguito ben altre quattro, tutte riguardanti persone uccise molti anni addietro e ivi seppellite.

Gabriele è un uomo appagato. È un architetto proiettato verso una carriera brillante, ha una moglie e una figlia piccola che ama e da cui si sente amato.

Silvia è una donna senza scrupoli, rampolla di un importante industriale, per cui le regole morali sono solo un trascurabile orpello.

Anna Paola è una ex modella di origini sudamericana che avrebbe voluto essere parte integrante di quel mondo dorato che pure ha sfiorato, ma da cui è stata ben presto espulsa.

Cosa hanno in comune queste tre persone? L'appartenenza per stato (Gabriele e Silvia) e per desiderio (Anna Paola) alla società che conta. E, dato di importanza capitale, l'aver fatto parte, involontariamente o in piena coscienza, del Klub.

In certi ambienti, si sa, l'esoterismo è un trampolino di lancio per le carriere professionali dei suoi adepti.

Il gioco, però, si spinge troppo oltre. Ci sono i Negromanti, Oduyan e Prizrak, che allestiscono messe nere, che si attardano in sadismi di una crudeltà inaudita, che praticano riti in cui non è raro che ci scappi il morto.

Il commissario Alvoni, che si spara la musica black-metal direttamente negli auricolari quando ha bisogno di pensare, intuisce che i cadaveri della collina possano avere a che fare con l'ambiente dell'esoterismo. Ha bisogno, però, di prove per condurre in porto le sue indagini.

Gabriele, dal canto suo, capisce ben presto che la notizia di quegli inquietanti ritrovamenti lo riguardano in qualche modo. Sì, ma in che maniera? Una parte del suo passato è stata rimossa. E mano a mano che l'architetto recupera brandelli di memoria, si rende conto di aver svolto, suo malgrado, una parte in quel contesto di riti magici e divinazioni.

È una Bologna invernale, questa dell'intrigante libro di Carboni, dove quello che appare non è mai quello che dovrebbe essere e dove un'antica sapienza, che passa dalle pratiche rituali al Cimitero del Diavolo in una zona della profonda Russia, viene evocata con conseguenze imprevedibili e spesso mortifere.

Alla fine il singolare commissario Alvoni dovrà accontentarsi, come direbbe il suo celeberrimo collega Montalbano, della "mezza messa" perchè, quando si toccano delle personalità che muovono ingenti capitali e dirimenti influenze, la verità non è mai piena.

"Una vita", di Italo Svevo

Alfonso Nitti, giovane che avrebbe trascorso tutta la vita nel suo paesello con mamma Carolina e chissà, magari sposando Rosina, viene assunto alla banca Maller.

Si sposta quindi in città, avvertendo fin da subito la risacca della nostalgia per un mondo semplice da cui si sente improvvisamente estromesso.

Il microcosmo della banca è costellato da invidie, arrivismi, piccoli e grandi grettezze. Alfonso, con qualche velleità filosofica, si sente depotenziato. L'unica consolazione è quell'oretta trascorsa nella biblioteca comunale a sognare soddisfazioni, magari letterarie, ulteriori.

Va a pigione dalla famiglia Lanucci che punta sul riscatto, soprattutto economico, rappresentato da un possibile e auspicato fidanzamento di Lucia proprio con Alfonso. Alla fine, non solo questo fidanzamento non ci sarà, ma Lucia verrà sedotta e quasi abbandonata da un operaio che ritira ben presto la parola data.

Frattanto il Nostro è ammesso agli appuntamenti settimanali in casa Maller: Annetta, la civettuola e glaciale figlia del direttore della banca, prova anche a scrivere un romanzo a quattro mani con Alfonso di cui, a conti fatti, si potrebbe fare tranquillamente a meno.

Ben presto tra Alfonso e Annetta scoppia qualcosa che potrebbe far pensare all'amore se non fosse, da entrambe le parti, troppo contaminato con le rispettive convenienze e la reciproca incapacità di abbandonarsi al flusso degli eventi.

All'impiegato giunto dal paesello potrebbero bastare i baci e le carezze che ogni tanto i due giovani si scambiano. Francesca però, la governante che vorrebbe utilizzare Alfonso come pedina per lo scacco matto al vedovo Maller, lo spinge a osare di più.

Si passa finalmente il segno. Annetta dev'essere innamorata, ora che la sua insensibilità non è valsa a proteggerla del tutto. Dovrà convincere il papà, il fratello, dovrà stornare dal capo di Alfonso l'etichetta di arrivista.

Gli chiede di pazientare per un po'. Alfonso, dal canto suo, decide di ritornare al paese. Perchè? Perchè vule concedere il tempo ad Annetta di ricredersi, quello stesso tempo che Francesca lo esorta a non lasciar passare invano, se non vuole perderla definitivamente. Caso vuole che, una volta tornato a casa, viene a sapere della malattia della mamma.

La licenza accordata inizialmente dalla banca per quindici giorni, diventa lunga più di un mese: il tempo necessario per il figlio di raccogliere l'ultimo rantolo di mamma Carolina.

Alfonso ritorna in città e al lavoro in banca, trovando esattamente quello che si aspettava di trovare: Annetta dimentica di lui e promessa sposa al cugino.

Poco male. In compenso riguadagna la libertà del saggio.

Poi però arriva la punizione immeritata: lo spostamento alla contabilità della Banca. E lui che ha bisogno di ingolfarsi in parole e periodi che possano cauterizzare le sue ferite, si sente perduto al cospetto di cifre con le quali non si raccapezza.

Nell'intento di riportare un singulto di giustizia purchessia, offre la dote a Lucia che le dovrebbe impedire di essere abbandonata dal moroso.

Dopodichè, una volta fattosi persuaso della sua inettitudine alla vita e avendo realizzato con febbrile lucidità che "bisognava distruggere quell'organismo che non conosceva la pace", si toglie la vita.

Il tenore della lettera finale di Maller & C. al signor Mascotti è il giusto epitaffio su una vita, quella dell'impiegato Alfonso Nitti, che merita di scolorire nell'irrilevanza.

"Dopo le esequie", di Agatha Christie

L'incipit è alquanto consueto: Richard Abernethie, ricco possidente che dopo la morte del figlio Mortimer, erede designato delle sue ricchezze, perde ogni interesse alla vita, spira nel suo letto.

Il notaio Entwhiste, amico di una vita prima che esecutore testamentario delle volontà del defunto, convoca i fratelli e i nipoti nella casa avita.

C'è un testamento da leggere e una pletora di beneficiari della fortuna del vecchio. La situazione è quella classica, e classiche dovrebbero essere le modalità di svolgimento della seduta senonchè, come un fulmine a ciel sereno, arrivano le parole di Cora Lansquenet, sorella del defunto: «Voglio dire che è stato ucciso, non è così?»

Ora si sa, Cora è stata sempre un po' svampita, con l'abitudine di dire quello che pensa anche quando se lo sarebbe tranquillamente potuto risparmiare. La parìa Cora, che ha sposato un pittore inviso alla famiglia ed è diventata pittrice lei stessa però, ha una qualità conosciuta benissimo anche dal notaio: è inopportuna ma spesso quello che dice merita quantomeno attenzione.

Entwhiste, allora, comincia a guardare alla morte del vecchio amico con occhi diversi. E se la singolare Cora c'avesse ancora una volta visto giusto?

C'è un problema: tutti gli eredi, sia quelli di prima generazione che quelli di seconda, si trovano in una situazione finanziaria tale che la morte di Richard Abernethie non può non avvantaggiarli.

Urge l'intervento del nostro Hercule Poirot.

Nel frattempo Cora, a cui pochi giorni prima di morire Abernethie aveva fatto visita, viene uccisa con un'accetta. E come se non bastasse la sua governante, l'impeccabile signorina Gilchrist, per poco non ci lascia le penne per via di una torta all'arsenico che si presume essere arrivata per posta.

Ci sono, infine, suore enigmatiche che appaiono e scompaiono nei momenti cruciali, attori di teatro veri e altri che la cupidigia, o un sogno inseguito da troppo tempo e mai potuto realizzare, rende più realistici del vero.

In tutto questo l'ineffabile Poirot si trova in alto mare: tutti sembrano avere alibi e vite irreprensibili. Ma qualcuno trama nell'ombra, e ciò diventa chiaro soprattutto quando l'acuta vedova Helen, che si è improvvisamente ricordata di un particolare fondamentale, per poco non viene uccisa con un pesante fermacarte.

A Hercule Poirot, del tutto insolitamente privo di appigli su cui modellare le sue brillanti intuizioni, non resta che mettersi in ascolto, convinto com'è che quando si parla, anche il più attento mistificatore, finisce per tradirsi.

A sugello di tutto, c'è un tavolo di malachite con dei fiori in cornice che vengono ricordati integri quando ormai non lo sono più.

Il gioco, a questo punto, è fatto. Partita vinta per Hercule Poirot.