martedì 31 marzo 2015

Paolo Conte, mannaggia a te!

Paolo Conte, mannaggia a te! A te che te ne stai lì, col baffo sornione e lo sberleffo ringalluzzito di chi ha capito che la fuga dalla vita è la quintessenza.

A te, Conte Paolo, che ti diverti e ti estenui, rannicchiato nell’ombra dei tuoi diesis e bemolle capaci di strapparmi un sorriso di tregua ad ogni accordo. Eppure non ci sarebbe nulla da sorridere, mannaggia a te… e mannaggia pure a me che continuo a sorridere come uno scimunito, sprofondato in fondo ad una città.

Prima di quella sera, prima che l’orchestra illusa a Napoli del San Carlo mi ribadisse che sì, Max, la tua facilità non semplifica, Max, sciorinando lamine di luce lungo il mio angusto universo musicale, avevo una vita “ganza”. Poi (che Atahualpa o qualche altro dio ti fulmini), con l’aggettivo giovane (“ganza”, per l’appunto), è scomparsa dalla mia vita pure Marisa.

Meschina! Mi amava, in estate mi portava (sempre) a far due passi in riva al mar. Ma come sopravvivere, poveretta, al ventiquattresimo rewind  per capire se il termine masnaia di Ludmilla fosse proprio masnaia? Salvo poi (mannaggia a te, mannaggia!) precipitarmi raggiante a casa di Marisa e rivelarle che il mistero era bell’e svelato: la parola masnaia del Paolo Conte “Del tempo fatto di attimi e settimane enigmistiche” era stata inventata (non sense) di sana pianta. Insomma, uno dei suoi tuoi tanti, ingarbugliati giochi linguistici… mannaggia a te, mannaggia!

Ricordo che oscillava misterioso il lampadario. Ma questo è secondario. Primario fu il tuo: <<A me è sempre piaciuta la disco. Il tuo Paolo Conte è out>>.

E siam rimasti lì, chiusi in noi, sempre di più.…

Mannaggia a te, avvocato di Asti!

Ora, mentre sto pestando l’uva nel tinello marron, mi squilla il cellulare. È Jimmy che m’invita al concerto di Tiziano Ferro. Mi dice che c’è folla, che con lui ci stanno pure due tipe che conosco per la loro insulsaggine. Io ci rifletto un po’ su. E poi gli dico: <<Jimmy – ridendo e scherzando – non vorrei dire, però… ci meritiamo, di più, di più!>>

Paolo Conte, mannaggia a te, mannaggia! Prima di te avevo sempre l’ultimo modello di cellulare e ora non so resistere alla tentazione del telefono con la rotella che fa da sottofondo alla sigla di Carosello. Suonavo il pianoforte digitale che ho barattato con uno verticale con i tasti ingialliti dai night del secolo scorso. Mi lavavo con profumi ed essenze, ora il mio corpo conosce e reclama solo il suggestivo pulito della saponetta. Ballavo l’ultimo hip-hop e ora nessun grammofono di frontiera mi dà l’incendio di un’habanera.

Mannaggia a te, Conte Paolo!

Sono invitato al matrimonio di Ettore. Si è sposato a novembre perché, da pianista di piano bar, mi dice che non si guadagna con le note “blue”.

Ora mi annoio più di allora. Fuori il locale piove un mondo freddo. Io, sotto lo sguardo vitreo dei bicchieri di boemia, vengo assalito da un delirio agguato di nostalgia.

C’è un pianoforte a coda lunga, nero che ingentilisce la sala. “Non mi fido, – penso tra me e me – in certi casi un pianoforte è un grido, ci sono gambe che si sfiorano e tentazioni che si parlano”. E infatti una bionda (esasperante il suo languor) confabula con la sposa fino a quando quest’ultima, ammiccante, mi chiede: <<La vuoi conoscere Madeleine? È austriaca!>>


È bella quanto il sole. Ma d’istinto rispondo: <<Io parlo male il tedesco, scusa, pardon!>> Poi, per cercare di giustificarmi, spiego: <<Non vedo tra parentesi nessuno, venuto da lontano per esistere con me>>.

Mannaggia a te, Paolo Conte!

Grut-grut-grut, pot-pot-pot, cling-cling-cling… è un traffico africano che mi avviluppa non appena esco dal locale.

Torno a casa tardi. Accendo la luce. Va via la corrente.

Mi sorprendo a sorridere. (Mi) offro l’intelligenza degli elettricisti, così almeno un po’ di luce (la stanza) avrà.

Mi metto al pianoforte, con la finestra aperta nonostante la notte gelida. C’è un po’ di vento, abbaia la campagna e c’è una luna in fondo al blu.

Le intemperanze luminose del Mandingo, un sexy shop di recente apertura, come un lampo giallo al parabrise, mi rimandano al Mocambo che fu tutto in fior.

Torna la corrente. Improvvisamente, però, i miei occhi si ribellano alla luce da neon della plafoniera. Accendo, allora, la pallida lampada araba, sognando ‘na scudisciata turcomanna a mezza luna.

Suono rievocando la giarrettiera rosa di tutte le Madeleine che mi sono perso e batte, batte forte il cuor sul territorio dell’amor.

Tra una pausa e un’acciaccatura s’infilano le bestemmie dell’ing. Piastretta del piano di sopra. E nonostante ribadisca il concetto (mannaggia a te, Paolo Conte!), mi sento fradicio di magia.

giovedì 19 marzo 2015

Mi sono rotto il cazzo: fenomenologia di una ribellione

Mi sono rotto il cazzo. Ci sono delle espressioni, delle parole, che se tenute imprigionate nella cavità pavida e benpensante della laringe, a lungo andare ti ustionano il cervello. E  allora diventa imperativo morale scaraventarle fuori, sputarle nel campo insanguinato dall’ennesimo sacrificio. E mi sono rotto il cazzo proprio perché, ad essere sgozzato, è il futuro. Il mio…ma anche il tuo, il nostro.

Expo, Mose, Mafia Capitale; per limitarci al solo 2014. Adesso, l’inchiesta che vede indagato Ercole Incalza, il gran boiardo di Stato, sopravvissuto a 7 governi e a 14 inchieste.

Anche ora,  le fanfare mediatiche a recitare all’unisono che “bisogna che la giustizia faccia il suo corso”, che “il Ministro Lupi non è indagato”, che “il rolex da 10000 euro e rotti regalato al figlio del Ministro è un innocuo cadeau”, che “bisogna essere garantisti…”.

Tu, deputato da diecimila euro al mese, che accavalli con classe la gamba che ti è servita tante volte a genufletterti davanti al padrone di turno, di’ le stesse cose a Marco, che dopo la laurea in medicina con il massimo dei voti, un master costato il TFR di Giandomenico, adesso lava i piatti in un pub londinese in attesa dell’elemosina di una chiamata. Oppure parla con Marika, il cui unico sogno era quello di sposare Rocco e di avere dei figli…“almeno tre”, mi dice adesso tra le lacrime, mentre si ritrova con una prece tra le dita generata dal tumore che “costava troppo combatterlo efficacemente”.

Io, per Marco, per Marika, mi sono rotto il cazzo. Mi sono rotto il cazzo di rivolgermi, per tutelare i miei diritti, a un avvocato che è figlio di un avvocato il cui nonno, principe del foro di Salerno, “è l’avvocato che ha donato un’intera aula all’Ordine”.

Mi sono rotto il cazzo di guardare impotente la scala sociale che non lascia neppure affacciare, all’interno del gabbiotto in cemento armato irrimediabilmente fermo e inaccessibile, l’occhio del figlio dell’operaio destinato anche lui a sognare di calce e malta cementizia.

E ancora mi sono rotto il cazzo per Assunta che, nello stesso momento della sua elezione a presidente del circolo Culturambiente si è sentita in dovere, lei che si è esposta con l’equipaggio di Greenpeace alle ire dell’ennesima petroliera, a rifiutare la promozione perché suo nonno è imputato per abuso edilizio.

La politica, il denaro, la società ci hanno costruito un luna park di eterna gioventù, un paese delle meraviglie per cerebrolesi in cui ci fanno credere di avere tutto, ma dove manca la dignità di un lavoro, la prospettiva di una famiglia che possa essere davvero nostra.

Mi sono a tal punto rotto il cazzo, che cerco cittadinanza altra: non ce la faccio più a giustificare l’ultimo posto in Europa dell’Italia in tema di corruzione con le glorie che furono. Pur riconoscendone la grandezza imperitura infatti, non mi bastano più Dante, Galilei, Garibaldi a sopperire alla cronica mancanza di un esempio di vita che sia uno. Non riesco più ad ancorare la mia italianità alle mirabili opere d’arte disseminate lungo il Belpaese (che sicuramente, visto il degrado in cui vengono lasciate, si trasferirebbero in massa in Germania o in un altro Paese del nord Europa).

Mi sono rotto il cazzo delle Grandi Opere che, lungi dall’apportare benefici alla collettività, si rivelano sempre un’ennesima occasione di guadagno per i soliti noti. E pazienza (dal loro punto di vista), se per sfamare i ventri sfondati di questa o quell’altra cricca, si compie un altro scempio ambientale, magari trapanando una montagna per costruire un’autostrada laddove insiste già una strada sottoutilizzata che copre la stessa tratta. E pazienza ancora (sempre dal loro punto di vista), se per mettere su un carrozzone che vorrebbe insegnarci come mangiare a un paio di tiri di schioppo dalla Terra dei Fuochi e uno solo dalle mele insufflate con pesticidi di ogni genere, si espropriano terreni coltivati biologicamente o comunque campi che non torneranno più come prima.

La pazienza loro, non alberga in me. Io, come ripeto e mi piace farlo, mi sono rotto il cazzo. Foss’anche solo perché, per colpa di molte, troppe persone, ho dovuto scrivere ‘sto pezzo ricorrendo a un linguaggio che non avrei forse mai utilizzato, o almeno non con questa frequenza, in contesti ufficiali come questo.

D’altronde, essendo senza dubbio indegno di odiare l’indifferenza di Gramsci, non potendo ricorrere al magnifico Io me ne fotto di Peppino Impastato; e ancora finanche lontano dal Vaffanculo intonato di Masini io, più umilmente, ma non senza partecipazione, urlo il mio, e spero anche vostro, "mi sono rotto il cazzo".

 

martedì 17 marzo 2015

Peppino il giardiniere

La storia di Peppino il giardiniere che, “con le sue piantine maleodoranti, scioccamente festose”, mina dalle fondamenta l’impero dell’ing. Costa.

Non ci stavano santi: gli bastava solamente vederlo perché le sue viscere, tarantolate dall’avversione, ingolfassero le uscite di sicurezza!

Sempre lì, all’ingresso della sua fabbrica, intento a prendersi cura di quelle erbacce maleodoranti, scioccamente festose. Già, festose: proprio come quel sorriso da ebete che albergava perennemente nel suo volto. Che poi: ma che minchia c’aveva mai da sorridere, Peppino il giardiniere?

Pigliava la miseria di 600 euro al mese, non aveva uno straccio di proprietà e si permetteva financo il lusso di essere felice? Pazzesco!

Proprio per evitare questa situazione d’insofferenza non appena le traiettorie oculari intercettavano la presenza di Peppino, l’esimio ingegner Costa aveva battuto ogni strada percorribile. Ma si sa, i sindacati, lo Statuto dei lavoratori: zavorre antistoriche che appesantivano il suo volo messianico verso la tirannia!

Quale cavillo giuridico invocare infatti, per licenziare un reietto che si ostinava ad essere sempre puntuale, a non assentarsi mai e, per di più, a dimostrarsi sfacciatamente bravo nel suo lavoro?

Certo, poteva accusare Peppino il giardiniere di essere comunista. Come lo sapeva? Lapalissiano: uno che ride lavorando senza avere nemmeno gli occhi per piangere, non può che essere comunista. E allora? Cosa avrebbe raccontato al giudice del lavoro? Che lo licenziava perchè cantava bandiera rossa  mentre si prendeva cura dell’orto?

Pensava queste cose, frattanto che varcava l’ingresso con il suo gippone, bestemmiando fumo grigio e nero. E queste cose continuava a pensare, appena entrato nel suo ufficio.

Non c’era da filosofeggiare: doveva trovare un metodo per renderlo inoffensivo. E già perché, Peppino il giardiniere, era davvero pericoloso…anzi: pericolosissimo! Insomma, un sovvertitore dell’ordine costituito. La prova? L’abbandono degli studi in giurisprudenza, a due esami dalla laurea, per dedicarsi a quelle sue maledette piantine.

Bastava però che guardasse le torri metalliche della sua fabbrica, il vigore opaco degli spocchiosi pennacchi, perché l’eccelso ingegner Costa dimenticasse ogni dispiacere. E a quel punto, che se ne andasse pure al paese di pulcinella Peppino il giardiniere con tutte le sue piantine del cavolo!

Quel giorno poi, aveva la riunione con il ghota della finanza internazionale. Un affare troppo importante per la CostaGas.pm10.

Il padiglione riservato alla riunione era il primo, quello prospiciente l’ingresso della fabbrica e quindi, il giardino. E questo era bastato ad innestare l’autoscontro viscerale dell’ingegnere. Poi però, pensandoci bene, non potè far altro che convenire con gli organizzatori sulla scelta del luogo: era infatti il primo, il padiglione meglio tenuto della sua pantagruelica fabbrica.

Eppoi, perché mai avrebbe preferito una soluzione diversa? Non c’era motivo! Eppure…eppure aveva uno strano presentimento, ecco tutto.

La riunione ebbe inizio. Si poteva osservare una carrellata spasmodica di facce color cemento, di bocche artatamente arcuate, di vestiti ammantati di chiuso.

Dopo poco meno di un’ora, il briefing si avviava alla conclusione. Esito? L’onnipotente ingegner Costa aveva raggiunto l’accordo per l’installazione di un’altra appendice del suo impero industriale, proprio lì, in India: successo a 360°!

Tutto filava liscio. Ogni cosa aveva ormai seguito, mansueta, le orme del suo volere. Eppure…eppure!

Uscirono tutti, tristemente felici per l’accordo raggiunto.

Si poteva vedere, tra milionari cianotici, guardie del corpo imbalsamate e cravatte funeree, un fiume epilettico di mille e più guadagni. La piena era diretta verso il parcheggio, dirimpetto a quell’angolo di giardino.

All’improvviso il flusso prezzolato cozzò contro la diga: 60 mq di erbacce maleodoranti, scioccamente festose. E lì, tra un roseto e un pino, si udì l’azzurro sorridente di Peppino.

Li vide mentre lo vedevano. Spiantò i cartelli del distacco (si prega di non calpestare le aiuole, pregasi di non toccare i fiori…), vi piantò quelli della rinascita (si prega di calpestare le aiuole, pregasi di toccare i fiori ).

Quel diavolo di Peppino il giardiniere, si avvicinò all’inerme ingegner Costa. Lo prese per mano. Lo condusse nel giardino. Gli sussurrò qualcosa all’orecchio. L’industriale allora, irretito da quel sorriso magnetico, si tolse le scarpe, le calze. Appoggiò i piedi finalmente nudi sul prato.

Tra i gli innumerevoli, immensi torrioni della fabbrica, s’intravide una frangia di cielo.

E fu così che proprio lì, tra le aiuole e l’ulivo secolare, sbocciò il sorriso dell’uomo Costa.

Verde di pino, giallo di grano, vivo di vita.

martedì 10 marzo 2015

Il lettore di ebook "alle porte" della mia biblioteca



Sogno il lettore di ebook “alle porte” della mia biblioteca.

Avverto il terrore che atrofizza le sinapsi, il sudore che imperla la fronte: tutto tremendamente realistico.

E con la paura del lettore di cui sento nel cuore, prima ancora che nella testa, lo sferruzzare dei suoi megabyte che snocciolano libri su libri, mi vedo correre verso la biblioteca. Più do lena alle mie gambe, però, più mi rendo conto che il corridoio che mi separa dai miei libri sembra ormai aver scelto da che parte stare: io corro, ansante e disperato, mentre esso si perde, scuro e cospirativo, in una proiezione verso l’infinito.

E nel correre, malgrado lo sfrigolio snervante degli ebook che continuano minacciosamente a immillarsi, penso a loro, ai miei libri. Alla pagina numero dieci de I demoni di Dostoevskij in cui se ne sta allusiva una macchia, in alto a destra, testimone del cioccolato mangiato insieme ad un amico che non c’è più; al caffè dell’una di notte versato inavvertitamente su La pazienza del ragno di Camilleri per cercare un universo altro alla sfiancante procedura civile; alla foglia di edera che una mano, gemebonda e trasognante, abbandonò nella pagina trenta de Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa.

Ma poi, oltre alle mille sottolineature, alle centinaia di Vincenzo Benvenuto seguite da date disparate (vero carbonio-14 dell’evoluzione della mia personalità), mi affanno a correre per salvare dalle grinfie dell’ebook l’odore inimitabile e suggestivo dei miei libri. Quelli comprati da poco, arrembanti nel profumo ma ancora acerbi nelle suggestioni, nonché gli altri che sono nati con me, ormai smorzati nell’odore ma capaci di infiniti rimandi.

Poi, ovviamente, c’è da pensare a quegli altri libri, quelli tipo Selezione dal Reader’s Digest, troppo americani e con un’anima esasperatamente commerciale per piacermi, ma che forse salverò prima degli altri nell’illusione che, da qualche parte, conservino ancora un segno, un’impronta delle mie radici.

Le gambe diventano pesanti. La corsa, giocoforza, rallenta. Il lettore di e-book lo avverto, adesso, trionfante, disposto anche a rinunciare a quella parte di corridoio che ancora mi divide dalla biblioteca. Ed è così che mi trovo al centro della stanza, al cospetto di un’intelaiatura di radica di noce pressoché vuota. Sulle mensole incurvate dal peso dei libri che furono, c’è solo un ostinato velo di polvere che suggerisce dimensioni, posizioni dei volumi che vi regnavano incontrastati.

Il lettore di ebook, tronfio e vittorioso, occupa un piccolo, quasi anonimo spazio al centro della mensola principale.


Mi corteggia col suo design. Mi avvince con la sua tecnologia. Mi prende con la sua essenzialità.

L’epilogo del sogno mi sorprende contento. Il capitale di Marx in un supporto accattivante che mai, come succede con i libri a causa del titolo, mi farà sentire a disagio per quello che leggo e, soprattutto, per dove lo leggo. E infatti, proprio per sfruttare subito questo vantaggio, e non senza euforia per il tiro che sto giocando all’istituzione, mi metto a leggere un brano de Il capitale in una riunione alla Camera di Commercio, Industria e Artigianato di Salerno.

Il lettore di ebook mi fa approfondire, mi porta lungo i sentieri assolati della interdisciplinarietà.

Cambio scena, l’ennesima. Mi vedo assonnato per il protrarsi della riunione e per il mal di testa che sempre mi assale quando leggo mentre gli altri parlano.

Chiudo gli occhi. Mi addormento. Mi sveglio di soprassalto.

La foglia di edera!“, mi metto a cercare, allarmato, per terra. Poi mi rendo conto: quello che ho in mano non è il mio libro ma solo un lettore di ebook che non potrà mai perdere, magari dal display, qualcosa che porta l’impronta di qualcuno.


martedì 3 marzo 2015

"Niente di nuovo sotto il sole": vince De Luca



Dalla finestra di casa mia, ho partecipato all’evento. Il caso ha voluto, infatti, che il De Luca-day si celebrasse (in parte, beninteso) nella scuola dirimpetto alla mia abitazione.

E io, almeno per una mezz’oretta, ho voluto assistervi. Mi sono fatto far compagnia, nell’ordine, da un paio di tazze di caffè, dallo Shrek di gomma che lanciavo, a intervalli più o meno regolari, al mio cane, dalla tristezza che sempre promana da un circo malandato, con bestie macilente, che si vende l’anima per staccare un biglietto in più.

Guardando i votanti di De Luca (nel mio seggio i voti per l’ex sindaco hanno raggiunto il 95% del totale) felicemente armati dei due euro (il prezzo della partecipazione al teatrino), ho visto una sfilata di personaggi, chi più chi meno, legati al potere cittadino: membri delle istituzioni locali che danno il voto al ras; dipendenti delle società miste che “Se non era per De Luca, facevamo la fame”; qualche imprenditore rampante, magari anche giovane, “Che è meglio stare con De Luca che contro”; alcuni politicanti di mezza tacca “Che Vicienzo non potrà scordarsi dei voti che gli porto”.

Mi sono involontariamente sorpreso a sorridere. A tal punto che pure Birillo, il mio cane, ha preso a guardarmi fisso, con la testa leggermente reclinata, come sempre fa quando vuole capire l’atteggiamento del padrone che non riesce a decifrare.

Ho sorriso, è vero, ma di un sorriso stanco. Mi sono ricordato (un ricordo, per via dell’età, più indiretto che personale) quando i comunisti, con lo sguardo affamato di diritti, con il callo dello scrittore sempre più marcato rispetto a quello del figlio del medico, si recavano alle urne per concretizzare il cambiamento. Li vedevi giovani (a prescindere dall’età), con i nervi tesi dalla lotta, fiduciosi che l’ascensore sociale (il classico figlio del contadino che deve poter diventare dottore) avrebbe dovuto funzionare anche per loro.

Per il De Luca-day (ecco il motivo del mio riso triste), per le primarie del PD, partito che dovrebbe incarnare l’evoluzione della Sinistra, ho visto votanti… di destra. Svogliati, appagati, inseriti o in via d’inserimento nell’ingranaggio del potere. Il posto del grande cambiamento (quello che avrebbe dovuto essere e non è) l’ho visto arrogantemente occupare dalla BMW, parcheggiata nello spazio riservato ai disabili, che ha trasportato una testa di cazzo che si recava al seggio.

Lo confesso: ho sperato che quel tizio non fosse conosciuto da nessuno. Non dico disprezzato, ma almeno ignoto agli elettori. E invece, appena imboccato il viottolo della scuola, ecco che il manipolo di votanti del De Luca-day gli ha tributato un’ovazione degna di miglior sorte.

Ho pensato (e giuro, mi sono ripromesso di non pensare più) a quando il vecchio PCI addirittura (e in maniera sbagliata, sia chiaro) proibì a “il Migliore”, Palmiro Togliatti, di ripudiare ufficialmente la moglie per unirsi alla compagna Nilde Iotti: tutto questo, ovviamente, in nome di un partito inattaccabile e “morale”. E quindi, sulla scorta del PCI che fu, mi deprimo al solo considerare lo status quo: Vincenzo De Luca imputato, osteggiato dal suo segretario (la minuscola è voluta) per “salvare le apparenze” che, a dispetto del suo partito, si candida contro un figlioccio del pessimo (a parte una breve stagione riformista) Bassolino. Ma vi è di più: non solo decide di candidarsi infischiandosene del vulnus di legalità arrecato a quel che resta della famiglia di appartenenza, ma vince pure, con il contributo economico dei votanti che investono due per ricavare, in un modo o nell’altro, duecento.

Il sorriso di prima si è trasformato in un ghigno che Birillo non fa alcuno sforzo a capire, nel momento in cui mi raffiguro le dichiarazione del dopo voto. Ecco, con ancora nelle orecchie l’invito all’astensione di Roberto Saviano, vedo già il truce (ma, perché, oltre all’incazzato e al sarcastico, non riesce ad atteggiare il suo volto a qualch’altra espressione?) De Luca, sempre sul punto di pronunciare il verbo che giudicherà i vivi e i morti, che parla con gli occhi spiritati di “miracolo“, “festa della libertà“, “rivoluzione democratica“. Insomma, proprio le stesse parole che l’ex sindaco ripete da oltre un ventennio, per qualsiasi cosa, che vanno benissimo, beninteso, anche nella stagione della vittoria alle primarie del PD.

Nulla di nuovo sotto il sole (stanco).