Paolo Conte, mannaggia a te! A te che te ne stai lì, col baffo sornione e lo sberleffo ringalluzzito di chi ha capito che la fuga dalla vita è la quintessenza.
A te, Conte Paolo, che ti diverti e ti estenui, rannicchiato nell’ombra dei tuoi diesis e bemolle capaci di strapparmi un sorriso di tregua ad ogni accordo. Eppure non ci sarebbe nulla da sorridere, mannaggia a te… e mannaggia pure a me che continuo a sorridere come uno scimunito, sprofondato in fondo ad una città.
Prima di quella sera, prima che l’orchestra illusa a Napoli del San Carlo mi ribadisse che sì, Max, la tua facilità non semplifica, Max, sciorinando lamine di luce lungo il mio angusto universo musicale, avevo una vita “ganza”. Poi (che Atahualpa o qualche altro dio ti fulmini), con l’aggettivo giovane (“ganza”, per l’appunto), è scomparsa dalla mia vita pure Marisa.
Meschina! Mi amava, in estate mi portava (sempre) a far due passi in riva al mar. Ma come sopravvivere, poveretta, al ventiquattresimo rewind per capire se il termine masnaia di Ludmilla fosse proprio masnaia? Salvo poi (mannaggia a te, mannaggia!) precipitarmi raggiante a casa di Marisa e rivelarle che il mistero era bell’e svelato: la parola masnaia del Paolo Conte “Del tempo fatto di attimi e settimane enigmistiche” era stata inventata (non sense) di sana pianta. Insomma, uno dei suoi tuoi tanti, ingarbugliati giochi linguistici… mannaggia a te, mannaggia!
Ricordo che oscillava misterioso il lampadario. Ma questo è secondario. Primario fu il tuo: <<A me è sempre piaciuta la disco. Il tuo Paolo Conte è out>>.
E siam rimasti lì, chiusi in noi, sempre di più.…
Mannaggia a te, avvocato di Asti!
Ora, mentre sto pestando l’uva nel tinello marron, mi squilla il cellulare. È Jimmy che m’invita al concerto di Tiziano Ferro. Mi dice che c’è folla, che con lui ci stanno pure due tipe che conosco per la loro insulsaggine. Io ci rifletto un po’ su. E poi gli dico: <<Jimmy – ridendo e scherzando – non vorrei dire, però… ci meritiamo, di più, di più!>>
Paolo Conte, mannaggia a te, mannaggia! Prima di te avevo sempre l’ultimo modello di cellulare e ora non so resistere alla tentazione del telefono con la rotella che fa da sottofondo alla sigla di Carosello. Suonavo il pianoforte digitale che ho barattato con uno verticale con i tasti ingialliti dai night del secolo scorso. Mi lavavo con profumi ed essenze, ora il mio corpo conosce e reclama solo il suggestivo pulito della saponetta. Ballavo l’ultimo hip-hop e ora nessun grammofono di frontiera mi dà l’incendio di un’habanera.
Mannaggia a te, Conte Paolo!
Sono invitato al matrimonio di Ettore. Si è sposato a novembre perché, da pianista di piano bar, mi dice che non si guadagna con le note “blue”.
Ora mi annoio più di allora. Fuori il locale piove un mondo freddo. Io, sotto lo sguardo vitreo dei bicchieri di boemia, vengo assalito da un delirio agguato di nostalgia.
C’è un pianoforte a coda lunga, nero che ingentilisce la sala. “Non mi fido, – penso tra me e me – in certi casi un pianoforte è un grido, ci sono gambe che si sfiorano e tentazioni che si parlano”. E infatti una bionda (esasperante il suo languor) confabula con la sposa fino a quando quest’ultima, ammiccante, mi chiede: <<La vuoi conoscere Madeleine? È austriaca!>>
È bella quanto il sole. Ma d’istinto rispondo: <<Io parlo male il tedesco, scusa, pardon!>> Poi, per cercare di giustificarmi, spiego: <<Non vedo tra parentesi nessuno, venuto da lontano per esistere con me>>.
Mannaggia a te, Paolo Conte!
Grut-grut-grut, pot-pot-pot, cling-cling-cling è un traffico africano che mi avviluppa non appena esco dal locale.
Torno a casa tardi. Accendo la luce. Va via la corrente.
Mi sorprendo a sorridere. (Mi) offro l’intelligenza degli elettricisti, così almeno un po’ di luce (la stanza) avrà.
Mi metto al pianoforte, con la finestra aperta nonostante la notte gelida. C’è un po’ di vento, abbaia la campagna e c’è una luna in fondo al blu.
Le intemperanze luminose del Mandingo, un sexy shop di recente apertura, come un lampo giallo al parabrise, mi rimandano al Mocambo che fu tutto in fior.
Torna la corrente. Improvvisamente, però, i miei occhi si ribellano alla luce da neon della plafoniera. Accendo, allora, la pallida lampada araba, sognando ‘na scudisciata turcomanna a mezza luna.
Suono rievocando la giarrettiera rosa di tutte le Madeleine che mi sono perso e batte, batte forte il cuor sul territorio dell’amor.
Tra una pausa e un’acciaccatura s’infilano le bestemmie dell’ing. Piastretta del piano di sopra. E nonostante ribadisca il concetto (mannaggia a te, Paolo Conte!), mi sento fradicio di magia.
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