“Xenia”, questo è il nome scelto per l’operazione che ha visto finire agli arresti domiciliari il sindaco di Riace, Mimmo Lucano. “Xenia”, in greco antico, vuol dire ospitalità. E probabilmente un termine migliore, mutuato dal popolo per il quale più di tutti l’ospite era sacro, quello greco per l’appunto, non poteva trovarsi. E sì perché, se le accuse mosse a Lucano fossero corpi da poter mettere in controluce nell’accecante sole calabro, dietro al “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina” e al “fraudolento affidamento diretto del servizio di raccolta dei rifiuti”, rinveniremmo proprio questo: un’accusa all’efficace modello di ospitalità messo in piedi dal sindaco di Riace. Un “j’accuse”, a ben vedere, ancora più perentorio, vuoi per il clima di evidente intolleranza che si è venuta a creare nel Paese, vuoi perché il modello di Mimmo si è rivelato vincente.
Si badi bene, nessuno vuole entrare nel merito dell’inchiesta condotta dal procuratore di Locri, Luigi D’Alessio, un tempo alla procura di Salerno.
Come avvocato, però, non posso non convenire con quanto dichiarato proprio su “Le Cronache” di sabato 6 ottobre dall’ex presidente della Corte d’Appello di Salerno, ora alla presidenza della Fondazione “Menna”, Claudio Tringali.
Il problema riguarda, come sottolineato dall’illustre giurista, il profilo delle esigenze cautelari: davvero, nel caso del sindaco di Riace, ricorrono esigenze cautelari di tale gravità da giustificare l’adozione di uno dei più rigorosi provvedimenti come l’arresto?
Sinceramente, credo di no. A quanto mi è dato di capire, infatti, ci troviamo al cospetto di un’inchiesta fondata su documenti e intercettazioni, sulla c.d. prova documentale cioè, che difficilmente potrebbe essere “inquinata”; per quanto riguarda l’altra esigenza cautelare, quella del pericolo di fuga, sembrerebbe quantomeno paradossale che un sindaco che ha speso la vita ad accogliere chi fuggiva da scenari di guerra e disperazione, poi, proprio lui, all’improvviso tagli la corda davanti a un’inchiesta che si presume facilmente smontabile, com’è già successo con quella relativa alle O.N.G. portata avanti dal procuratore Zuccaro.
Infine, con riferimento al pericolo di reiterazione del reato, ancora una volta sono d’accordo con il dottor Tringali: se davvero il pm D’Alessio avesse ravvisato siffatto pericolo, ebbene, avrebbe potuto tranquillamente sospendere il sindaco di Riace dalle sue funzioni, senza alcun bisogno di ricorrere all’arresto.
Fin dal primo anno all’università, ho maturato l’idea che non esiste un diritto pienamente oggettivo. Troppo spesso, infatti, il diritto è frutto di scelte del momento, dell’ubi consistam della classe dirigente. Naturale conseguenza di questo corollario è, da un lato, che ciò che è legale, conforme al diritto in un dato periodo storico, potrebbe tranquillamente non esserlo più appena un lustro dopo; dall’altro, che quello che è legale per una parte della popolazione, fosse pure la maggioranza del Paese, non necessariamente è anche giusto.
Nelle “Memorie di Adriano” di Marguerite Yourcenar, a un certo punto, l’imperatore romano esalta la lingua greca, dicendo che, a differenza anche del latino, il greco “ha già dietro di sé tesori di esperienza, quella dell’individuo e quella dello Stato (…). Tutto quel che ciascuno di noi può tentare per nuocere ai suoi simili o per giovar loro, almeno una volta, è già stato fatto da un greco.”
E proprio un greco, l’illustre Sofocle, nel 442 a.C., con riferimento al contrasto tra Antigone e Creonte, tra leggi divine e leggi umane, aveva teorizzato un diritto alla disobbedienza che si ispira a principi più alti del diritto positivo, soprattutto quando il diritto in questione è chiaramente dispotico.
Già, dispotico. Ovviamente, parliamo del diritto di Creonte, ci mancherebbe.