martedì 14 aprile 2015

"Nell'Anno Mille", di E. Pognon



“Nell’Anno mille” di Edmond Pognon appartiene alla stirpe di quei libri che, fin dall’aspetto, non fanno nulla per incuriosire il lettore: copertina grigio antracite (eccezion fatta per un piccolo occhiello variopinto), dimensioni tozze, pagine claustrofobiche, titolo dimesso.

Insomma, “Nell’Anno mille” si meriterebbe appieno di essere relegato nei confini infami della bancarella del “tutto a un euro”. E invece, fin dalle prime pagine, si rivela un libro accattivante e, per alcune tematiche trattate, illuminante. Aggettivi questi (accattivante e illuminante) che ben si possono estendere a tutta la collana de “La vita quotidiana” – Fabbri editori – di cui anche quest’opera fa parte.

Si parte dall’affermazione (potenza delle parole!) di Michelet che, appena formulata, assume una forza devastante, a tal punto corrosiva da sciogliere l’attendibilità di studi, documenti che pur la confuterebbero in toto. Ma tant’è. A Michelet è bastato scrivere che “era credenza universalmente diffusa nel Medioevo che il mondo dovesse avere termine con l’anno mille dall’Incarnazione“, per foraggiare la credenza del “Mille e non più mille”.

Eppure già solo limitandoci agli argomenti affrontati in questo libro, possiamo vedere come, pur nella inevitabile stagnazione dovuta a una società profondamente arretrata e ferma, gli elementi vitali che sconfessino la c.d. “fine del mondo” da sempre (e a torto) associata all’Anno Mille, ci sono tutti. Basti pensare alla tenace applicazione della regola di Benedetto da Norcia (“riconfortare il povero, vestire l’ignudo, soccorrere chi si trova nella tribolazione, consolare l’afflitto“) da parte del movimento cluniacense che ha avviato un serio processo rigeneratore nella Chiesa del tempo. E come tralasciare di occuparci come prova, per l’appunto, della vivacità dell’Anno Mille, delle penitenze irrogate dal Penitenziale di Burcardo, vescovo di Worms? Con riferimento a queste ultime, poi, degne di nota sono le penitenze comminate per i “reati” sessuali, alcuni dei quali, a dire il vero, ci sorprendono perfino oggi per la loro perversità:

SE LUI ABBIA OFFERTO A TAVOLA UN PESCE, CHE POI LEI HA INTRODOTTO VIVO NELLE SUE PARTI INTIME, ESTRAENDOLO SOLO DOPO GLI ULTIMI SPASIMI DI AGONIA (…), SONO PREVISTI SETTE ANNI DI PENITENZA.

Restando in tema, la pena per la masturbazione prevista da Burcardo nel suo Penitenziale, è di venti giorni. Praticata in solitudine, costa dieci giorni di penitenza a meno che al posto della mano non si sostituisca un “legno forato” (circostanza, quest’ultima – si affretta a precisa il solerte vescovo – che “raddoppia la pena”).

A riprova della ricchezza di contenuti dell’opera non manca, ad esempio, la chicca linguistica: a chi voglia conoscere l’etimologia dell’aggettivo “banale”, infatti, basta sguinzagliare l’occhio proprio nelle pagine di “Nell’Anno Mille” per scoprirlo.

“Nell’Anno Mille” vuole essere un’analisi del Medioevo in tutte le sue sfaccettature, partendo dalla vita quotidiana dei potenti così come degli umili. E proprio questo voler dare cittadinanza all’aulico senza tralasciare il prosaico, invoglia il libro a toccare diversi registri, da quello didascalico (come quando l’autore si intrattiene a spiegare la denominazione delle diverse ore del giorno: “l’ora Prima al levar del sole; l’ora Terza intorno a metà mattina; l’ora Sesta a Mezzogiorno; l’ora Nona verso la metà del pomeriggio; Vesperi al calar del sole”), al registro “suggestivo” delle pratiche magiche grazie al quale, ad esempio, veniamo a sapere che per rendere impotente il marito, una sposa non ha da fare altro che questo: completamente nuda, si deve cospargere di miele, rotolandosi su uno strato di chicchi di grano; deve raccogliere poi tutti i chicchi rimasti attaccati al suo corpo e li deve macinare, facendo girare la mola nel senso opposto a quello della rotazione del sole. Fatto tutto questo, non resta alla sposa che confezionare un pane con quella farina e offrirlo al malcapitato.

In conclusione, “Nell’Anno Mille” di Pognon ha il grande merito, con la sua narrazione mai banale, di rivestire il Medioevo di rigore scientifico senza tuttavia tralasciare quegli aspetti, secondari ma altrettanto ortodossi, che servono a scongiurare il rischio di un’analisi troppo “pesante”.

martedì 7 aprile 2015

"Expo"sto alla Procura del Buon Senso



L’Expo di Milano.

L’ardimentoso e irredento Suolo Italico, nei giorni della Madunina che vanno dal 01 maggio al 31 ottobre 2015, ospiterà l’evento dopo il quale niente potrà e/o dovrà restare come prima, quando la terra, “orba di cotanto” cipiglio organizzativo, “percossa e attonita al nunzio sta(va)”.

Eccolo il filmato Luce che potrebbe annunciare l’Expo di Milano. E d’altra parte, i numeri ci sono tutti per eccitare la libidine italiota: un’area espositiva di 1,1 milioni di metri quadri, più di 140 Paesi e organizzazioni internazionali coinvolte, oltre 20 milioni di visitatori attesi.

Cannele, cannelotte e sei lumini.


I preparativi fervono. I cantieri sono madidi di fatica a ogni ora del giorno e della notte, per non farci trovare impreparati all’evento. Che poi, se proprio non si riuscisse a fare tutto tutto, c’è sempre il salvifico maquillage. E difatti, come testimonia il bando di gara, Expo è pronta a ricorrere a un trucco, o camouflage, da oltre 2 milioni di euro per coprire i suoi ritardi con paratie, trompe-l’oeil, prefabbricati e teli.

E per forza, aggiungerei io: noi, “Paese dell’Arte e dell’Inventiva“, c’eravamo portati avanti col lavoro, avevamo già completato l’assemblaggio della componentistica (pezzi di ricambio, maestranze, oli di tutte le viscosità – dal più grasso per gli Incalza di turno, al più delicato per lo sguardo altrove del consigliere – movimento terra, capace da solo di evocare l’apriti sesamo di Alì Baba e i quaranta ladroni).

Riversato nell’Expo tutto ‘sto popò di ingredienti, non ti viene la magistratura a fare la protagonista e a indagare su Cristo e la Madonna Vergine?

E via con il sempiterno clamore che assale l’opinione pubblica: tutti a starnazzare che è uno schifo, che ci vuole una legge seria sugli appalti per scongiurare i fenomeni corruttivi, e cicì e cicià.

Ma se dietro ogni pietra spostata in un cantiere (mi verrebbe da dire alla massa che si costerna, s’indigna, s’impegna) c’è sempre stato, in Italia, il caravanserraglio di speculazione, tangenti e corruzione varia, di che minchia ci sorprendiamo? Che poi, forse le Grandi Opere non si sono costruite lo stesso? Magari con una decina d’anni di ritardo sulla tabella di marcia, a volte con qualche crolletto qua e là, certe altre con un po’ di sabbia invece del cemento armato, ma comunque i lavori si sono realizzati, altro che ciance. Anzi, direi di più: con il nostro sistema, non solo abbiamo dotato le città di tutte le infrastrutture che ci hanno commissionato, ma abbiamo movimentato pure l’economia col distribuire un po’ di soldi a destra e a manca. Cosa che i tedeschi con la puzza sotto il naso dovrebbero venire a scuola da noi, piuttosto che uscire fuori di melone (ecco, mo ci vuole) e far morire 150 passeggeri in un aereo lanciato contro una parete rocciosa del sud della Francia. Certo, pure Schettino ha provocato un bel po’ di sfaceli lì sul Giglio, ma almeno l’ha fatto con la simpatia del comandante che si “terzèa” la hostess moldava, vuoi mettere?

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Ah, l’Expo! Nutrire il pianeta. Che fine nobile, che bella missione!

Dal 01 maggio al 31 ottobre, convoglieremo milioni di persone a Milano, sui terreni espropriati a prezzi irrisori ai contadini che li coltivavano, in molti casi, con colture biologiche. Li accoglieremo nei padiglioni allestiti, ognuno diverso e più ricco dell’altro, su quegli stessi campi che si vedranno irrimediabilmente invasi da cemento e paillettes. Il tutto per parlare di nutrizione equa e sostenibile.

E fosse solo questo! Per discutere del cibo a chilometro zero, all’Expo abbiamo fatto venire da ogni angolo del globo terracqueo persone e sementi variopinte, con spostamenti siderali di persone e alimenti.

Come dici? “Come se si affrontasse il problema dell’inquinamento da idrocarburi su chiatte petrolifere ammassate nel Mediterraneo mentre sono intente a lavare le cisterne?”

Cosa ancora? “Che basterebbe organizzare una mega chat su Skype per evitare che Milano venga intrappolata nella morsa dello smog, del caos e della claustrofobia da sold out“?

Il solito comunista disfattista, gufo, nemico del progresso. E io, mentre sulla stronzata di Skype non ti rispondo neppure, alla prima provocazione sai cosa rispondo? Quando il dito indica la luna, lo stolto guarda il dito!

Con l’Expo come con la TAV, sempre la solita, stucchevole storia: mentre tu guardi pateticamente all’inquinamento, alla cementificazione dell’evento di Milano; nel frattempo che fissi il tuo sguardo poetico sull’anonima Val di Susa; ebbene, mentre tu ti limiti a questo, noi guardiamo al prestigio dell’Expo così come al progresso che dovrà sventrare la tua montagnetta.

E se proprio l’opera dovesse rivelarsi inutile, poco male: avremmo sempre messo le ali all’economia… domestica.

Insomma, per intenderci, “Per le grandi opere non serve che ci sia traffico: si fanno e poi il traffico arriverà”.

Non riesci a rassegnarti allo Spirito del Tempo? Presenta pure un “Expo”sto alla Procura del Buon Senso, che io me ne sto fermo qui a scompisciarmi dalle risate.

martedì 31 marzo 2015

Paolo Conte, mannaggia a te!

Paolo Conte, mannaggia a te! A te che te ne stai lì, col baffo sornione e lo sberleffo ringalluzzito di chi ha capito che la fuga dalla vita è la quintessenza.

A te, Conte Paolo, che ti diverti e ti estenui, rannicchiato nell’ombra dei tuoi diesis e bemolle capaci di strapparmi un sorriso di tregua ad ogni accordo. Eppure non ci sarebbe nulla da sorridere, mannaggia a te… e mannaggia pure a me che continuo a sorridere come uno scimunito, sprofondato in fondo ad una città.

Prima di quella sera, prima che l’orchestra illusa a Napoli del San Carlo mi ribadisse che sì, Max, la tua facilità non semplifica, Max, sciorinando lamine di luce lungo il mio angusto universo musicale, avevo una vita “ganza”. Poi (che Atahualpa o qualche altro dio ti fulmini), con l’aggettivo giovane (“ganza”, per l’appunto), è scomparsa dalla mia vita pure Marisa.

Meschina! Mi amava, in estate mi portava (sempre) a far due passi in riva al mar. Ma come sopravvivere, poveretta, al ventiquattresimo rewind  per capire se il termine masnaia di Ludmilla fosse proprio masnaia? Salvo poi (mannaggia a te, mannaggia!) precipitarmi raggiante a casa di Marisa e rivelarle che il mistero era bell’e svelato: la parola masnaia del Paolo Conte “Del tempo fatto di attimi e settimane enigmistiche” era stata inventata (non sense) di sana pianta. Insomma, uno dei suoi tuoi tanti, ingarbugliati giochi linguistici… mannaggia a te, mannaggia!

Ricordo che oscillava misterioso il lampadario. Ma questo è secondario. Primario fu il tuo: <<A me è sempre piaciuta la disco. Il tuo Paolo Conte è out>>.

E siam rimasti lì, chiusi in noi, sempre di più.…

Mannaggia a te, avvocato di Asti!

Ora, mentre sto pestando l’uva nel tinello marron, mi squilla il cellulare. È Jimmy che m’invita al concerto di Tiziano Ferro. Mi dice che c’è folla, che con lui ci stanno pure due tipe che conosco per la loro insulsaggine. Io ci rifletto un po’ su. E poi gli dico: <<Jimmy – ridendo e scherzando – non vorrei dire, però… ci meritiamo, di più, di più!>>

Paolo Conte, mannaggia a te, mannaggia! Prima di te avevo sempre l’ultimo modello di cellulare e ora non so resistere alla tentazione del telefono con la rotella che fa da sottofondo alla sigla di Carosello. Suonavo il pianoforte digitale che ho barattato con uno verticale con i tasti ingialliti dai night del secolo scorso. Mi lavavo con profumi ed essenze, ora il mio corpo conosce e reclama solo il suggestivo pulito della saponetta. Ballavo l’ultimo hip-hop e ora nessun grammofono di frontiera mi dà l’incendio di un’habanera.

Mannaggia a te, Conte Paolo!

Sono invitato al matrimonio di Ettore. Si è sposato a novembre perché, da pianista di piano bar, mi dice che non si guadagna con le note “blue”.

Ora mi annoio più di allora. Fuori il locale piove un mondo freddo. Io, sotto lo sguardo vitreo dei bicchieri di boemia, vengo assalito da un delirio agguato di nostalgia.

C’è un pianoforte a coda lunga, nero che ingentilisce la sala. “Non mi fido, – penso tra me e me – in certi casi un pianoforte è un grido, ci sono gambe che si sfiorano e tentazioni che si parlano”. E infatti una bionda (esasperante il suo languor) confabula con la sposa fino a quando quest’ultima, ammiccante, mi chiede: <<La vuoi conoscere Madeleine? È austriaca!>>


È bella quanto il sole. Ma d’istinto rispondo: <<Io parlo male il tedesco, scusa, pardon!>> Poi, per cercare di giustificarmi, spiego: <<Non vedo tra parentesi nessuno, venuto da lontano per esistere con me>>.

Mannaggia a te, Paolo Conte!

Grut-grut-grut, pot-pot-pot, cling-cling-cling… è un traffico africano che mi avviluppa non appena esco dal locale.

Torno a casa tardi. Accendo la luce. Va via la corrente.

Mi sorprendo a sorridere. (Mi) offro l’intelligenza degli elettricisti, così almeno un po’ di luce (la stanza) avrà.

Mi metto al pianoforte, con la finestra aperta nonostante la notte gelida. C’è un po’ di vento, abbaia la campagna e c’è una luna in fondo al blu.

Le intemperanze luminose del Mandingo, un sexy shop di recente apertura, come un lampo giallo al parabrise, mi rimandano al Mocambo che fu tutto in fior.

Torna la corrente. Improvvisamente, però, i miei occhi si ribellano alla luce da neon della plafoniera. Accendo, allora, la pallida lampada araba, sognando ‘na scudisciata turcomanna a mezza luna.

Suono rievocando la giarrettiera rosa di tutte le Madeleine che mi sono perso e batte, batte forte il cuor sul territorio dell’amor.

Tra una pausa e un’acciaccatura s’infilano le bestemmie dell’ing. Piastretta del piano di sopra. E nonostante ribadisca il concetto (mannaggia a te, Paolo Conte!), mi sento fradicio di magia.

giovedì 19 marzo 2015

Mi sono rotto il cazzo: fenomenologia di una ribellione

Mi sono rotto il cazzo. Ci sono delle espressioni, delle parole, che se tenute imprigionate nella cavità pavida e benpensante della laringe, a lungo andare ti ustionano il cervello. E  allora diventa imperativo morale scaraventarle fuori, sputarle nel campo insanguinato dall’ennesimo sacrificio. E mi sono rotto il cazzo proprio perché, ad essere sgozzato, è il futuro. Il mio…ma anche il tuo, il nostro.

Expo, Mose, Mafia Capitale; per limitarci al solo 2014. Adesso, l’inchiesta che vede indagato Ercole Incalza, il gran boiardo di Stato, sopravvissuto a 7 governi e a 14 inchieste.

Anche ora,  le fanfare mediatiche a recitare all’unisono che “bisogna che la giustizia faccia il suo corso”, che “il Ministro Lupi non è indagato”, che “il rolex da 10000 euro e rotti regalato al figlio del Ministro è un innocuo cadeau”, che “bisogna essere garantisti…”.

Tu, deputato da diecimila euro al mese, che accavalli con classe la gamba che ti è servita tante volte a genufletterti davanti al padrone di turno, di’ le stesse cose a Marco, che dopo la laurea in medicina con il massimo dei voti, un master costato il TFR di Giandomenico, adesso lava i piatti in un pub londinese in attesa dell’elemosina di una chiamata. Oppure parla con Marika, il cui unico sogno era quello di sposare Rocco e di avere dei figli…“almeno tre”, mi dice adesso tra le lacrime, mentre si ritrova con una prece tra le dita generata dal tumore che “costava troppo combatterlo efficacemente”.

Io, per Marco, per Marika, mi sono rotto il cazzo. Mi sono rotto il cazzo di rivolgermi, per tutelare i miei diritti, a un avvocato che è figlio di un avvocato il cui nonno, principe del foro di Salerno, “è l’avvocato che ha donato un’intera aula all’Ordine”.

Mi sono rotto il cazzo di guardare impotente la scala sociale che non lascia neppure affacciare, all’interno del gabbiotto in cemento armato irrimediabilmente fermo e inaccessibile, l’occhio del figlio dell’operaio destinato anche lui a sognare di calce e malta cementizia.

E ancora mi sono rotto il cazzo per Assunta che, nello stesso momento della sua elezione a presidente del circolo Culturambiente si è sentita in dovere, lei che si è esposta con l’equipaggio di Greenpeace alle ire dell’ennesima petroliera, a rifiutare la promozione perché suo nonno è imputato per abuso edilizio.

La politica, il denaro, la società ci hanno costruito un luna park di eterna gioventù, un paese delle meraviglie per cerebrolesi in cui ci fanno credere di avere tutto, ma dove manca la dignità di un lavoro, la prospettiva di una famiglia che possa essere davvero nostra.

Mi sono a tal punto rotto il cazzo, che cerco cittadinanza altra: non ce la faccio più a giustificare l’ultimo posto in Europa dell’Italia in tema di corruzione con le glorie che furono. Pur riconoscendone la grandezza imperitura infatti, non mi bastano più Dante, Galilei, Garibaldi a sopperire alla cronica mancanza di un esempio di vita che sia uno. Non riesco più ad ancorare la mia italianità alle mirabili opere d’arte disseminate lungo il Belpaese (che sicuramente, visto il degrado in cui vengono lasciate, si trasferirebbero in massa in Germania o in un altro Paese del nord Europa).

Mi sono rotto il cazzo delle Grandi Opere che, lungi dall’apportare benefici alla collettività, si rivelano sempre un’ennesima occasione di guadagno per i soliti noti. E pazienza (dal loro punto di vista), se per sfamare i ventri sfondati di questa o quell’altra cricca, si compie un altro scempio ambientale, magari trapanando una montagna per costruire un’autostrada laddove insiste già una strada sottoutilizzata che copre la stessa tratta. E pazienza ancora (sempre dal loro punto di vista), se per mettere su un carrozzone che vorrebbe insegnarci come mangiare a un paio di tiri di schioppo dalla Terra dei Fuochi e uno solo dalle mele insufflate con pesticidi di ogni genere, si espropriano terreni coltivati biologicamente o comunque campi che non torneranno più come prima.

La pazienza loro, non alberga in me. Io, come ripeto e mi piace farlo, mi sono rotto il cazzo. Foss’anche solo perché, per colpa di molte, troppe persone, ho dovuto scrivere ‘sto pezzo ricorrendo a un linguaggio che non avrei forse mai utilizzato, o almeno non con questa frequenza, in contesti ufficiali come questo.

D’altronde, essendo senza dubbio indegno di odiare l’indifferenza di Gramsci, non potendo ricorrere al magnifico Io me ne fotto di Peppino Impastato; e ancora finanche lontano dal Vaffanculo intonato di Masini io, più umilmente, ma non senza partecipazione, urlo il mio, e spero anche vostro, "mi sono rotto il cazzo".

 

martedì 17 marzo 2015

Peppino il giardiniere

La storia di Peppino il giardiniere che, “con le sue piantine maleodoranti, scioccamente festose”, mina dalle fondamenta l’impero dell’ing. Costa.

Non ci stavano santi: gli bastava solamente vederlo perché le sue viscere, tarantolate dall’avversione, ingolfassero le uscite di sicurezza!

Sempre lì, all’ingresso della sua fabbrica, intento a prendersi cura di quelle erbacce maleodoranti, scioccamente festose. Già, festose: proprio come quel sorriso da ebete che albergava perennemente nel suo volto. Che poi: ma che minchia c’aveva mai da sorridere, Peppino il giardiniere?

Pigliava la miseria di 600 euro al mese, non aveva uno straccio di proprietà e si permetteva financo il lusso di essere felice? Pazzesco!

Proprio per evitare questa situazione d’insofferenza non appena le traiettorie oculari intercettavano la presenza di Peppino, l’esimio ingegner Costa aveva battuto ogni strada percorribile. Ma si sa, i sindacati, lo Statuto dei lavoratori: zavorre antistoriche che appesantivano il suo volo messianico verso la tirannia!

Quale cavillo giuridico invocare infatti, per licenziare un reietto che si ostinava ad essere sempre puntuale, a non assentarsi mai e, per di più, a dimostrarsi sfacciatamente bravo nel suo lavoro?

Certo, poteva accusare Peppino il giardiniere di essere comunista. Come lo sapeva? Lapalissiano: uno che ride lavorando senza avere nemmeno gli occhi per piangere, non può che essere comunista. E allora? Cosa avrebbe raccontato al giudice del lavoro? Che lo licenziava perchè cantava bandiera rossa  mentre si prendeva cura dell’orto?

Pensava queste cose, frattanto che varcava l’ingresso con il suo gippone, bestemmiando fumo grigio e nero. E queste cose continuava a pensare, appena entrato nel suo ufficio.

Non c’era da filosofeggiare: doveva trovare un metodo per renderlo inoffensivo. E già perché, Peppino il giardiniere, era davvero pericoloso…anzi: pericolosissimo! Insomma, un sovvertitore dell’ordine costituito. La prova? L’abbandono degli studi in giurisprudenza, a due esami dalla laurea, per dedicarsi a quelle sue maledette piantine.

Bastava però che guardasse le torri metalliche della sua fabbrica, il vigore opaco degli spocchiosi pennacchi, perché l’eccelso ingegner Costa dimenticasse ogni dispiacere. E a quel punto, che se ne andasse pure al paese di pulcinella Peppino il giardiniere con tutte le sue piantine del cavolo!

Quel giorno poi, aveva la riunione con il ghota della finanza internazionale. Un affare troppo importante per la CostaGas.pm10.

Il padiglione riservato alla riunione era il primo, quello prospiciente l’ingresso della fabbrica e quindi, il giardino. E questo era bastato ad innestare l’autoscontro viscerale dell’ingegnere. Poi però, pensandoci bene, non potè far altro che convenire con gli organizzatori sulla scelta del luogo: era infatti il primo, il padiglione meglio tenuto della sua pantagruelica fabbrica.

Eppoi, perché mai avrebbe preferito una soluzione diversa? Non c’era motivo! Eppure…eppure aveva uno strano presentimento, ecco tutto.

La riunione ebbe inizio. Si poteva osservare una carrellata spasmodica di facce color cemento, di bocche artatamente arcuate, di vestiti ammantati di chiuso.

Dopo poco meno di un’ora, il briefing si avviava alla conclusione. Esito? L’onnipotente ingegner Costa aveva raggiunto l’accordo per l’installazione di un’altra appendice del suo impero industriale, proprio lì, in India: successo a 360°!

Tutto filava liscio. Ogni cosa aveva ormai seguito, mansueta, le orme del suo volere. Eppure…eppure!

Uscirono tutti, tristemente felici per l’accordo raggiunto.

Si poteva vedere, tra milionari cianotici, guardie del corpo imbalsamate e cravatte funeree, un fiume epilettico di mille e più guadagni. La piena era diretta verso il parcheggio, dirimpetto a quell’angolo di giardino.

All’improvviso il flusso prezzolato cozzò contro la diga: 60 mq di erbacce maleodoranti, scioccamente festose. E lì, tra un roseto e un pino, si udì l’azzurro sorridente di Peppino.

Li vide mentre lo vedevano. Spiantò i cartelli del distacco (si prega di non calpestare le aiuole, pregasi di non toccare i fiori…), vi piantò quelli della rinascita (si prega di calpestare le aiuole, pregasi di toccare i fiori ).

Quel diavolo di Peppino il giardiniere, si avvicinò all’inerme ingegner Costa. Lo prese per mano. Lo condusse nel giardino. Gli sussurrò qualcosa all’orecchio. L’industriale allora, irretito da quel sorriso magnetico, si tolse le scarpe, le calze. Appoggiò i piedi finalmente nudi sul prato.

Tra i gli innumerevoli, immensi torrioni della fabbrica, s’intravide una frangia di cielo.

E fu così che proprio lì, tra le aiuole e l’ulivo secolare, sbocciò il sorriso dell’uomo Costa.

Verde di pino, giallo di grano, vivo di vita.