lunedì 9 gennaio 2017

"L'oro di Napoli", di Giuseppe Marotta

L'oro, per rilucere, richiede una certa distanza: solo così l'occhio umano potrà saziarsi dei mille bagliori che vi si irradiano.

Già, proprio come accade con l'albero di limoni di Montale: è solo nelle città rumorose e, quindi lontano dalla campagna, che dal malchiuso portone possono scoppiare le trombe d'oro della solarità.
Giuseppe Marotta, da Milano, da una città e da una condizione economica per molti versi opposte a quella di vicoli e stenti di Napoli, riesce a catturare e a capire l'oro di Napoli dell'immediato dopoguerra.
L'oro è il pane con sale e olio a cui si ricorre quando tutto è perduto: finito il denaro, finito il credito, finite le avemarie, infatti, resta soltanto la poesia del pane con sale e olio.
L'oro!
E come non trovarlo pure nelle pizze a giorno a otto che don Rosario Pugliese prepara gonfie di fondente ricotta e non prive di qualche truciolo di prosciutto in Vico Lungo Sant'Agostino? Si mangiano adesso e si pagano solo fra otto giorni, circostanza, questa, che incoraggia, stimola e potenzia il consumatore. E sì perché, a ben vedere, in otto giorni possono accadere tante cose, non ultima la morte, senza eredi, dello stesso pizzaiolo.
E oro è pure il brodo di polipo di don Gennarino Aprile in cui c'è solo un frammento di polipo che sarebbe opportuno sputare prima di andare a letto ma che, all'occorrenza, si può ricominciare a masticare anche l'indomani mattina e per sempre, in saecula saeculorum: insomma, chiosa un divertito Marotta, il frammento di polipo è il verace antenato del chewing-gum americano.
E come, poi, non rivestire d'oro il culto dei napoletani per gli spaghetti? E già, perché, chi entra in paradiso da una porta, non è nato a Napoli dal momento che, il napoletano, il suo ingresso trionfante nel palazzo dei palazzi lo fa solo scostando delicatamente una tendina di spaghetti. Ma...
Ma l'oro di Napoli è anche il guappo che era un criminale e non lo era. Più che mettersi fuori dalla legge egli le opponeva una sua legge; e lo sberleffo di don Pasquale Esposito? D'oro, anch'esso, si capisce, soprattutto nella sua distinzione tra pernacchio (forte o debole, lungo o corto, massiccio o sdutto, aquilino o camuso ma è sempre maschio, ma è costruttivo e solerte, ma insomma lavora) pernacchia che è molle e pigra, tumida, bianca, sdraiata; insomma, come un'odalisca sui tappeti: femmina.
Aurea, di poi, è la nonna dello scrittore che, se le avessero fatto l'autopsia, le avrebbero trovato una spina dorsale fatta di grani di rosario, sette poste e misteri, così come la gobba di don Ignazio Ziviello che si vanta di tenerci, lì dentro, un angelo custode chiuso a chiave.
Ma anche l'amore a Napoli, capace di generare un figlio dalla prima guagliona con cui ci si è fatto l'amore ben tredici anni addietro, è d'oro; così come lo è la verde e accigliata Porta Capuana, palpitante tra i vapori diffusi dalle immense teglie delle friggitorie. E i Quartieri che Dio creò per sentirvisi lodato e offeso il maggior numero di volte nel minore spazio possibile? Certo che son dorati, ci mancherebbe!
L'oro di Napoli, inoltre, non risparmia nemmeno le divinità: la mamma schiavona di Montevergine, dove gli squarcioni, tra una preghiera e un voto, fanno a gara a chi ostenta più lusso; San Giuseppe, che nel mese di giugno,  siede con gli scugnizzi sul marciapiede o sulla stanga di un carretto di cocomeri o su una ringhiera o su niente.
Nella Napoli d'oro di Marotta, raccontata senza stereotipi o stupido folklore, senza pietismo e senza retorica ma solo con sentita partecipazione, è d'oro la stessa Morte perché ogni uomo, a Napoli, dorme con sua moglie e con la morte; in nessun paese del mondo la morte è domestica e affabile come laggiù tra Vesuvio e mare.

martedì 27 dicembre 2016

La Grande Magia de "La Locandina" di Pagani

La grande Magia di Eduardo De Filippo, commedia in 3 atti, per la regia di Alfonso Tortora.

Sono già stato qui, al Teatro La Locandina di Pagani. La prima volta, ho assistito alla messa in scena di Tre pecore viziose di Eduardo Scarpetta.
In quella occasione, sono bastate poche battute recitate con maestria dai funambolici interpreti, per fare degli spettatori l'ideale cassa di risonanza degli equivoci, degli infingimenti rappresentati sul palcoscenico. E la distanza, già strutturalmente esigua tra palco e platea, si è azzerata nell'idem sentire attori-pubblico che è la sola, inconfutabile attestazione di successo.
Buona la prima.
Stasera, però, mi sono accomodato nella poltrona armato della penna già intinta nell'inchiostro della stroncatura; come se non bastasse, poi, ho deposto ai lati della poltrona la faretra di lance acuminate pronte a infilzare la tracotanza, la hybris, della Compagnia.
"Voglio proprio vederli, 'sti saltimbanchi de La Locandina, destreggiarsi lungo l'infido margine realtà-finzione proprio de La grande Magia!"
Una sfida, insomma, da far tremare le vene ai polsi allo stesso Eduardo che, forse consapevole della complessità del tema sviscerato anche nell'Enrico IV di Pirandello, ha rappresentato la commedia solo poche volte.
La recita della vicenda che avrebbe dovuto incubare la mia stroncatura, si dipana lungo il perimetro degli occhi spiritati del prestigiatore Otto Marvuglia (un caleidoscopico Carmine De Pascale) che, "appattatosi" con Mariano D'Albino (Alessandro De Pascale, dizione "da libro stampato"), fa scomparire, in un luciferino gioco di magia, l'amante di quest'ultimo, la signora Marta Di Spelta (una suggestiva Teresa Barbara Oliva), esasperata dalla gelosia parossistica di suo marito, Calogero di Spelta (Tonino De Vivo...profondo!). Nel suo numero, il mago è aiutato dalla sgangherata compagna di vita e di palcoscenico, l'eccessiva Zaira (una sopraffina Valeria De Pascale).
La sparizione, come d'accordo, avrebbe dovuto durare non più di un quarto d'ora. Ma che succede se poi i due amanti, all'inizio solo vogliosi di uno scampolo d'intimità, decidono di tagliare la corda per quattro lunghissimi anni?
La magia si concretizza nella scatola consegnata dall'illusionista al marito abbandonato con la raccomandazione di aprirla solo se e solo quando avrà la fede "certa" dell'onestà della moglie. Unicamente a queste condizioni, quindi, la signora Di Spelta, nel più incredibile giuoco di prestidigitazione in cui mago si sia mai cimentato, potrà finalmente riapparire.
Ma, nelle more (termine giuridico che ben è familiare a Renato Giordano, anche lui "capace"parte in commedia) di questo intricato canovaccio, nel faticoso dosaggio tra il freno della realtà e l'acceleratore dell'impressione che solo può convincere il marito tradito della veridicità dell'assurdosi arriva, poi, allo spiazzante epilogo.
Per dirla con Demostenenulla è più facile che illudersi, perché ciò che ogni uomo desidera, crede anche che sia vero.
La grande Magia, giocando abilmente tra la vista "relativa" e il fantasmagorico terzo occhio, consuma le ultime battute del III Atto.
Sul palcoscenico stanno furoreggiando le intemperanze verbali del cameriere Gennarino (Peppe Di Maio, la maschera plautina della Compagnia), il siciliano ottuso del brigadiere di P.S. (uno scenografico Peppe Tufano); e ancora, le rivendicazioni della cinica cognata di Di Spelta (la deliziosa Rosaria Argentino) accompagnate dalle lacrime quarantennali della di lei suocera Matilde ("vera" Monica Civale). Infine, per ultimi ma non ultimi, ecco i commenti pettegoli della Signora Locascio (una frizzante Rosalba Canfora), della Signora Zampa ("stilosa" Letizia Vicidomini) e il sorriso complice di Gervasio Penna (al secolo, un rassicurante Lello Tortora).
Alla fine della rappresentazione, dopo il sipario ultimo dei saluti, l'inchiostro della mia bic si redime in questo articolo di apprezzamento; la mia faretra, invece, quasi fosse protagonista di una de Le metamorfosi di Ovidio, si muta in una cornucopia di convinti applausi.
La grande Magia portata in scena dalla Compagnia La Locandina di Pagani è artigianato puro in un mondo, quello del teatro, dove troppo spesso è la standardizzazione a farla da padrona.
Chapeau, ragazzi!

domenica 18 dicembre 2016

Dante è meglio di Harry Potter, credete a me

Fidatevi, miei assidui venticinque lettori, Dante è meglio, ma molto meglio di Harry Potter.

Alla soglia dei quaranta, nel mezzo del cammin di mia vita (il giro di boa per Dante si fermava a trentacinque anni ma, si sa, la vita s'è allungata), m'è venuto lo sghiribizzo di rileggere l'Inferno.
Ebbene, dopo aver seguito il rumore del ruscello che ha condotto Dante e Virgilio fuori dalla selva oscura, nell'emisfero australeancora ammaliato dalla divin arte dell'Alighieri, non posso che riconoscere la supremazia di Dante sul maghetto Harry Potter.
Partiamo dalla constatazione che tutti i generi presenti nella saga della Rowling trovano piena cittadinanza anche nella Divina Commedia.
La magia? E come non rivelarla, ad esempio, nella selva dei suicidi? Qui, in un bosco orrido e strano, pieno di arbusti contorti e spinosi Dante, su invito di Virgilio, spezza una fraschetta.
Perchè mi schiante? Perchè mi scerpi? 
È il grido di dolore frammisto al sangue che fuoriesce da Pier della Vigna, insigne ministro di Federico II tramutato, al pari degli altri suicidi, in pianta di basso fusto.
L'avventura? E come può definirsi, se non anche avventuroso, il viaggio di Ulisse al di là di dov'Ercule segnò li sui riguardi acciò  che l'uom più oltre non si metta?
Il mitologico? Puah, a bizzeffe! Il gigante Anteo, alto sessanta braccia, invincibile perché la madre Terra gli dà nuove forze non appena tocca terra che, lusingato dalle parole di Virgilio, depone lui e Dante sul fondo ghiacciato del nono cerchio; e ancora il gran veglio che a Creta, dentro il monte Ida, sta ritto con le spalle volte all'oriente e il viso verso Roma. Ha la testa d'oro, il petto e le braccia d'argento, il ventre di rame, le gambe e il piede sinistro di ferro; quello destro sul quale si appoggia, invece, è di terracotta. Ebbene tutte le parti del Veglio di Creta, ad eccezion del capo, sono solcate da fessure: attraverso di esse gocciolano le lacrime che scendono nell'Inferno formando Acheronte, Stige, Flegetonte e Cocito, i quattro fiumi infernali.
Il pathos? C'è tutto, ex multis, nell'apparizione di Cavalcante De' Cavalcanti che, sorgendo dall'arca e vedendo Dante, gli chiede come mai, essendo egli qui per altezza d'ingegno, non sia accompagnato da suo figlio. Il sommo poeta, allora, risponde che l'assenza è probabilmente da imputare al fatto che Guido ebbe a disdegno la teologia.
Come? dicesti "elli ebbe"? non viv'elli ancora? non fiere li occhi suoi lo dolce lume?
L'attimo d'esitazione di Dante male interpretato da Cavalcante, fa sì che l'afflitto padre supin ricadde e più non parve fora.
L'amore? Scontato è il rimando, primo fra molti, all'abusato amor, ch'a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m'abbandona di Francesca da Rimini.
E lo humor ne l'Inferno di Dante? Certo che è presente. A questo proposito, si deve uscire dall'errore (molte volte alimentato da una cattiva vulgata proprio della scuola) di un Dante arcigno, a tal punto coerente e intransigente da non abbandonarsi mai, né in vita né nelle opere, al sorriso o all'ironia. Nulla di tutto questo. A chiusura del canto XXI, infatti, il ed elli avea del cul fatto trombetta di Barbariccia, sconcio quanto emblematico segnale sonoro agli altri compagni, certifica la presa in giro degli strampalati diavoli a danno proprio di Dante e Virgilio.
Per quanto riguarda la divinazione, il profetico-allegorico, poi? Valga, per tutti, il veltro evocato da Virgilio come unico "animale" in grado di far morir con doglia la lupa della cupidigia, la cui sua nazion sarà tra feltro e feltro
Orbene, il feltro è un panno modesto che può far pensare a umili origini del salvatore, ma anche alla provenienza da un ordine religioso. Il feltro, però, può rimandare pure al concetto di elezioni democratiche: di feltro, infatti, erano foderate le urne in cui si deponevano i voti per l'elezione dei magistrati. Qualcuno, infine, volle vedervi addirittura una designazione geografica: Feltro, starebbe per Feltre, località in cui il redentore sarebbe dovuto nascere.
La paura? E come non provarla al cospetto del gigantesco Lucifero conficcato nel ghiaccio della Giudecca da cui esce da mezzo il petto? Una sola, immensa testa dotata di tre facce di colore diverso, sotto ognuna delle quali sono allocate due smisurate ali di pipistrello: è dal movimento di queste che scaturisce il vento che ghiaccia Cocito.
Ma vi è di più. Dai sei occhi fuoriescono lacrime che si mescolano alla bava sanguinosa delle tre bocche in cui vengono maciullati in eterno tre peccatoriGiuda, che viene anche sgraffignato, dalla parte della testa; Bruto e Cassio, invece, inghiottiti dalle gambe.
In conclusione, tutti gli ingredienti dell'occhialuto Harry Potter sono presenti nell'Inferno del sommo poeta, con un'ovvia chiosa: il lettore che riuscirà a rimanere nella scia del e quindi uscimmo a riveder le stelle di Dante, verrà catapultato in un firmamento di cultura e sapienza che nessun Avada Kedavra potrà mai annientare o depotenziare.


sabato 10 dicembre 2016

Puttana, Salerno (storia di una perdizione)

C'era una volta la fatina Salerno, pulzella vereconda e pudica, che venne in sposa a un contadinello.

Salerno, come kimberlite che ha in nuce il diamante, era di una bellezza ascosa che appariva solo agli occhi innamorati del suo uomo.
Attraverso il mare e fin sulle colline irrorate dal sole, venne il male che si portò via l'amore di una vita.
Ma Salerno aveva una nidiata di figli. Salerno aveva il dovere di andare avanti.
Inchiavardato il cuore nelle segrete della malinconia, l'incantevole Salerno si perse nella città.
E via le gonne slabbrate. Alla malora l'incarnato di un viso troppo naturale per lo smog del centro.
Nel breve volgere di qualche luna, Salerno s'intonò con la modernità.
A un caffè sulla litoranea, incontrò un uomo.
Anche questo giovin signore odorava di fieno. Pure cotal cavaliere riluceva di filari stesi al sole.
Salerno, allora, ripescò il suo cuore dagli abissi della malinconia, e lo disserrò.
E vennero lustri magnifici. Salerno, ormai diamante raffinato, divenne incantevole. Tutti venivano a guardarla.
Eppure, eppure.
Qualcuno obiettò: <Ma Napoli, è sempre Napoli!>
L'ambizioso compagno, allora, volle conoscere questa giovane maga, Napoli per l'appunto, che osava mettersi a paragone con la sua Salerno.
Bella, era bella. Ma quant'era malandrina, disordinata e arruffona!
Eppure, eppure.
Dopo la conoscenza della conturbante Napoli, il moroso sembrava non essere più lo stesso.
Salerno era una fatina, stupenda per la sua natura. Napoli, un'ammaliatrice di diversa fattura e complessione.
Più e più volte l'insano compagno chiese a Salerno di tradire la sua essenza.
Ad un certo punto, la sventurata rispose.
Cominciò a riempirsi di lustrini, di paillettes sempre più scoscese sulle zeppe chilometriche.
Iniziò a frequentare ancora più persone che potessero apprezzare la sua bellezza.
Fece la spola tra visagisti all'ultimo grido e tra chirurghi dall'anima plastica.
La Salerno dolce di un tempo, trascurò del tutto i suoi figli.
Capiva che avrebbe dovuto abbandonare quell'uomo che la stava svendendo nei lupanari del potere.
Ciononostante, come soggiogata da quel fine dicitore, non riusciva a distaccarsene.
Eppure, eppure.
Proprio adesso, in questo periodo che si approssima al natale, dove ormai i ninnoli luccicanti hanno strozzato l'anima della perduta Salerno, vorrebbe non aver mai disserrato quel cuore abbandonato alla malinconia.
Tra le ferite di un corpo disfatto dall'abuso, quella piccola Salerno che fu, pensa ancora al suo contadinello sperso nella dimensione del sogno.
E una lacrima, che sa di disperazione e di ribellione, scende giù dalle rigide gote.
Il tempo di un blitz.
Un'altra vagonata di clienti s'approssima alla stanza.
Salerno è qui, carne esausta, da imbrattare con l'ultima voglia.
<Puttana, Salerno!>

sabato 26 novembre 2016

Fidel Castro e l'infernale picciola barca


La Storia, a volte, si diverte a intrecciare coincidenze, fino a farne trame di pregevole fattura.
Il 25 novembre 2016, giorno e mese della morte del Leader Maximo Fidel Castro, si sovrappone a un altro 25 novembre, stavolta di ben 60 anni fa.
All'una e trenta della notte tra il 24 e il 25 novembre 1956, una barca pagata solo a metà, ancora di proprietà di un gringo la cui unica colpa è quella di avere una nonna con un nome alquanto insolito (Granma), accende i due motori e, a luci spente, inizia il suo epico viaggio. 
È una notte di pioggia sferzante e vento forte.
Quella barca, il Granma per l'appunto, che qualche osservatore ben a ragione ha definito "un vascello per nani, e nemmeno tanti", con la chiglia danneggiata dal ciclone dell'anno prima, si trova, suo malgrado, a trasportare ottantadue giganti.
L'anelito di libertà, è risaputo, supera di gran lunga qualsiasi capacità umana.
Eccolo, Fidel, intabarrato nell'ardore dei suoi ideali, mentre viene sferzato dalla tramontana che spazza il Golfo del Messico.
"Fidel mi diede l'impressione di essere un uomo straordinario. Le cose più impossibili erano quelle che affrontava e risolveva. Aveva una fede eccezionale nel fatto che, una volta partito per Cuba, ci sarebbe arrivato; che una volta arrivato, avrebbe combattuto. E che combattendo, avrebbe vinto."
È dell'Ernesto Che Guevara de La Serna, questo giudizio su Castro. Già, anche lui, come Fidel, stipato sul Granma, in preda a un attacco di asma feroce che il salvifico inalatore, immolato all'ordine di Fidel di partire subito con quello che avevamo a portata di mano, per evitare che il traditore (!) avvertisse la polizia, non può disinnescare.
È un'accolita di visionari, di irresponsabili temerari, quella che la notte tra il 24 e il 25 novembre del 1956, si ammassa sullo scafo dell'imbarcazione.
A Cuba, meta di quel folle viaggio, li aspettano un dittatore sanguinario, più di trentacinquemila uomini pronti allo scontro, un esercito equipaggiato con carri armati, dieci navi da guerra, settantotto aerei da combattimento.
Eppure Fidel e il Che, avvocato l'uno, medico l'altro, entrambi amanti della lettura in un mondo di mostrine semianalfabete, conoscono il c.d. fattore X teorizzato da Tolstoj in Guerra e Pace.    
"In guerra la forza degli eserciti è data dal prodotto della massa dei soldati moltiplicata per qualcos'altro, uno sconosciuto fattore X. (...) X è lo spirito di corpo, il maggiore o minor desiderio di combattere e di far fronte ai pericoli a vantaggio di tutti i soldati che compongono l’esercito, che è diverso dal porsi la questione se essi stanno combattendo con comandanti geniali o no, con randelli o con un’arma da fuoco che spara trenta volte al minuto."
Ed è proprio facendo leva su questo spirito rivoluzionario degli intrepidi ottantuno barbudos che Fidel, in una notte di sessanta anni fa, guarda sfrontato oltre le nebbie che covano la sua rivoluzione.
25 novembre 2016. Stasera, tra le volute del chilometrico sigaro, eccoti, compagno Fidel, mentre aspetti ancora una volta una picciola barca.
Avviluppato dalla nebbia, l'attesa dura poco. E non appena la lattiginosa coltre si slabbra, ti sorprendi a sorridere alla vista del Caron dimonio con occhi di bragia e con basco d'ordinanza che ti indica la murata della barca: Granma.
Hasta la victoria siempre, Comandante, e la piccola imbarcazione con ottantadue compagni a bordo salpa irriverente verso l'ennesima, infernale rivoluzione.  

martedì 22 novembre 2016

Il caffè, lo specchio, la barca: ah, che rebus!

La canzone Rebus (1979) di Paolo Conte dura poco più di due minuti.

Velocità silenziosa ed esaustiva.
Una pennellata d'autore che sopra un letto di pianoforte e riflessioni, insegue il senso della visione.
La sfida è di quelle che l'avvocato appassionato di enigmistica, tra uno sberleffo compiaciuto e un bemolle sornione, è certo di poter vincere: il rebus, uno dei tanti affrontati e risolti al riparo delle colline astigiane, grazie a una fulminea intuizione.
Sì, proprio un lampo giallo al parabrise.
Mentre rimugina tasti e pensieri, s'impegna ad accordare immagini con significati.
Cercando di te.
Il baffo che custodisce la voce filtrata attraverso sabbia e whisky, biascica il tema del rebus: cercando di lei, per l'appunto.
Un vecchio caffè. Con dentro uno specchio. Nello specchio, il mare. Dentro il mare, una piccola barca.
Gli indizi scenografici sono questi.
La sigaretta abbandonata in preda alla riflessione, s'involve in volute di connessioni.
Seconda quartina.
Un altro caffè. Con dentro uno specchio. Nello specchio, il mare. Dentro il mare, una piccola barca.
Le dita sul pianoforte interrogano con maestria ripetizioni, rimandi.
Una prima barca che porta ad un secondo caffè. Il suggerimento di un'altra traversata, con l'ennesima barca pronta per lui, sempre alla ricerca di lei.
Il sorriso della comprensione. Il tempo di un mugolio risolutore.
Il giro in cerca di lei, è turistico. L'amore agognato, il tema del rebus, è una mistificazione. E già perché, rivela il Maestro, chi affitta le barche è anche il padrone di tutti i caffè.
Conflitto d'interessi incompatibile con la liberalità dell'amore.
Compiaciuto per la soluzione del rebus, il pianoforte tuttavia approda, tra la rabbia e la disillusione della rivelazione, al porto mercantilistico del paga di qua, e paga di là, noleggia una barca e prendi un caffè.
Nell'ultima terzina, l'amara considerazione:
Ah, è meglio star qui a guardare
i pianeti nuotare davanti a me
nell'oscurità del rebus
Malgrado tutto, poco male! Ancora una volta, dall'alto dei suoi ottant'anni di poesia e musica, lo smaliziato Conte troverà conforto nella ricerca di un po' d'Africa in giardino, tra l'oleandro e il baobab. 
Alcuni luoghi sono un'enigma; altri, una spiegazione.

venerdì 18 novembre 2016

Il NO del Referendum e il "Mille e non più Mille"

Sia chiaro: al Referendum costituzionale del quattro dicembre, voterò e farò votare, per quel rimasuglio di ascendente che ancora ho su qualche familiare-amico troppo pigro per formarsi un'opinione, No.

Voterò No perché ritengo la riforma introdotta dal Governo (e già solo questo particolare, "introdotta dal Governo", per l'appunto, e non su iniziativa del Parlamento, mi persuaderebbe a votare così) pasticciata, farraginosa e, diciamola tutta, pericolosa per gli equilibri costituzionali.
Matteo Renzi con il suo progetto di riforma, assomiglia tanto a mio zio Ermenegildo che, ignorante di meccanica come il nostro presidente lo è di diritto costituzionale, entrambi convinti, l'uno (mio zio), di riuscire a riassemblare il motore della macchina, l'altro (il premier), di riformare in maniera efficientistica la Magna Chartasi trovano in mano, al termine dell'armeggio, qualche valvola in più e un certo numero di incrostazioni costituzionali in soprannumero.
Senza contare che né il motore né la Carta costituzionale saranno in grado, dopo l'improvvida manomissione, di "funzionare".
Premesso ciò e ribadito il mio No convinto alla riforma, quello che non mi piace, perché lo ritengo addirittura contrario alla stessa causa del No oltreché indice di malafede quando non di ignoranza etimologica , è l'esagerazione, il ricorrere a lemmi (dittatura, colpo di Stato, regime et similia) che hanno il solo scopo di far ammuina, creare allarmismo.
Mille e non più Millesi gridava invasati per le piazze, vaticinando la fine del mondo per l'avvento del millennio. Poi il millennio è arrivato, e si è dovuti prendere atto che tutto continuava più o meno uguale.
Si badi bene, con questo non voglio dire che la vittoria malaugurata del Sì al referendum non cambierebbe niente o, peggio, che sarebbe analoga alla vittoria del NO. Nossignore, non sono un nichilista né un ignavo che trascina la sua vita sanza 'nfamia e sanza lodo nell'aura sanza tempo tinta.
Semplicemente, parafrasando un mai troppo abusato Nanni Moretti, ritengo che le parole siano importanti. E proprio perché ossessionato dalla loro importanza, penso sia giusto parlare un linguaggio di verità.
La vittoria del Sì, provocherebbe numerose storture nell'equilibrio costituzionale, aumenterebbe i conflitti tra le Camere, accentrerebbe il potere nel Capo dell'Esecutivo, e siamo d'accordo. Ma sicuramente non sarebbe corretto parlare di dittatura in caso di sua vittoria, ad esempio, anche per il grandissimo rispetto che dev'essere tributato a chi davvero si è trovato a subirla, la dittatura. Non solo: confrontandomi con molte persone, mi sono fatto l'idea che l'esagerazione, lo sparare alto (terminologicamente e contenutisticamente) magari solo con l'intento di conquistare un No in più, molte volte rende diffidente l'interlocutore che istintivamente pensa: "Possibile che se voto sì viene la fine del mondo? E allora uno come Veltroni, che fa le campagne di sensibilizzazione in Africa, che fa, vuole la dittatura in Italia?"
Al di là dell'ironia, ritengo sia questo il ragionamento che nasce nella testa dell'alluvionato dalle iperboli elettoralistiche che potrebbe, ormai sfiduciato nei confronti del tizio che gli prospetta scenari sì foschi, addirittura votare contrariamente, quasi per dispetto, a quanto raccomandatogli con foga degna di miglior causa.
P.S. Ho parlato delle "nostre" esagerazioni. A quelle del Sì che stanno riesumando lo spread di montiana memoria oltreché minacciando la piova etterna, maladetta, fredda e greve che si abbatterebbe sul suolo italico alla vittoria del No, non val la pena nemmeno accennare.
Insomma, e per concludere, votiamo e facciamo votare No, sempre facendo leva sul buon senso dell'argomentazione e rifuggendo dalle esagerazioni. Ce lo chiedono, innanzitutto, le nostre amate parole.
Le nostre parole sono spesso prive di significato. Ciò accade perché le abbiamo consumate, estenuate, svuotate con un uso eccessivo e soprattutto inconsapevole. Le abbiamo rese bozzoli vuoti. Per raccontare, dobbiamo rigenerare le nostre parole. Dobbiamo restituire loro senso, consistenza, colore, suono, odore. E per fare questo dobbiamo farle a pezzi e poi ricostruirle. (La manomissione delle parole, G. Carofiglio, Rizzoli, 2010)