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giovedì 26 marzo 2020

Raccontare per mille e una notte


Raccontare è un’esigenza insita nell’uomo fin dalla notte dei tempi. Si racconta di tutto, dall’episodio più banale all’esperienza più strutturata. Eppure ci sono dei momenti in cui il narrare, oltre che un bisogno, diventa un modo per esorcizzare la morte. A volte, addirittura una maniera per rinviare l’appuntamento con “l’Eguagliatrice (che) numera le fosse”. Già, proprio come succede in questi tempi grami da Coronavirus: quando l’eccezionalità degli eventi travolge la nostra routine, infatti, il racconto è lì che pretende attenzione. E lo fa perché in grado di allontanare il pericolo o, pur non potendo garantire la salvezza (“raccontare, raccontare, finché non muore più nessuno” scrive Elias Canetti), di rimandarne l’epifania.
Ne “Le Mille e una notte” un re, tradito dalla moglie prontamente decapitata, pretende che ogni notte gli venga offerta una vergine da violentare e poi uccidere.
La figlia del visir Shahrazad, ultima fanciulla rimasta da sacrificare, escogita un piano: spalleggiata da sua sorella, inizia a raccontare una storia, e lo fa così bene da incatenare a sé l’attenzione del re. Poi, puntualmente, sul più bello si zittisce.
Il sanguinoso sovrano bramoso di conoscere gli sviluppi della trama, le risparmia la vita, convinto com’è che la notte appresso Shahrazad gli svelerà il finale e allora lui potrà finalmente ucciderla.
Niente da fare. Ogni notte la fanciulla racconta e ogni mattino interrompe la storia sul più bello. E così per mille e una notte, fino a garantirsi salva la vita e il lieto fine.
Come dicevo all’inizio, il racconto non ha certamente il potere di allontanare il “duro destino” della nostra finitudine (Heidegger), ma una cosa può farla: in questo tempo di atomizzazione indotta dove tutte le nervature implicanti alterità sono state recise, il raccontare può essere la fucina in cui si forgia l’umanità nuova. A patto, ovviamente, che il racconto trovi orecchie non distratte dal futile e dalle sovrastrutture, pronte a farsi ammaliare dalla magia del “cunto”. Per mille e una notte, e una notte ancora, fino all’eternità.

venerdì 20 marzo 2020

Elogio della matita


Checché se ne dica, io sono la matita.
Sono europeista fin dalla nascita. Gli inglesi, infatti, scoprirono il mio cuore di grafite. Due italiani, Simonio e Lyndiana Bernacotti, ebbero l’intuizione di inserirlo in un cilindro di legno. Infine un inventore francese, nel Settecento, iniziò la mia produzione in serie.
Sono tollerante per natura. Rifuggo dalle certezze granitiche dell’inchiostro inchiavardato nel rigo, posto lì a imperitura memoria.
Tra i punti esclamativi e quelli interrogativi di decrescenziana memoria, scelgo senza battere ciglio questi ultimi.  
Mi sbaglio, mi correggo, per poi sbagliarmi di nuovo. E anche nella correzione, ebbene sì, ci vado di fioretto. Pavidità? Macché: semplicemente esperienza che mi invita a essere cauta.
A che scopo, infatti, scrivere in maniera indelebile qualcosa quando, il più delle volte, quello che è giusto oggi diventa sbagliato domani, e viceversa? Io lascio sempre la possibilità di ritornare sui propri passi. E non appena la soluzione appare definitiva, sarà sempre il flusso di vita che scorre sul foglio a decidere per quanto tempo salvare il mio scritto. La verità, infatti, è che sono fortemente convinta che niente debba essere conservato per l’eternità. D’altronde, io stessa sono l’emblema della precarietà. La mia punta di grafite scrive, si spezza (oh, ho un cuore languido e delicato, io!) e quindi si consuma e si trancia. Occorre temperare. Scrivere. Per poi ritemperare di nuovo. E via, via, fino a lasciare di me un semplice e derelitto mozzicone.  
Sia chiaro, tutto si consuma. Anche la linfa della tronfia Montblanc che mi sta di fronte.
Vuoi mettere, però, il sollievo di non dover misurare il passare del tempo con l’accorciarsi graduale della mia lunghezza? D’altronde, è lo stesso motivo per cui le saponette hanno lasciato il passo ai dispensatori di sapone liquido: la prima si consuma e il secondo finisce, ma la morte della prima si sconta giorno per giorno; di quella del sapone liquido, invece, ci se n’accorge solo all’ultimo bliz
Un tempo si diceva che la filosofia serve a preparare l’uomo alla morte. Voi umani, che avete espunto la fine dalla vostra vita, avete smesso di essere filosofi. Questo lo scrivo mentre chi m’impugna ha il foglio appoggiato al vetro della finestra. Perché, tra l’altro la mia grafite, a differenza dell’inchiostro, è capace di scrivere in tutte le posizioni.
Il sacrificio e la duttilità mi appartengono. A riprova di ciò, non soffro il freddo che paralizza l’inchiostro né le cadute «con la punta» che rendono la biro praticamente inservibile. Ho un solo bisogno/desiderio, e lo calco (perché solo io posso evidenziare una parola, un periodo senza bisogno di sottolineature): che mi si temperi, di tanto in tanto, e che voi uomini vogliate riprendere a essere filosofi facendo pace, una volta per tutte, con lo scorrere del tempo.

giovedì 5 marzo 2020

Saramago ai tempi del Coronavirus


In “Cecità” dell’immaginifico José Saramago, si racconta dell’improvvisa e singolare cecità che colpisce un’intera cittadina. Gli amministratori locali, allora, per evitare oltremodo il diffondersi del contagio, pensano bene di internare i gruppi di ciechi in vari edifici.
Orbene, l’epidemia in atto serve al premio Nobel portoghese per evidenziare l’indifferenza e l’egoismo del genere umano con alcune, isolate eccezioni, come la moglie del medico: ella, infatti, perfettamente sana, pur di restare accanto al marito e di prendersene cura nell’edificio in cui questi è relegato, si finge cieca.
Fuor di metafora, anche l’impazzimento da Coronavirus paragonabile, almeno per ciò che riguarda l’isteria mediatica, alla cecità di Saramago, ci è utile per mettere in luce l’ingiustizia e l’inumanità di sistemi sanitarie e persone.
Osmel Martinez Azcue, un uomo di Miami appena ritornato dalla Cina con sintomi influenzali, ha avuto l’ardire di richiedere al Jackson Memorial Hospital un tampone per il Coronavirus. Ebbene, tornato a casa, l’amara sorpresa: si è visto recapitare una lettera a firma della sua compagnia di assicurazione che gli chiedeva di sborsare ben 3.270 dollari.
È la sanità americana, bellezza, un sistema, cioè, non universalistico, in gran parte in mano ai privati, a cui ha accesso solo chi dispone di coperture assicurative alte o chi può far fronte di per sé agli ingenti costi delle cure.
Poi ci sono le persone. Come l’autista di un bus di Napoli che, avendo visto una coppia cinese in attesa alla fermata, decide di tirare dritto e di lasciarli a terra tra l’ilarità generale dei passeggeri.
L’epidemia da Coronavirus, come nel romanzo “Cecità” di José Saramago, ci ha fornito anche esempi, pure qui di persone e sistemi, stavolta estremamente positivi.
Il giovane medico di Wuhan, Li Wenliang, che, dopo aver notato le analogie fra sette casi clinici, ha lanciato per primo l’allarme sul Covid-19, pagando con la vita il suo altruismo.
Per ciò che attiene al sistema sanitario, invece, l’esempio felice è fin troppo semplice, non foss’altro perché ce l’abbiamo proprio qui, sotto i nostri occhi: la sanità pubblica italiana che, malgrado alcune lacune, sprechi, inefficienze, nonostante la doppia velocità Nord-Sud, è ancora una delle più “giuste” del mondo.
Sta a noi vigilare per impedirne qualsiasi manomissione, soprattutto in chiave privatistica.
A proposito di “cecità”, quindi, teniamo gli occhi ben aperti sulla sanità pubblica.




venerdì 14 settembre 2018

Il Nostro Prof Vincenzo Buonocore

Correva l’anno 1998. Superati gli esami più attinenti ai miei “studi classici ardenti” che alla professione di avvocato, mi accingevo a sostenere diritto privato.

Istituzioni di diritto privato!” -  mi avrebbe folgorato, per omnia saecula saeculorum, il Nostro.

Lungo i corridoi della facoltà di giurisprudenza, l’implume studente che ancora doveva passare sotto le forche caudine dell’esame di istituzioni di  diritto privato A/L, vivacchiava accartocciato nella paura ancestrale della collera del Nostro. Per chi, invece, avesse superato la tremenda prova, il futuro radioso di una vita professionale gli si schiudeva come bocciolo al primo raggio di sole.

“Diritto privato mezzo avvocato!” Ecco, per l’appunto: poiché dovevo pur legittimare la borsa di pelle regalatami dal nonno ancor prima dell’immatricolazione all’università, occorreva sostenerlo, ‘sto benedetto esame. E per farlo, era necessario seguire il corso, nonostante quello che si diceva del Nostro con il parlottare a mezza voce dei cospiratori. Cosa? Beh, tipo che dopo aver rivisto a distanza di dieci anni un suo studente, il Nostro gli avesse consigliato di farsi controllare quel neo sotto il lobo sinistro perché dieci anni prima aveva i contorni meno irregolari; che al terrorista infiltratosi tra i suoi corsisti con l’intento di far deflagrare l’intera università, bastò assistere a una sua lezione, per deporre sulla cattedra bomba ed estremismi vari e votarsi finalmente a una vita ascetica; e infine, che avendo il Nostro imposto il silenzio a un’aula insolitamente chiassosa, finanche le pagine del Trabucchi, col timore che qualcuno le leggesse e facesse così, suo malgrado, rumore, avessero intimato lo sfratto ai caratteri di stampa.

Primo giorno di corso nella leggendaria aula nr. 2.

Il Nostro entra alle nove in punto, facendo già intendere come la pensava in fatto di puntualità.

Il suo passo è malcerto. Si aggrappa alla cattedra. La tocca da un’estremità all’altra, quasi a prenderne le misure. Ricorda vagamente il comandante di una nave che, prima di salpare, ne percorre in solitudine il perimetro per saggiarne la forza e l’affidabilità.

Inizia il viaggio tra domande “pilastro”, che lo studente non può non sapere, e tra quelle “pilastrone”, alla cui mancata o errata risposta, non c’è appello che tenga: lo statino si autodistrugge per indegnità. Ma soprattutto, comincia il viaggio lungo sei mesi di una navigazione in mare aperto, perigliosa e affascinante insieme, sulla rotta di un eclettismo capace di far impallidire il buon Cicerone: si parte dal diritto per arrivare alla geografia astronomica, dopo una puntatina alla filosofia e alla letteratura (è il Nostro che mi parla per la prima volta di Andrea Camilleri e del suo Montalbano), per poi ritornare nuovamente nei lidi confortevoli del diritto.

In uno di questi voli pindarici, la domanda che impone di uscire allo scoperto: “Antipiretico…sì, ma chi conosce l’etimologia di questo termine?”

Pausa di quattro quarti.

Con l’incoscienza dei miei vent’anni, alzo il dito: “Dal greco, letteralmente contro il fuoco, quindi contro l’infiammazione.”

L’occhio del Nostro diventa rapace.

Dopo aver chiesto e ottenuto il mio cognome: “Cerchi di non cambiare troppo look e posto nell’aula per la durata del corso.” – si raccomanda: la sua portentosa memoria, infatti, dovrà avvalersi di un minimo di collaborazione da parte di ognuno di noi per consentirgli una valutazione quanto più giusta possibile.

Eccolo, in definitiva, il mio piccolo ricordo del Prof. Vincenzo Buonocore, al netto delle esagerazioni iniziali e di qualche forzatura di cui mi scuso in anticipo; di un uomo, cioè, con una cultura invidiabile e con un’umanità a tratti spigolosa, ma pur sempre profonda e vivida.

Caro Prof, dalla distanza siderale che intercorre tra le nostre dimensioni e da una diversa sensibilità politica, La prego di credermi: se anche fossi stato bocciato per aver toppato una delle Sue proverbiali domande pilastrone, ebbene, mai bocciatura sarebbe stata meglio incassata.

Grazie.