martedì 9 giugno 2020

"Non so", di Lorenzo Licalzi


Ci sono dei libri che, in situazioni normali, non compreresti. Poi ti soffermi a leggere la quarta di copertina color Tex Willer, e scopri che tu e il protagonista avete in comune un’esperienza che merita approfondimenti. E così, senza nemmeno accorgertene, il libro di Lorenzo Licalzi diventa il tuo nuovo compagno di viaggio.

Mario Dominici, fin dalla fanciullezza vissuta in periferia, “sa di non sapere”. E di questo “non so” si fa scudo per approcciarsi alla vita.

Io faccio parte di quella percentuale minima di italiani che ai sondaggi risponde non so.

Michel, il suo amichetto immaginario, lui sì che sa come si affronta la realtà. E tutta la vicenda di Mario, dalle angheria infertegli dal disadattato Solinas (a volte ritornano!) fino al riconquistato rapporto con il piccolo Leonardo, può essere vista come la necessità, lui eterno Willy il Coyote, di acciuffare finalmente l’inafferrabile Beep Beep.

Dall’amore per la musica dell’adolescenza che lo porta a lavorare e a dormire in radio, alla necessità del viaggio on the road anche nelle condizioni più estreme.

E come non parlare, poi, dell’amore della sua vita, quella Giulia che, pur partendo da un retroterra socio-culturale assai distante dal suo, si spoglia delle sue sovrastrutture fino a rivelarsi l’incastro perfetto per l’immaturo Mario? Senza contare, infine, l’improvvisa paternità che costringerà il protagonista a fare finalmente i conti con la sua vera natura e a imporgli un corso accelerato di crescita. È un percorso iniziatico, il suo, che non potrà fare a meno delle cadute che il tragitto porta inevitabilmente con sé: il viaggio in Giappone per mettersi alla prova e osare di più rispetto al comodo posto in banca confezionatogli dal suocero. Ma qui, ecco apparire la conturbante e mistica Naoko che sembra uscita pari pari da un libro di Murakami e che probabilmente sarà decisiva per salvare la vita di Giulia.

Sarà vero che in un’altra vita è stata l’anima gemella di Mario?

Alla fine, tra la voglia di dare una sorellina a Leonardo, la ripresa di quel viaggio rimandato alla soglia delle responsabilità e un lavoro che è finalmente confacente alla passione del protagonista, Giulia e Mario sono, ora sì, consapevoli dell’indispensabilità dell’una per l’altro.

E il “non so” di Mario, da autentica indecisione, si trasformerà in un’invincibile arma politica  (basterebbe questo per creare scompensi inimmaginabili alla cosiddetta società capitalistica avanzata).

Un libro giovane e fresco, questo di Licalzi, che incuriosisce e crea complicità tra scrittore e lettore; a tal punto da poterne trarre un film (i tempi cinematografici ci sono tutti) anche meno leggero di quelli che, di solito, vengono ispirati da opere del genere.

giovedì 4 giugno 2020

Giovi, la strada per il parto


C’è una strada, a Giovi. Oddio, detta così la cosa, sembrerebbe che ce ne fosse solo una, di strada a Giovi.  E invece no.

Quello che voglio dire, è che c’è una strada in particolare, a Giovi: quella che si snoda tra l’unico ufficio postale di Piegolelle e l’ultima curva panoramica di Bottiglieri. Ebbene, questa strada è un unicum per tutta Salerno. È si asfaltata, ci mancherebbe, ma lo strato di asfalto presenta, in ordine sparso, fossi, balze, crateri, dislivelli, gobbe, pantani, grattugie bituminose. Il tutto, manco a dirlo, amalgamato dalle bestemmie più o meno peccaminose di chi si trova a percorrerla.

Eppure, da circa un mese, anche questa strada ha trovato la sua ragion d’essere. Dopo infatti che gli autisti, i ciclisti, i cinghialotti multistrato del footing hanno rotto, nell’ordine, semiassi, ruote e caviglie, a Marcovaldo il tabaccaio si è accesa la lampadina.

Come tutte le cose destinate a cambiare il mondo, l’idea è nata per caso

“Tu vuoi favorire le contrazioni di tua moglie, che così te la sgrava presto presto la nennella? Venite in macchina con me e, senza nemmeno il tempo di dire “Madonna mia, aiutami!”, la femmina tua sarà già in sala parto.”

Com’è come non è, davvero la signora Brigida, dopo aver percorso il tratto di strada tra Piegolelle e Bottiglieri a bordo dell’auto di Marcovaldo, tra un dosso e un fosso, è stata assalita dalle contrazioni. A tal punto che se il tabaccaio non fosse stato lesto di acceleratore, avrebbe visto la sua tappezzeria a coste blu naufragare nelle “acque rotte” della signora Brigida.

È bastato quest’evento a far spargere la voce. E adesso, quando la gravida all’ultimo stadio si danna col maschio per ‘ste benedette contrazioni che non ne vogliono sapere di venire”, si sente addosso lo sguardo sornione del “mo me la vedo io.”

E così, dopo aver percorso la strada incriminata, non c’è altra via che non sia quella dell’ospedale o della clinica.

In conclusione, se all’ormai rinomata “passeggiata della partoriente” aggiungiamo anche l’avida lobby dei meccanici (ogni settimana almeno un giovese, cascasse il mondo, bussa alla loro saracinesca per il semiasse andato alla malora), non ci saranno santi che tengano: la strada che da Giovi Piegolelle mena a Bottiglieri rimarrà sempre così, sgarrupata da far ribrezzo, per omnia saecula saeculorum.

Requiescat in pace.

 

 

martedì 26 maggio 2020

"Regalo di nozze", di Andrea Vitali


Eccolo qui, Ercole Correnti. Ha ventinove anni, e tra qualche giorno pronuncerà il fatidico sì.

Frattanto s'affretta a raggiungere mamma Assunta per la consueta cena. Oddio, a esser sinceri, più che attratto dal desco non propriamente da gourmet (“sua madre ai fornelli non ci sapeva fare”), Ercole vuole arrivare in tempo per celebrare, come si conviene, la sua ultima domenica da scapolo.

Sul lungolago, però, all’improvviso una visione: una 600 bianca precisa’ntifica a quella di suo padre Amedeo. A un tempo, la prima e unica autovettura acquistata da suo padre e la prima e l’ultima che lo zio Pinuccio aveva guidato.

Già, lo zio Pinuccio!

Aveva trentott’anni ma ne dimostrava al massimo trenta. Cacciaballe impunito  soprattutto “quando aveva sottomano qualche donna da circuire”, arbiter elegantiarum (“per me l’eleganza è tutto”), quella sera di vent’anni addietro se ne uscì con la proposta monstre: mentre la famiglia era impegnata nel rituale (“rito coordinato, quasi che dietro ci fosse una regia”) del gettare gli avanzi ai gatti del quartiere, infatti, dall’angolo delle proposte indicibili sgaiattolò fuori un:«Perché domani non ce ne andiamo a fare una bella gita al mare

Dopo un attimo di sconcerto, tra lo scuotere della testa della mamma “come per scacciar via delle mosche” e le braccia allargate del papà, il «sì» entusiasta del raggiante Ercole ebbe la meglio.

Anche lui avrebbe visto finalmente il mare.

La 600 bianca, dopo mille giri a vuoto, qualche conato di vomito del piccolo Ercole e le imprecazioni post strada immancabilmente sbagliata, porta la famiglia Correnti a destinazione. Manco il tempo di godere, trafelati e spossati, di quell’enorme distesa d’acqua, che una foto scattata solo per finta riporta Ercole, Amedeo, Assunta e Pinuccio nei circuiti delle piccole manie di provincia.

Una mancanza, fulminea, inaspettata (“Allo zio Pinuccio non bastò passare tutta la notte in veglia per comprendere che…era davvero morto”). Il tempo per elaborare il lutto, e la decisione inaspettata di sposarsi: "era giunta l’ora di mettere la testa a posto."

La 600 bianca, ancora lei, che assume le vesti del regalo di nozze per lo zio Pinuccio, ex “nato gagà”. Eppure le acque del lago, a volte, sanno essere davvero voraci. Una curva, un fuoripista, e le gesta dello zio Pinuccio vengono consegnate, armi e bagagli, alla leggenda di Bellano.

Di fronte alla mamma, alla vigilia del suo matrimonio, Ercole Correnti aggiunge l’ultimo tassello alle mirabilia dello zio Pinuccio: la leggendaria gita al mare di vent’anni addietro era stata architettata e posta in essere per sfuggire a un altro, di matrimonio; stavolta e per sempre, avvolto nelle nebbie dell’irrimediabilità. E purtuttavia, senza rancore, come dimostra quella foto che adesso Ercole si trova a rigirarsi, sorridente, tra le mani.

“Di fronte a uno che sa raccontare, che ha la felicità del racconto, ti senti grato” (A. Camilleri)

 

 

giovedì 21 maggio 2020

Avvocati in naftalina


Basta armarsi di un po’ di pazienza e li troverai lì, ognuno all’insaputa dell’altro, ciascuno con orari e manie diversi da quelli dei colleghi, a costeggiare i perimetri degli uffici giudiziari.
Come il latitante che finirà sempre a rintanarsi in un buco di culo vicino al suo paese natio, così gli avvocati. Sì, magari li vedrai camminare a passo svelto, con la borsa similpelle dei fascicoli migliori, con l’abbronzatura di chi si è dimenato da una fumisteria del diritto all’altra. E pazienza se, da marzo e almeno fino a settembre, il passo svelto è e sarà quello di chi circumnaviga terre inesplorate solo per distanziarsi dal cliente dell’ “Avvoca’, ma quei soldi, ce la faccio a vederli prima di andare in pensione?”; poco male che la borsa similpelle, apparentemente abboffata come la zampogna natalizia sulla nota più grassa, è e sarà imbottita dai manualoni del ragionamento critico-numerico; peccato che l’abbronzatura color pervinca è e sarà la disperata mossa di giardinaggio, d’agricoltura o di semplice “stallo balconiano” data in pasto alla famelicità delle giornate floscie.
E sì perché, com’è ormai noto a tutti fuorché al cliente di cui sopra che si ostina a implorare diritto in un mondo storto, gli avvocati sono ibernati in un bozzolo d’irrilevanza: udienze rinviate alle calende greche o imbalsamate nella rete del vorrei ma non posso; adempimenti inadempienti per cancellieri alternati e snervati dalle telefonate e dalle mail inevase.
Insomma, l’avvocatura è stata messa sotto naftalina.
Già, proprio come le nostre nonne facevano con le lenzuola per difenderle dalle tarme, in attesa della stagione propizia per tirarle fuori dall’armadio.
Gli avvocati, infatti, sono stati acciuffati nelle aule dell’ “e però c’è prima la mediazione obbligatoria”, nelle cancellerie del “voi avvocati rovistate nei fascicoli, li perdete, e poi li volete da noi”, negli studi legali dell’ “ancora un’altra ora, tanto c’è tuo marito a casa”, e così come si trovavano, sono stati piegati, possibilmente a novanta gradi, e riposti nel cassetto della giustizia denegata. “In attesa della stagione propizia”, proprio come le lenzuola di poc’anzi. Con la differenza, non trascurabile, che le naftalina, per sua stessa natura, preserva i tessuti; agli avvocati, invece, fa l’effetto di rodere, fino a scarnificarlo, il fegato. Certo, poi ci sarebbero le aspettative frustrate, gli studi sviliti, i costi esorbitanti di una professione, quando va bene, ormai operaia. Senza contare che, all’orizzonte, non si staglia nessuna stagione, men che meno propizia.

giovedì 14 maggio 2020

Libertà dalla pandemia con Orlando

Avrei tanto voluto puntare sul mio cane, ma una pappagorgia smisurata unita a un’indolenza che solo le bistecche e il ritorno del padrone possono vincere, mi hanno già da tempo fatto mettere sulle tracce di un sostituto. Non ho dovuto cercare troppo. A un tiro di schioppo da casa mia, un cane giovane e vibrante, ogni mattina, è costretto a tirarsi appresso una padrona che proprio non ce la fa a stare dietro alle sue intemperanze.

Ecco, quello è il mio cane. Nei giorni scorsi, ho osservato gli orari della sua passeggiata, ho provveduto a ingraziarmi la padrona offrendomi più volte di aiutarla a portare le buste della spesa. Nondimeno, non ho smesso un solo momento di corteggiare spudoratamente il furioso Orlando. Poi, una volta certo che anche la padrona avesse approvato la mia complicità con l’animale, osservando sempre la tirannica distanza anti-covid, ho azzardato: “Signora, le dispiacerebbe se domattina vengo a prendere Orlando e lo porto un poco a sgranchirsi le zampe?”

La mia offerta viene veicolata con un atteggiamento a metà tra la compassione per Orlando a causa della sua perenne cattività, e la comprensione per l’anziana padrona che ogni giorno rischia tibia e perone per l’esuberanza del cucciolo.

“Oh, certo che sì. Vero, Orlanduccio mio, che vuoi farti una corsetta con il nostro Vincenzino?”

Gli occhi elettrici del cane passano in una frazione di secondo dalla sua padrona a me. Attimo di esitazione.

Lo scodinzolio festante suggella il patto.

La mattina dopo, di buon’ora, sono già sullo sterminato campo oggetto di attento sopralluogo nei giorni precedenti.

Io, Orlando e una distesa chilometrica di erba.

Muscoli e fibre sono tesi allo spasimo.

Un cenno d’intesa, l’ultimo.

La corsa inizia sconclusionata e senza riserve. I cuori scalpitano all’impazzata.

Questa è la mia libertà dalla pandemia; dai morti d’aria, dagli intubati che implorano carezze da uno scafandro impotente, dalla distanza che smarrisce l’umanità, dall’egoismo che inchiavarda bare con puntelli di profitto.

La nostra corsa è quella di chi festeggia la pioggia al lazzaretto di Renzo e Lucia, dei partigiani che smaltiscono le tossine nazi-fasciste dell’orrore, dei bimbi africani finalmente ammessi all’imbandita mensa delle opportunità.

Corse, quest’ultime, tutte diverse. Ma ognuna di esse bastevole, di per sé, a giustificare un’esistenza. Libera, almeno per la durata della corsa.