Ecco, quello è il mio cane. Nei giorni scorsi, ho osservato gli orari della sua passeggiata, ho provveduto a ingraziarmi la padrona offrendomi più volte di aiutarla a portare le buste della spesa. Nondimeno, non ho smesso un solo momento di corteggiare spudoratamente il furioso Orlando. Poi, una volta certo che anche la padrona avesse approvato la mia complicità con l’animale, osservando sempre la tirannica distanza anti-covid, ho azzardato: “Signora, le dispiacerebbe se domattina vengo a prendere Orlando e lo porto un poco a sgranchirsi le zampe?”
La mia offerta viene veicolata con un atteggiamento a metà tra la compassione per Orlando a causa della sua perenne cattività, e la comprensione per l’anziana padrona che ogni giorno rischia tibia e perone per l’esuberanza del cucciolo.
“Oh, certo che sì. Vero, Orlanduccio mio, che vuoi farti una corsetta con il nostro Vincenzino?”
Gli occhi elettrici del cane passano in una frazione di secondo dalla sua padrona a me. Attimo di esitazione.
Lo scodinzolio festante suggella il patto.
La mattina dopo, di buon’ora, sono già sullo sterminato campo oggetto di attento sopralluogo nei giorni precedenti.
Io, Orlando e una distesa chilometrica di erba.
Muscoli e fibre sono tesi allo spasimo.
Un cenno d’intesa, l’ultimo.
La corsa inizia sconclusionata e senza riserve. I cuori scalpitano all’impazzata.
Questa è la mia libertà dalla pandemia; dai morti d’aria, dagli intubati che implorano carezze da uno scafandro impotente, dalla distanza che smarrisce l’umanità, dall’egoismo che inchiavarda bare con puntelli di profitto.
La nostra corsa è quella di chi festeggia la pioggia al lazzaretto di Renzo e Lucia, dei partigiani che smaltiscono le tossine nazi-fasciste dell’orrore, dei bimbi africani finalmente ammessi all’imbandita mensa delle opportunità.
Corse, quest’ultime, tutte diverse. Ma ognuna di esse bastevole, di per sé, a giustificare un’esistenza. Libera, almeno per la durata della corsa.
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