Diciamocela tutta: larga parte di noi, a Salerno, in Campania, non ha avuto esatta percezione della pandemia. Al netto delle 360 e passa vittime e dei familiari che quelle morti hanno dovuto piangere (in solitaria), infatti, abbiamo vissuto un po’ il covid-19 nelle retrovie, in trincea; e questo mentre regioni e città del nord hanno visto sfilare nelle proprie strade carovane di camion militari trasformati in urne cinerarie. Io, per esempio, pur attenendomi più o meno scrupolosamente alle disposizioni anti covid, ho avvertito il pericolo di morte da pandemia come Montalbano il rischio di vedersi servire da Enzo il luccio anziché la consueta triglia di giornata: un’eventualità, cioè, alquanto remota.
Tutto questo, fino al 2 maggio scorso. Nello specifico, fino a quando il commissario straordinario all'emergenza coronavirus, dottor Domenico Arcuri, non ha sbandierato in diretta tv le mascherine per i bambini: piccole fibre di poliestere su cui, probabilmente per anestetizzare il senso di costrizione dei pargoletti, sono stati impresse le immagini colorate di eroi ed eroine, animali e fiori.
Nel momento stesso in cui il sorridente commissario mostrava quelle mascherine a favor di telecamera, ho acquisito piena contezza dei disastri causati dal covid-19. La mia mente è andata subito alle mille intemperanze di un bambino nel suo lungo e scostumato approccio con il mondo e con l’altro da sé.
Il toccare, l’annusare, il capitombolare, l’infrattarsi in corpi, selve e straducce. Attività indispensabili, queste ultime, costrette a essere mediate da un ostacolo fisico, la mascherina per l’appunto, e da un altro, non meno invalidante ed estraniante, come il peso dell’apprensione dei genitori.
Al pensare ciò, allora, scaglie di freddo hanno preso in ostaggio la mia spina dorsale. Per un attimo, mi è mancato il respiro. E immediatamente, dalle risacche della mia memoria, è riaffiorato lo sketch di Massimo Troisi in Ricomincio da tre, quando il Gaetano del compianto artista spinge l’impacciatissimo Robertino ad aprirsi alla vita, se vuole evitare che i complessi mentali diagnosticatigli da “mammina” si trasformino in un’orchestra intera che troneggia nel cervello.
Ecco, a immaginarmi come la mamma iperapprensiva di Robertino al cospetto di un mio figlio per evitargli un possibile contagio, proprio non mi ci vedo.
Da figlio, parimenti, al solo pensiero di essere confinato nella torre eburnea del distanziamento sociale, sia pure a difesa dalla pandemia, mi provocherebbe una crisi di rigetto spropositata.
Da padre o da figlio, quindi, implorerei il vaccino con la stessa veemenza con cui il cieco impetra la vista.
Nell’attesa, che tu sia genitore o figlio, non ti resta che accettare le limitazioni a tutela della salute, nostra e degli altri.
Nessun commento:
Posta un commento