lunedì 5 gennaio 2015

Il respiro di Napoli (su Pino Daniele)

Il respiro di Napoli, arrochito dalla pietra lavica del Vesuvio, affannato dai miasmi dei roghi tossici, eternato dagli squarci di storia infinita…

…e ancora, il respiro di Napoli, cullato dall’ adda’ passà ‘a nuttata, raccontato dai vicoli stesi al sole, immillato dalla musica delle contaminazioni…: ebbene, il respiro di Napoli è venuto, ancora una volta, meno.

Nei polmoni abusati eppure capaci di sempre nuovi immagazzinamenti di vita, vi è stato un momento di pucundria. Una pausa che ha atrofizzato, sia pure solo per un attimo, gli alveoli che incamerano l’addore ‘e mare e lo trasformano in mille culure.

Il respiro di Napoli si è strozzato in gola. È morto Pino Daniele.

Per trenta secondi, la città si è cristallizzata in un dagherrotipo del tempo presente, eppure già imbrigliato nel passato di un’assenza.

Napule è ‘na carta sporca…

Ogge è deritto, dimane è stuorto, e chesta vita se ne và…

E nui passammo e uaie e nun puttimmo suppurtà e chiste invece e rà na mano s’allisciano se vattono se magniano a città…

E ancora, perché i trenta secondi dei grandi si misurano in emozioni, il blues napoletano di un nero a metà, l’oggi è sabato, domani non si va a scuola di ogni ultima ora di religione, il quanto costa la felicità delle prime riflessioni sul senso della vita; infine, l’a me me piace chi dà ‘nfaccia senza ‘e se fermà’, rimuginato davanti a ‘na tazzulella ‘e cafè, quanno chiove e avresti voglia di mettere tutti ‘nfaccia ‘o muro.

Al respiro di Napoli basta anche solo questo primo universo di musica di Pino Daniele, per avvertire l’esigenza di fermare il cuore del suo microcosmo.

Come le era capitato di fare anche per Massimo Troisi, che aveva rivestito di immagini le semiminime e gli accordi della chitarra di Pino Daniele.

Il respiro di Napoli, però, inizia a insufflare aria non appena viene solleticato da un altro garage del Rione Sanità, dove un giovane cerca il riscatto tra le corde di una chitarra; quando viene pungolato da un ennesimo scugnizzo che imbraccia uno strumento troppo pesante di fatica per essere studiato nelle aule leggere del Conservatorio.

Il gorgoglio di vita chiede di poter sfociare in un rigurgito di aria allorquando assiste all’incontro tra un chitarrista e un attore che continueranno a declinare, servendosi di musica e celluloide, il genio di Napoli nel mondo.

Troppa aria viene immagazzinata nei polmoni. È giunto il momento di riattivarsi.

Il respiro di Napoli riprende ancora una volta a dare senso alla vita.

E cammina, cammina vicino ò puorto / e rirenno pensa a’ morte / se venisse mò fosse cchiù cuntento / tanto io parlo e nisciuno me sento…

Addio Pino, e quanto ti sbagliavi nel pensare che la morte potesse rendere afona la tua voce di chitarra e poesia!

martedì 30 dicembre 2014

È severamente vietato...ovvero la "manomissione" delle parole

“È vietato severamente…”, ovvero la “manomissione” delle parole

Fermo davanti al cartello del parco Mercatello, ho un sentore di qualcosa di superfluo. “Boh, – mi dico -sarà il “di più a prescindere” di queste feste che appare anche in un innocuo “avviso ai visitatori”.

Percorro a piedi l’umbratile distanza tra il parco stesso e l’ufficio postale di Mariconda.

L’ “è vietato severamente”, però, me lo porto fin al cospetto dell’addetto alla “consegna posta inesitata”.

Qui mi imbatto in un bisbiglio di protesta che diviene vera e propria ribellione non appena dall’esterno dell’ufficio viene veicolato all’interno.

<È inutile, – precisa l’impiegato – abbiamo l’ordine tassativo…è severamente vietato…>.

“ordine tassativo…severamente vietato”: eccomi finalmente chiara la superfetazione iniziale.

Non c’è niente di meglio che la lingua, organismo vivo e sensibile come non mai, a descrivere le abitudini di un popolo. Una nazione che ha bisogno di “rendere più forte” un lemma che di per sé dovrebbe essere già il non plus ultra, non è una nazione affidabile.

Il tristemente noto “achtung” tedesco, infatti, non viene nemmeno sfiorato dal dubbio che qualcosa possa rafforzarlo. In esso già è concentrato l’acme dell’imperio.

Tornando al nostro divieto iniziale, occorre precisare come sia inutile, nel momento in cui si dice o si scrive “è vietato”, aggiungere un avverbio (“severamente”, “assolutamente”, etc .). Il participio passato “vietato” dovrebbe essere così forte, così categorico, da non consentire alcun altro rafforzativo. “È vietato”. Punto. Stop. Non si può vietare poco o vietare assai.

Analogo discorso si può fare con il verbo “amare“. Se io amo, amo. Se il mio sentimento verso qualcuno o qualcosa è inferiore all’amore, io non utilizzo “amo poco”, bensì faccio ricorso a un verbo meno esaustivo e coinvolgente dell’amare come “piacere”, ad esempio.

Nel 2010, l’ottimo Gianrico Carofiglio, ha pubblicato il saggio “La manomissione delle parole“, edito da Rizzoli. Ebbene, in quest’opera, lo scrittore usa il termine manomissione sia come denuncia che come auspicio. Come denuncia, perché invita a non, per l’appunto, manomettere, travisare le parole, tradendo il loro significato originario e attribuendogli una gradazione più o meno forte di quella che ontologicamente hanno (“è severamente vietato”, ad esempio).

La manomissione come auspicio invece, è insita nell’etimologia di siffatto lemma che risale addirittura al diritto romano: “manomettere”, dal lat. manumittĕre, propr. “mandar libero (mittĕre) con la mano (nu)”, per est. “rendere libero dalla schiavitù”. Ecco, l’auspicio dello scrittore a liberare le parole vuole essere anche una sorta di missione che ognuno di noi deve impegnarsi a portare a termine: scrivere, parlare, dando il giusto peso ai vocaboli utilizzati.

Possiamo iniziare già in occasione di queste feste facendo, ad esempio, gli “auguri” e non i troppo inflazionati “augurissimi”. Che poi, sia chiaro, se in questi giorni il destinatario dei nostri auguri vince il superenalotto, si fidanza con miss universo, scopre la fonte dell’eterna giovinezza, beh, in questo caso (ma solo in questo caso) potrebbe senza dubbio meritare gli “augurissimi”.

In conclusione, è vietato (e basta!) darsi per vinti, lasciando che il colore della nostra lingua venga sbiadito da un uso improprio.

martedì 23 dicembre 2014

Morto Babbo Natale, viva Babbo Natale

“Morto Babbo Natale”. Ebbene sì, il nostro giornale ZerOttoNove (ZON), è stato il primo a diffondere la ferale notizia.

È stata la vocina affranta di uno dei folletti a telefonarci in redazione. Poiché però, in quel momento, vi ero presente solo io, il direttore  ha dovuto abbozzare: meglio un giornalista di mezza tacca sul locus commissi delicti, che il rischio di lasciarci soffiare lo scoop (e che scoop!) della morte di Babbo Natale.

Appuntamento a mezzanotte in punto sul tetto della biblioteca dell’Università.

Si materializza, ad una decina di metri dal mio naso rigorosamente all’insù, una slitta immensa, trainata da una messe di renne. A guidarla il folletto che, non appena mi invita a salire per la scala di luce e polvere di stelle srotolata fino ai miei piedi, riconosco essere la mia fonte.

Mi si bendano gli occhi.

In un tempo che non so quantificare, mi sorprendo seduto, finalmente con gli occhi liberi, davanti ad un pantagruelico camino. In mano, una tazza di cioccolata calda.

Il folletto abbacchiato, dopo aver tentato di sedare la disperazione della Befana, mi si siede di fronte.

Mi dice che può parlarmi solo per cinque minuti: il tempo necessario, cioè, per evitare di corrompere la sua natura di fiaba. Così dicendo, mi pone in grembo un pacco di libri avvolti in carta da spedizione.

<Quando il dolce Babbo Natale – spiega il folletto ancora provato – si è reso conto che Amazon “spedisce” più velocemente di noi, non c’è l’ha fatta.>

Lo guardo ammammaloccuto.

Il folletto si soffia il naso e riprende:<Ovviamente non è solo per questo che ha deciso di farla finita. E prima ci si mettono i Natale a mezze maniche; poi i regali sempre più stupidi richiesti dai bambini; ancora le stufe a pellet che soppiantano i camini; infine, le continue interferenze, coi nostri voli, di aeroplani, satelliti vari, e cianfrusaglie volanti>.

Lo osservo insoddisfatto.

<Però, – ammette, riuscendo a sorridere per un breve istante – forse i tuoi colleghi di giornale ti sottovalutano. Ebbene, – confessa ora intristito non più soltanto dalla morte del suo capo – il motivo principale che ha indotto Babbo Natale a togliersi la vita, è che nessun bambino desidera più davvero qualcosa. Ogni desiderio, – spiega immalinconito – si nutre dell’attesa. Nel momento in cui tra la voglia della strenna e il suo ottenimento non vi è alcun lasso di tempo, la felicità è dimidiata. La verità – e il suo sguardo penetra il mio – è che il desiderio è morto. Gli occhi dei bambini non invocano più la venuta di Babbo Natale. Ed è per questo che….morto Babbo Natale, – esplode in un repentino, quanto inspiegabile, urlo di gioia – viva Babbo Natale! Da questo momento in poi, – e il rintocco tonitruante di un pendolo dal Paese di molto lontano mi fa sobbalzare – amico caro, Babbo Natale sarà morto per i bimbi opulenti d’Occidente. Sarà, invece, vivo, vivissimo, per quei piccoletti che ancora hanno voglia di appendere lo sguardo alla gruccia della sua scia luminosa, nell’attesa cullata per un anno intero>.

Non c’è tempo per capire. Uno smilzo Babbo Natale, con le guance lisce come il popò di un bambino,  mi si materializza davanti.

<Non ho spazio per i vostri eccessi: – mi dice nell’atto di accarezzare una pancia che non c’è più – il mio impegno, la mia opera, saranno rivolti solo a chi ha ancora, nel cuore e nel fisico, qualche mancanza da colmare>.

Mi sorprendo a svegliarmi.

Sono davanti al monitor del pc in compagnia della birra a triplo malto, per fegati allevati a vodka e whisky, che non è riuscita ad allontanare l’abbiocco.

Deluso per l’inganno onirico, apro il balcone e guardo in su.

Una cometa iridescente, lunga quanto l’attesa di un desiderio, si sposta verso il Sud del mondo.

Buon Natale!

martedì 16 dicembre 2014

“Vita di Luciano De Crescenzo scritta da lui medesimo”, di Luciano De Crescenzo

Vita di Luciano De Crescenzo scritta da lui medesimo”

Una vita dolce come il profumo della sfogliatella gustata al “Pallonetto” di Santa Lucia; anche chiassosa, però, al pari del sole di Napoli che allucca tra i vicoli scarmigliati della città.

Un’esistenza, infine, irriverente alla stregua dell’ingegnere regimental della IBM che si fa rivoluzionare la vita dai filosofi presocratici.

La vita di De Crescenzo ti esplode tra le mani come un carillon di musica e magia abbandonato tra i titoli di Borsa di Piazza Affari. E tra una piroetta della ballerina che da cinquant’anni si ostina a seguire quelle scarne, acute note metalliche e lo sguardo ammirato del rampante finanziere allevato a play station e virtualità, eccoti squadernare davanti agli occhi la serie di personaggi, a tal punto strabilianti da non poter essere altro che veri, della vita dello scrittore: la mamma, che dopo aver criticato un attimo prima l’esibizione in RAI di Ella Fitzgerald (“secondo me, i negri dovrebbero cantare per i negri e i bianchi per i bianchi”), risponde all’intervistatrice telefonica che le chiede un giudizio sull’artista che questa cantante le piace moltissimo perché “se io dicevo che non mi piaceva, quella poi la RAI la licenziava e questo non sta bene: chella è già accussì nera!”; il padre, anticonsumista sfegatato, che impone l’acquisto delle scarpe solo nel negozio di Stefanino Buontempo che, poiché quest’ultimo “aveva mollato, praticamente sull’altare” una loro parente, adesso è obbligato a praticare lo sconto del 30%, “vita natural durante, su tutti gli articoli del negozio”; e poi, ancora, come non citare zio Luigi, ‘o pallista, che giura e spergiura che Hitler non è tedesco, ma nato a Predappio come Mussolini (“…ma può essere che non t’accorgi che è un travestito! Hai visto i capelli che tiene? (…) E il baffetto posticcio dove lo mettiamo? Andiamo: (…) quello è na macchietta, a me me pare Charlot!”)?!

Ma la vita di Luciano De Crescenzo è ricca anche di aneddoti legati al sesso come il racconto della disarmante prima volta, nell’agognato bordello vagheggiato fin dall’adolescenza, in cui “le residue speranze di una già improbabile erezione svanirono di colpo” non appena la puttana di turno, “dopo un rapido sopralluogo per vedere se avessi piattole o altri insetti”, prese il flit “e mi stantuffò tra le gambe una fredda nuvola di disinfettante”; così come di frammenti di vita relativi al primo amore, anzi, ai “primi quattro amori” (da bambino, da adolescente, da giovanotto, da adulto) “e non quattro amori diversi (…), perché credo di essermi innamorato sempre della stessa persona”.

Sullo sfondo, poi, campeggiano, reclamando a gran voce cittadinanza in questo scritto, il paragrafo intitolato “il ventre della vacca” in cui anche trovare un paracadute, negli anni della Grande Guerra, può essere una fortuna (“a Napoli, la signora Santommaso, con la stoffa di un paracadute si è fatta ventidue camicie di seta”) e quello de “la fame” dove, sempre durante il conflitto bellico, ascoltando estasiati uno dei racconti mirabolanti di Zio Luigi, Luciano De Crescenzo e il cugino staccano i parati della cucina perché le carte da parati “si attaccano con la colla”; “e la colla come si fa?” “Con la farina.” E se Totonno ‘o Pizzaiuolo, come ha appena raccontato zio Luigi, impastò la polvere con l’acqua fino a ricavarne delle pizzette niente male, perché non possono provarci anche loro, Luciano e il cugino, a fare una cosa simile?

La vita dell’inclito scrittore prosegue con l’esperienza lavorativa in IBM e con lo scetticismo dei napoletani verso il futuro avveniristico promesso dalle macchine:

"Ma ti pare che a Napoli, con tutti i disoccupati che ci sono, quelli vanno a comprare le macchine tue? Secondo me, queste società sai che faranno? Chiameranno i disoccupati e gli daranno una moltiplicazione a testa, e quelli in quattro e quattro otto ti fanno tutti i conti. Secondo me era meglio se t’impizzavi nel Banco di Napoli!"

Dopo un breve accenno all’esperienza cinematografica, l’attenzione di De Crescenzo si sposta, non senza qualche timore per la complessità dell’argomento, sul “Dubbio positivo” che lo porta, da lì a poco, ad interrogarsi sull’eterna ed annosa quaestio del fine vita.  E, pur trovandosi necessariamente a suo agio perché approdato alla “preparazione alla morte” che i suoi amati filosofi praticavano fin dall’età della comprensione, l’arguto scrittore non può evitare di suscitare nel lettore un moto di disarmante dolcezza quando si richiama al finale del film “I clown” di Federico Fellini.

Tra le pieghe del bianco e nero di siffatta pellicola il pagliaccio protagonista, all’affermazione del direttore del circo circa la morte del compagno di numero Fru-Fru che gli deve ancora restituire dieci salsicce dall’anno scorso, obietta che “uno non può mica sparire così: da qualche parte deve pur stare.” E convinto di ciò, il pagliaccio prova a suonare la canzone del proprio numero: “ebbene, non appena attacco una nota, ecco che lui mi appare, come per incanto, e mi risponde suonando”.

Una vita in musica, anche quella di De Crescenzo, che pur nei limiti di questo libro (troppo trascurata, ad esempio, la svolta che l’ha portato ad abbandonare la professione di ingegnere per la fortunata carriera di scrittore), è stata capace di farci sorridere con ironica, intelligente e colta partecipazione.

E speriamo, infine, che la preziosa ballerina del carillon di cui sopra ce la faccia ancora una volta (è da troppo tempo ormai che, vuoi per le sue condizioni di salute, vuoi per un probabile prosciugamento della vena artistica, De Crescenzo non riesce a regalarci nuovi spunti letterari) a deliziarci con le sue poetiche e pregne di umanità piroette d’amore.

In questi tempi tristi, ne avvertiamo davvero il bisogno, come ugualmente sentiamo la necessità di aforismi del calibro di questo contenuto proprio in “Vita di Luciano De Crescenzo scritta da lui medesimo”: “La pubblicità sarà il veleno preparato dall’omologazione e la televisione il bicchiere dentro il quale ce lo fanno bere“.

Ad Maiora, Lucia’!

martedì 9 dicembre 2014

Il rosso del sipario e la sua essenza

Il rosso che squarcia il velo di ogni oscurità

Non ho bisogno dell’accompagnatore. Per orientarmi, è sufficiente che qualcuno suoni anche poche e semplici note fino alla mia entrata in scena.

La platea, il loggione, li sento strabordare di curiosità ammirata.

Ecco, mi dicono di prepararmi. Prendo le giuste distanze dal sipario che so di essere di colore rosso… già, rosso: alla mia ancestrale domanda, mi hanno risposto: “Sì, insomma…del colore del sangue” oppure “Lei ha presente il semaforo…?” o ancora “Basta pensare a una tinta più chiara di quella della maglietta della Salernitana”. Eppure, mi viene da pensare in questo momento, io saprei spiegare benissimo cos’è l’oscurità! E qui mi sorprendo a sorridere perché, come sempre, anche questa volta l’origine di tutte le incomprensioni s’annida nell’imprecisione delle mie domande. D’altra parte, quando l’infanzia s’azzardava, impertinente, a porre quesiti di tal genere, non era ancora a conoscenza del mondo delle idee di Platone; giocoforza, non avrebbe potuto chiedere, malgrado già l’intuisse, una cosa del tipo: “Sì ma… qual è l’essenza, l’idea della…rossità? Insomma, della rossezza a cui mi devo rifare?”

Troppo tempo ormai, è stato perso.

Ecco, ci siamo. Alessandra centellina le ultime note di una fuga di Bach. Mi aggrappo a esse e mi lascio sospingere al di là del sipario rosso.

Un applauso intenso circonda i miei sensi. La mia unica preoccupazione però, è quella di stare attento a rimanere nella scia del “do maggiore” a cui, tra una manciata di secondi, Ale darà voce. Eccolo qui. Affretto il passo. Un quarto, due quarti, tre quarti… il salto. Afferro il pianoforte. M’oriento grazie a esso.

M’inchino al pubblico. Artiglio le dita affusolate di Ale con la destra mentre la mano sinistra è sempre lì, piantata sul mio mondo. Con il piede cerco la panca. La trovo leggermente spostata a sinistra (probabilmente Alessandra si sarà emozionata alla fine dell’esecuzione), la sistemo e mi ci siedo. Apro e chiudo tre volte la mano destra e poi, di seguito, quella sinistra.

Poggio le dita tremanti sulla tastiera. Animo i polpastrelli.

Un’ottava, altre ottave per poi ritornare alla prima.

Un mare di tasti bianchi solcato da una miriade di delfini neri.

La mia anima esplode e vedo finalmente il rosso del sipario e la sua essenza.

mercoledì 3 dicembre 2014

Lo scrittore, questo sconosciuto!

No ma, per dire, io ancora non ho capito come si faccia a diventare scrittore. Mi arrovello fino a perdere la proverbiale trebisonda, ma non c’è verso di raccapezzarmi.

Qualcuno, allora, mi potrebbe chiedere che cosa io intenda per scrittore. E sarebbe la domanda giusta visto che, dalla notte dei tempi, per voler far parte di una categoria occorre quanto meno averne una visione di insieme, di questa categoria; anche perché, diversamente, non so fino a che punto uno possa sentirsi legittimato, con lo sguardo gemebondo e trasognante, a  sospirare: “Ah, lo scrittore!”.
Ebbene, io, per scrittore, intendo un tizio che magari passi la giornata a zonzo, in una città qualsiasi dell’universo-mondo, per raccogliere sempre nuovi spunti di riflessione…beh, a pensarci bene, anche il vagabondo fa più o meno la stessa cosa.
Sì, ecco: lo scrittore è chi si sente e si atteggia a protagonista, potendo dire tutto quello che gli pare perché il suo verbo è un concentrato di ambrosia e di suggestioni paradisiache…: casella occupata, c’è già il politico di turno che si comporta alla stessa maniera.
Calma e gesso. Vediamo un po’…ci sono: lo scrittore può essere chi viaggia in una macchinona, sempre circondato da femmine sofisticate che si lasciano sedurre dall’arguzia dal suo essere personaggio…nooo, questo è il cantante impasticcato costruito dalla major discografica!
Va bene, accantoniamo per un attimo il problema dell’essere e concentriamoci sull’aspetto del fare.
Che sfaccimma, cioè, di azioni deve compiere lo scrittore per essere definito tale?
Sgomberiamo il campo da un immediato, pernicioso fraintendimento: per diventare scrittore, non necessariamente occorre scrivere bene. Sorpresi? Beh, basta guardare me (la modestia? La morte mia!).
Tutti dicono che le mie “cose” sono egregie, che la caratterizzazione dei personaggi “è la mia gardenia all’occhiello”; che,  ancora, “ho la cultura colta delle parole” (questa, a dire il vero, non è che l’abbia capita benissimo ma…è una cosa positiva, no?). Ciononostante, a parte qualche piccola soddisfazione editoriale, non c’è la faccio a raggiungere le vette del Parnaso (la vetrina della Feltrinelli, sul corso, a Roma); che poi, a dirla tutta, mi farei bastare anche un angolino della predetta vetrina, magari pure dietro, molto dietro, l’ultimo best seller di Fabio Volo.
Ma non divaghiamo.
Quindi, dicevamo, non è condicio sine qua non, per assurgere al rango di scrittore, lo scrivere bene. Che poi, questa affermazione, oltre che dal mio lampante esempio personale (aridaglie!), viene corroborata anche da quanto si legge su alcuni siti di case editrici: “non è fondamentale saper scrivere in maniera perfetta (i correttori di bozze, altrimenti, che esisterebbero a fare?, ndr) quanto, piuttosto, avere cose originali da raccontare
Ebbene, a questo proposito, mi è capitato di leggere storie in cui si pigliano i classici due piccioni con una fava: far lavorare i correttori di bozze grazie a congiuntivi “alla comevieneviene” e, contestualmente, imbastire trame così originali che nemmeno un marziano tradotto a Saturno potrebbe tessere.
Pure io, del resto, adottando la tecnica spiegata da Saverio al professor Bellavista (invogliare il fratello a farsi i “pertusi” sul braccio e a “sbattersi” per farsi prendere nel “Collegio per i drogati” in cui “ti trovano pure un posto”), ho cercato di scrivere male e di narrare cose che mente umana non ha mai avuto ardire di raccontare. Come per il fratello di Saverio (“prufesso’, nun c’ riesce, è troppo ‘nu buono guaglione“), però, anch’io ho miseramente fallito: mi ostino a chinare il capo ai diktat della grammatica e a scrivere pagine comunque rientranti nell’umana decenza.
Ma mettiamo, per assurdo, che uno davvero riuscisse a infischiarsene delle regole della grammatica e a narrare cose turche in un paese nordico. Problema risolto? Macché, ci sarebbe sempre l’ultimo ostacolo, il terribile drago a guardia del vello d’oro, a separarci dall’immedesimazione con lo scrittore: il famigerato “contributo acquisto copie", perché “l’editoria è in crisi” e quei soldi servono a “coprire, almeno parzialmente, le energie profuse nel lavoro di pubblicazione, promozione, etc., etc.”; e poi (continuando):”persino il genio di Proust  (!)ha iniziato autopubblicandosi”.
“Cosa buona e giusta – ti vien fatto di pensare – se anche Fantozzi, per avere il privilegio di continuare a lavorare (aggratis) per il megadirettoregalattico, gli versa l’intera pensione.”
A questo punto, solo et pensoso mi trovo, come mi capita frequentemente, a osservare la vetrina della libreria sotto casa. Stavolta però, soggiogato dal demone dello scrittore che continua, imperterrito, a celarsi ai miei occhi pur facendomi sentire la sua presenza, guardo quella festa di titoli con rinnovato spirito critico.
Accartoccio le palpebre, sintonizzo la mente.
Un’improvvisa illuminazione connette le mie sinapsi, anche quelle più periferiche.
Le ricette raffinate di miss Odette, Il miracolo della prestidigitazione, Il cuore con le ali appollaiato sul trespolo della mente….
Ecco chi è finalmente lo scrittore: la ragazza che tiene in mano un libercolo di un colore sommesso, che già pregusta la gioia di perdersi in quelle pagine ingrigite per la troppa lontananza dai clangori della vetrina ammiccante.
Ella, infatti, porterà quel romanzo a casa e, in groppa a qualche feconda suggestione letteraria, si nutrirà del distillato di quei caratteri di stampa, fino a renderne satolla l’anima. E sarà allora che, inoltratasi nelle lussureggianti praterie dell’immaginazione, avvertirà il bisogno insopprimibile di sedersi davanti al monitor di un pc. Inumidirà i propri polpastrelli con il calore della creazione, e inizierà a scrivere.
Ecco chi è, allora, lo scrittore. È un fervido sognatore che se ne frega del successo, delle strategie editoriali, dei soldi.
Lo scrittore è un dio di terza classe che si diverte a creare storie e a viverle come se anche quelle degli altri gli appartenessero.
È un ghiottone di anni che non si rassegna a consumare solo quelli che sono apparecchiati sulla sua tavola ma si diverte a spiluccare anche in quelli imbanditi sulle mense altrui.
Ordunque, sulla scorta di queste definizioni, posso tranquillamente affermare che anch’io lo sono. Anch’io sono, cioè,…un attimo che recupero lo sguardo gemebondo e trasognante…uno scrittore!

giovedì 27 novembre 2014

“1984”, di George Orwell

1984 
di George Orwell. L’ho riletto a distanza di 14 anni perché “gli scritti più vicini alla perfezione, hanno questa proprietà, che ordinariamente alla seconda lettura piacciono più che alla prima.” (G. Leopardi).

1984:1948=futuro (immaginato da Orwell):presente (della stesura del libro).

Siamo all’indomani della Seconda Guerra Mondiale.

Una coltre radioattiva di sangue e disperazione pervade i gangli vitali della società.

Gli eventi storico-politici (totalitarismo, Olocausto nucleare) alimentano di un’inquietudine sorda ogni pensiero appena al di là del contingente. E il positivo delle antiche, confortanti utopie di Bacone, Moro, Campanella, viene seppellito nella proiezione del suo negativo: uno Stato, l’Oceania, in cui campeggia l’inquietante cartello, affisso in ogni luogo reale e immaginario, con la faccia dai baffi neri che ammonisce, minaccioso per pochissimi, rassicurante per la stragrande maggioranza: il Grande Fratello vi guarda.

Un Partito che si prefigge e persegue, con angosciante metodicità, la falsificazione e l’annientamento della memoria storica, la corruzione del linguaggio attraverso la Neolingua.

"Era sottinteso come, una volta che la Neolingua fosse stata definitivamente adottata (…), un pensiero eretico (e cioè un pensiero in contrasto con i principi del Socing) sarebbe stato letteralmente impensabile, per quanto almeno il pensiero dipende dalle parole con cui è suscettibile di essere espresso."

E non è il guardare fisico del controllo, del “fiato sul collo” che può venire, ad esempio, da un pedinamento, a dare contezza dell’accerchiamento. Nossignore. Nel Socing di “1984″ vi è il monitoraggio del teleschermo capace di “leggere” ogni cosa e ogni espressione, persino una sfumatura di cedimento nell’osservanza dei dogmi del Grande Fratello. E quindi, l’Oceania è ed è sempre stata in guerra con l’Eurasia. Dopo un arco di tempo più o meno lungo, l’Oceania è ed è sempre stata in guerra con l’Estasia.

Del mutamento, del cambio nelle sorti della guerra, nessuno è messo in condizione di accorgersene. E questo perché, al Ministero della Verità presso cui lavora Winston (il protagonista del romanzo), ci si impegna febbrilmente, fin nel momento stesso in cui avviene il presunto cambiamento, a neutralizzarlo: si “vaporizzano” i libri che tramandano l’eresia di una guerra dell’Oceania con l’Eurasia, si riscrivono gli articoli veri ora divenuti irrimediabilmente falsi, si ritoccano le fotografie che non riproducono più la sempiterna verità.

Il cambiamento esiste nel momento in cui c’è un qualcosa, un documento che possa attestarlo. Quando però, nel Socing del “1984” ogni fonte viene distrutta, ogni mutamento anestetizzato con la rimozione del precedente che lo certifica, si è in un presente senza fine che non può essere smentito; manca, difatti, ogni traccia di passato. E quindi l’Oceania è ed è sempre stata in guerra con l’Estasia.

Qualora poi, come pure cerca di fare Winston, ci si ostina a conservare il ricordo flebile, dubbioso, di un’altra guerra, di un’altra Londra (“cercava di spremere dal cervello quelle memorie dell’infanzia che gli dicessero se Londra era sempre stata così”), ebbene, in questo stesso momento, interviene la Psicopolizia a ristabilire la Verità.

Inutilmente Winston cercare la salvezza in Julia, una donna capace di ribellarsi al “ventre freddo” delle donne di “1984” che si accoppiano solo per procreare.

Il loro amore, assurdo e rivoluzionario, sarà presto svelato e denunciato. E proprio quando si sentiranno pienamente parte della Fratellanza di Goldstein (il traditore “Nemico del Popolo” che viene fatto oggetto dei più turpi improperi nei catartici Due Minuti d’Odio) perché in possesso del Libro (!), Winston e Julia saranno catturati e condotti nel Ministero dell’Amore (ossimoro, quest’ultimo, in perfetta sintonia con i tre slogan del Partito: la guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza).

Qui Winston viene torturato, affamato, sottoposto a scariche elettriche proprio da O’Brien, l’uomo che egli pensava facesse parte della Fratellanza. E nel momento in cui il protagonista, pur nella sua discesa agli inferi, si rifiuta di ammettere che “2+2=5”, facendo appello a una presunta, incontrovertibile umanità che non può soccombere all’illogicità di quest’asserzione, O’Brien lo fa guardare allo specchio.

Winston si vede e si scopre disumano.

"Tu stai morendo, stai cadendo a pezzi. Che sei? Un sacco d’immondizie (…). La vedi quella cosa che ti sta guardando? Quella è l’ultimo uomo. Se tu sei un uomo, quella è l’umanità. (…)"

Eppure, dall’infima miseria della sua condizione attuale, nonostante abbia confessato tutto quello che gli hanno voluto far confessare, Winston ha conservato un atomo di ribellione: Julia non l’ha ancora tradita, non ha ancora smesso di considerarla una via d’uscita dalla fine.

O’Brien lo sa e capisce che “è venuto il momento di fare l’ultimo passo”.

La mostruosa stanza 101 si staglia, annichilente nel suo carico di simbolismo, alla vista di Winston.

Una paura ancestrale, capace – questa sì - di sprofondarlo nella perdizione, è a un centimetro da lui.

"<Fatelo a Julia! Fatelo a Julia! Non a me! Julia! Non me ne importa niente di quello che le fate. Laceratele la faccia, rodetela all’osso. Non a me. Julia! Non a me!>"

E così Winston, morto irrimediabilmente proprio nel momento in cui viene reinserito nel Socing di “1984”, “era riuscito vincitore su se medesimo.

Amava il Grande Fratello".