“È vietato severamente…”, ovvero la “manomissione” delle parole
Percorro a piedi l’umbratile distanza tra il parco stesso e l’ufficio postale di Mariconda.
L’ “è vietato severamente”, però, me lo porto fin al cospetto dell’addetto alla “consegna posta inesitata”.
Qui mi imbatto in un bisbiglio di protesta che diviene vera e propria ribellione non appena dall’esterno dell’ufficio viene veicolato all’interno.
<È inutile, – precisa l’impiegato – abbiamo l’ordine tassativo…è severamente vietato…>.
“ordine tassativo…severamente vietato”: eccomi finalmente chiara la superfetazione iniziale.
Non c’è niente di meglio che la lingua, organismo vivo e sensibile come non mai, a descrivere le abitudini di un popolo. Una nazione che ha bisogno di “rendere più forte” un lemma che di per sé dovrebbe essere già il non plus ultra, non è una nazione affidabile.
Il tristemente noto “achtung” tedesco, infatti, non viene nemmeno sfiorato dal dubbio che qualcosa possa rafforzarlo. In esso già è concentrato l’acme dell’imperio.
Tornando al nostro divieto iniziale, occorre precisare come sia inutile, nel momento in cui si dice o si scrive “è vietato”, aggiungere un avverbio (“severamente”, “assolutamente”, etc .). Il participio passato “vietato” dovrebbe essere così forte, così categorico, da non consentire alcun altro rafforzativo. “È vietato”. Punto. Stop. Non si può vietare poco o vietare assai.
Analogo discorso si può fare con il verbo “amare“. Se io amo, amo. Se il mio sentimento verso qualcuno o qualcosa è inferiore all’amore, io non utilizzo “amo poco”, bensì faccio ricorso a un verbo meno esaustivo e coinvolgente dell’amare come “piacere”, ad esempio.
Nel 2010, l’ottimo Gianrico Carofiglio, ha pubblicato il saggio “La manomissione delle parole“, edito da Rizzoli. Ebbene, in quest’opera, lo scrittore usa il termine manomissione sia come denuncia che come auspicio. Come denuncia, perché invita a non, per l’appunto, manomettere, travisare le parole, tradendo il loro significato originario e attribuendogli una gradazione più o meno forte di quella che ontologicamente hanno (“è severamente vietato”, ad esempio).
La manomissione come auspicio invece, è insita nell’etimologia di siffatto lemma che risale addirittura al diritto romano: “manomettere”, dal lat. manumittĕre, propr. “mandar libero (mittĕre) con la mano (mănu)”, per est. “rendere libero dalla schiavitù”. Ecco, l’auspicio dello scrittore a liberare le parole vuole essere anche una sorta di missione che ognuno di noi deve impegnarsi a portare a termine: scrivere, parlare, dando il giusto peso ai vocaboli utilizzati.
Possiamo iniziare già in occasione di queste feste facendo, ad esempio, gli “auguri” e non i troppo inflazionati “augurissimi”. Che poi, sia chiaro, se in questi giorni il destinatario dei nostri auguri vince il superenalotto, si fidanza con miss universo, scopre la fonte dell’eterna giovinezza, beh, in questo caso (ma solo in questo caso) potrebbe senza dubbio meritare gli “augurissimi”.
In conclusione, è vietato (e basta!) darsi per vinti, lasciando che il colore della nostra lingua venga sbiadito da un uso improprio.
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