martedì 16 ottobre 2018

L'ospitalità dannosa per Mimmo


Xenia”, questo è il nome scelto per l’operazione che ha visto finire agli arresti domiciliari il sindaco di Riace, Mimmo Lucano. “Xenia”, in greco antico, vuol dire ospitalità. E probabilmente un termine migliore, mutuato dal popolo per il quale più di tutti l’ospite era sacro, quello greco per l’appunto, non poteva trovarsi. E sì perché, se le accuse mosse a Lucano fossero corpi da poter mettere in controluce nell’accecante sole calabro, dietro al “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina  e al “fraudolento affidamento diretto del servizio di raccolta dei rifiuti”, rinveniremmo proprio questo: un’accusa all’efficace modello di ospitalità messo in piedi dal sindaco di Riace. Un “j’accuse”, a ben vedere, ancora più perentorio, vuoi per il clima di evidente intolleranza che si è venuta a creare nel Paese, vuoi perché il modello di Mimmo si è rivelato vincente.

Si badi bene, nessuno vuole entrare nel merito dell’inchiesta condotta dal procuratore di Locri, Luigi D’Alessio, un tempo alla procura di Salerno.

Come avvocato, però, non posso non convenire con quanto dichiarato proprio su “Le Cronache” di sabato 6 ottobre dall’ex presidente della Corte d’Appello di Salerno, ora alla presidenza della Fondazione “Menna”, Claudio Tringali.

Il problema riguarda, come sottolineato dall’illustre giurista, il profilo delle esigenze cautelari: davvero, nel caso del sindaco di Riace, ricorrono esigenze cautelari di tale gravità da giustificare l’adozione di uno dei più rigorosi provvedimenti come l’arresto?

Sinceramente, credo di no. A quanto mi è dato di capire, infatti, ci troviamo al cospetto di un’inchiesta fondata su documenti e intercettazioni, sulla c.d. prova documentale cioè, che difficilmente potrebbe essere “inquinata”; per quanto riguarda l’altra esigenza cautelare, quella del pericolo di fuga, sembrerebbe quantomeno paradossale che un sindaco che ha speso la vita ad accogliere chi fuggiva da scenari di guerra e disperazione, poi, proprio lui, all’improvviso tagli la corda davanti a un’inchiesta che si presume facilmente smontabile, com’è già successo con quella relativa alle O.N.G. portata avanti dal procuratore Zuccaro.

Infine, con riferimento al pericolo di reiterazione del reato, ancora una volta sono d’accordo con il dottor Tringali: se davvero il pm D’Alessio avesse ravvisato siffatto pericolo, ebbene, avrebbe potuto tranquillamente sospendere il sindaco di Riace dalle sue funzioni, senza alcun bisogno di ricorrere all’arresto.

Fin dal primo anno all’università, ho maturato l’idea che non esiste un diritto pienamente oggettivo. Troppo spesso, infatti, il diritto è frutto di scelte del momento, dell’ubi consistam della classe dirigente. Naturale conseguenza di questo corollario è, da un lato, che ciò che è legale, conforme al diritto in un dato periodo storico, potrebbe tranquillamente non esserlo più appena un lustro dopo; dall’altro, che quello che è legale per una parte della popolazione, fosse pure la maggioranza del Paese, non necessariamente è anche giusto.

Nelle “Memorie di Adriano” di Marguerite Yourcenar, a un certo punto, l’imperatore romano  esalta la lingua greca, dicendo che, a differenza anche del latino, il greco “ha già dietro di sé tesori di esperienza, quella dell’individuo e quella dello Stato (…). Tutto quel che ciascuno di noi può tentare per nuocere ai suoi simili o per giovar loro, almeno una volta, è già stato fatto da un greco.”

E proprio un greco, l’illustre Sofocle, nel 442 a.C., con riferimento al contrasto tra Antigone e Creonte, tra leggi divine e leggi umane, aveva teorizzato un diritto alla disobbedienza che si ispira a principi più alti del diritto positivo, soprattutto quando il diritto in questione è chiaramente dispotico.

Già, dispotico. Ovviamente, parliamo del diritto di Creonte, ci mancherebbe.

 

giovedì 27 settembre 2018

L'indifferenziato scostumato

Con la prontezza con cui il buongustaio assocerebbe il giovedì agli gnocchi, noi, ricicloni convinti, non avremmo alcuna esitazione a far seguire al lunedì l’indifferenziato della raccolta.

E sì perché noi, incuranti dell’accusa di fanatismo, troviamo normale separare la carta della busta da fattura dal suo occhiello di plastica; così come, con lo “stomaco” del tirocinante alla prima autopsia, non abbiamo remore ad affondare le dita nelle interiora delle alici confinate nell’organico per agguantare lo scontrino e gettarlo nel secchio dell’indifferenziato; alla stessa maniera, infine, del self control di cui diamo prova al cospetto del malefico tubo delle Pringles, certi che il coperchio e la base del tubo vanno nel contenitore di plastica, acciaio e alluminio mentre il cilindro, quello sì, è da gettare nel raccoglitore della carta.

Ebbene, noi sacri officianti della raccolta differenziata, prostrati al cospetto della sua magnificenza, non possiamo non notare una falla nel sistema, soprattutto con riguardo al conferimento dell’indifferenziato.

Vengo e mi spiego. La percentuale della raccolta differenziata a Salerno si aggira, stando agli ultimi dati di cui sono venuto in possesso, attorno al 61%. E qui la grancassa dell’amministrazione comunale, al ricordare questo lusinghiero risultato, suona a tutto spiano. Senza parlare della stampa compiacente che, un giorno sì e l’altro pure, incensa la virtuosa Hippocratica civitas in tema di monnezza.

Tutto bello, tutto degno di lode, se non fosse per una constatazione.

Piccola premessa a scanso di fraintendimenti: il ragionamento che sto per fare è di tipo meramente induttivo. Quindi, rispetto al “lo so. Ma non ne ho le prove” dell’inarrivabile Pasolini, io, nel mio piccolo, un indizio che faccia da architrave alla mia speculazione, ce l’ho. Ed è proprio questo relativo alla raccolta dell’indifferenziato del lunedì.

Cosa bisognerebbe far confluire nel sacchetto dell’indifferenziato? Semplice, tutti quei materiali che, per l’appunto, non possono essere differenziati.  Nello specifico, come recita il calendario di conferimento del Comune di Salerno, “posate di plastica, stracci, lampadine a incandescenza, carta carbone, cocci di ceramica, porcellana, terracotta, spazzolini, calze di nylon, lamette usa e getta.” Bene. Finita la lettura dell’elenco, una persona di media intelligenza capisce subito una cosa: il sacchetto dell’indifferenziato avrà una capienza ben misera rispetto, mettiamo, a quello dell’organico o all’altro contenente plastica, acciaio e alluminio.

Invece, proprio nella giornata di lunedì, troviamo dei sacchetti pantagruelici che sfidano la forza di gravità dei ganci alle ringhiere.

Ma vi è di più. Provate a farvi un giro, le sere del lunedì salernitano, davanti ai sacchetti dell’indifferenziato e guardateci dentro. Nossignore, non vi sto chiedendo di fare come De Crescenzo e sodali vari quando, ne “Il mistero di Bellavista”, rovistano nei sacchetti della spazzatura dei condomini. È sufficiente, allo scopo, buttare un occhio distratto a ciò che contengono ‘sti sacchetti. Ebbene, esperienza insegna che nella maggior parte dei casi, ci troverete proprio quegli stessi materiali (plastica, carta, etc.) per i quali è previsto un conferimento in giorni ad hoc (mercoledì per la plastica, giovedì per la carta, etc.).

Come si spiega il busillis? Semplice, con il fatto che molti salernitani sono convinti che l’indifferenziato abbracci anche tutti quei rifiuti, in gran parte riciclabili, che negli altri giorni della settimana, vuoi per dimenticanza, vuoi per comodità, non si è provveduto a raccogliere. Con l’ovvia conseguenza, quindi, che i sacchetti dell’indifferenziato sono fuorilegge sia per quanto riguarda la quantità dei rifiuti che contengono sia per ciò che attiene alla qualità. Insomma, il lunedì sera, si conferisce troppo e male.

Senza contare il fatto che la probabilità del tuo sacchetto fuorilegge di venire raccolto, spesso, dipende anche dall’operatore ecologico che copre la tua zona: se è scrupoloso, magari lascia lì il sacchetto improprio, sperando in un tuo futuro ravvedimento ecologico; se invece la fretta, la superficialità o a volte, purtroppo, la conoscenza diretta della famiglia incivile, gli impone di passare oltre, prende il sacchetto “sbagliato” e va via.

Per concludere, il mio timore è che la battaglia di civiltà della raccolta differenziata, sia sfuggita un po’ troppo di mano all’amministrazione comunale, attenta più al dato statistico che alla veridicità dello stesso. E quando penso al culto della percentuale a prescindere dalla sua corrispondenza al vero, non posso non riandare con la mente agli sparuti marinai borbonici che avevano avuto l’ordine di spostarsi ininterrottamente da poppa a prua e da prua a poppa (c.d.“fare ammuina”), solo per dare l’impressione di essere in tanti.

Sappiamo com’è andata a finire.

 

venerdì 14 settembre 2018

Il Nostro Prof Vincenzo Buonocore

Correva l’anno 1998. Superati gli esami più attinenti ai miei “studi classici ardenti” che alla professione di avvocato, mi accingevo a sostenere diritto privato.

Istituzioni di diritto privato!” -  mi avrebbe folgorato, per omnia saecula saeculorum, il Nostro.

Lungo i corridoi della facoltà di giurisprudenza, l’implume studente che ancora doveva passare sotto le forche caudine dell’esame di istituzioni di  diritto privato A/L, vivacchiava accartocciato nella paura ancestrale della collera del Nostro. Per chi, invece, avesse superato la tremenda prova, il futuro radioso di una vita professionale gli si schiudeva come bocciolo al primo raggio di sole.

“Diritto privato mezzo avvocato!” Ecco, per l’appunto: poiché dovevo pur legittimare la borsa di pelle regalatami dal nonno ancor prima dell’immatricolazione all’università, occorreva sostenerlo, ‘sto benedetto esame. E per farlo, era necessario seguire il corso, nonostante quello che si diceva del Nostro con il parlottare a mezza voce dei cospiratori. Cosa? Beh, tipo che dopo aver rivisto a distanza di dieci anni un suo studente, il Nostro gli avesse consigliato di farsi controllare quel neo sotto il lobo sinistro perché dieci anni prima aveva i contorni meno irregolari; che al terrorista infiltratosi tra i suoi corsisti con l’intento di far deflagrare l’intera università, bastò assistere a una sua lezione, per deporre sulla cattedra bomba ed estremismi vari e votarsi finalmente a una vita ascetica; e infine, che avendo il Nostro imposto il silenzio a un’aula insolitamente chiassosa, finanche le pagine del Trabucchi, col timore che qualcuno le leggesse e facesse così, suo malgrado, rumore, avessero intimato lo sfratto ai caratteri di stampa.

Primo giorno di corso nella leggendaria aula nr. 2.

Il Nostro entra alle nove in punto, facendo già intendere come la pensava in fatto di puntualità.

Il suo passo è malcerto. Si aggrappa alla cattedra. La tocca da un’estremità all’altra, quasi a prenderne le misure. Ricorda vagamente il comandante di una nave che, prima di salpare, ne percorre in solitudine il perimetro per saggiarne la forza e l’affidabilità.

Inizia il viaggio tra domande “pilastro”, che lo studente non può non sapere, e tra quelle “pilastrone”, alla cui mancata o errata risposta, non c’è appello che tenga: lo statino si autodistrugge per indegnità. Ma soprattutto, comincia il viaggio lungo sei mesi di una navigazione in mare aperto, perigliosa e affascinante insieme, sulla rotta di un eclettismo capace di far impallidire il buon Cicerone: si parte dal diritto per arrivare alla geografia astronomica, dopo una puntatina alla filosofia e alla letteratura (è il Nostro che mi parla per la prima volta di Andrea Camilleri e del suo Montalbano), per poi ritornare nuovamente nei lidi confortevoli del diritto.

In uno di questi voli pindarici, la domanda che impone di uscire allo scoperto: “Antipiretico…sì, ma chi conosce l’etimologia di questo termine?”

Pausa di quattro quarti.

Con l’incoscienza dei miei vent’anni, alzo il dito: “Dal greco, letteralmente contro il fuoco, quindi contro l’infiammazione.”

L’occhio del Nostro diventa rapace.

Dopo aver chiesto e ottenuto il mio cognome: “Cerchi di non cambiare troppo look e posto nell’aula per la durata del corso.” – si raccomanda: la sua portentosa memoria, infatti, dovrà avvalersi di un minimo di collaborazione da parte di ognuno di noi per consentirgli una valutazione quanto più giusta possibile.

Eccolo, in definitiva, il mio piccolo ricordo del Prof. Vincenzo Buonocore, al netto delle esagerazioni iniziali e di qualche forzatura di cui mi scuso in anticipo; di un uomo, cioè, con una cultura invidiabile e con un’umanità a tratti spigolosa, ma pur sempre profonda e vivida.

Caro Prof, dalla distanza siderale che intercorre tra le nostre dimensioni e da una diversa sensibilità politica, La prego di credermi: se anche fossi stato bocciato per aver toppato una delle Sue proverbiali domande pilastrone, ebbene, mai bocciatura sarebbe stata meglio incassata.

Grazie.

sabato 25 agosto 2018

A Capitignano, lo scrigno della Biblioteca “J. Frusciante”

In questo giorno appiccicoso di caucciù, di quelli a cui cerchi di scampare con il refrigerio della collina, sono venuto qui, a Capitignano.
È appena passato ferragosto. In attesa di riprendere il lavoro mai del tutto abbandonato, vago di ombra in ombra lungo la suggestiva piazza Giovanni Paolo II.
Mentre il retrogusto del caffè sorseggiato al bar “Nuovo Millennio” interroga l’amigdala sull’ultima volta in cui sono venuto a Capitignano, da un malchiuso portone, eccola la scritta tentatrice più delle settantadue vergini  del Corano: Biblioteca Comunale “Jack Frusciante.”
Mi affaccio sulla soglia. Al vedere tutti questi libri che se ne stanno impettiti, tronfi della loro indispensabilità, negli scaffali che tappezzano la sala, ho un attimo di esitazione.
Così, per evitare di sborsare le cinquanta lire al gelataio di Totò sceicco che poi si rivelerà un fottuto miraggio, mi do un generoso pizzicotto sul braccio.
Pericolo scampato: nonostante la controra e gli strascichi del chiuso per ferie, la biblioteca è proprio aperta e operativa.
Mi accoglie un sorriso incastonato in una faccia ispirata, di quelle che ha conosciuto il fuoco della passione.
Eccolo qui, il Sig. Giuseppe Melchiorre, gestore di questa biblioteca comunale “che vanta più di cinquemila titoli.”
“Badate bene, questi libri non sono stati sempre qui.” – ci tiene a precisare con cipiglio storico il Sig. Melchiorre – “Prima erano conservati in un sottoscala della sede comunale. Poi, negli anni 2014 e 2015, finalmente il trasferimento qui, in questa sala adiacente al circolo ricreativo.”
Grato alla lungimirante amministrazione comunale dell’epoca per aver salvato questo patrimonio dalla rodente critica dei topi, mi perdo a dare un’occhiata ai dorsi dei volumi ospitati nella biblioteca.
Narrativa, Letteratura Classica, Gialli, Thriller, Storia, Storia locale, Saggi…
“E questa biblioteca è in continua crescita.” – avverte con la stessa soddisfazione di quando, lui teatrante de I Senza Creanza, deve ragguagliare l’interlocutore sulle decine di personaggi messi in scena – “Oltre alle tante donazioni di libri dai privati, puntualmente il Comune di Capitignano, dietro mia segnalazione che cerca di intercettare i gusti dei lettori, provvede ad acquistare nuovi volumi.”
Sto per fargli la domanda dalle cento pistole, quella che se risposta in un certo modo, potrebbe sterilizzare del tutto questa promessa di riscatto per Capitignano e per i paesi vicini. Quando si parla di libri e cultura, infatti, il rischio di una vetrina messa lì solo per lavare la coscienza di qualche amministratore locale, è sempre dietro l’angolo.
Il perspicace Giuseppe interpreta correttamente il su e giù timoroso del mio pomo d’adamo.
“Dalle otto alle venti in cui è aperta questa biblioteca,” – mi guarda con l’occhio rassicurante – “le persone vengono. Certo,” – una leggera patina subito scacciata via gli vela lo sguardo – “non quante ce ne sarebbe bisogno per far andar meglio questo mondo impazzito, ma i lettori qui, alla biblioteca “Jack Frusciante”, non mancano mai. E poi la soddisfazione più grande, è che il maggior numero dei fruitori di questa biblioteca, è rappresentato dai ragazzi dai quindici ai venti anni.”
L’incontro è finito. Dopo essermi attardato a dare un’ultima occhiata alla sala: “Aspettate un momento, avvocato ” – rimpingua così il mio ritardo che m’imporrebbe già di tornare a Salerno, Giuseppe.
Dopo un minuto, eccolo riapparire come un folletto partorito dalle pagine di un libro.
Con la stessa sacralità con cui, nella notte dei tempi, il magio Melchiorre offriva il pomo contenente  l’oro per il Bambin Gesù, il nostro Melchiorre mi porge un libro, questa volta quello che lui sta leggendo.
“Non si può fare il gestore di una biblioteca senza amare i libri. La passione, innanzitutto la passione, avvocato.”

lunedì 6 agosto 2018

"I Pitard" di G. Simenon


Prendete un vecchio lupo di mare, il capitano Emile Lannec. Mettetelo nella condizione, dopo tanti viaggi e traversate a servizio di altri, di avere finalmente una nave sua.
Certo, ci sarebbe il particolare che la firma di garanzia per la restante somma necessaria all'acquisto, sia proprio quella della vecchia suocera, la signora Pitard, ma...l'essenziale è avercelo, un legno proprio, che ti possa far solcare i mari, non vi pare?
E allora via, barra a dritta, e il Tonnerre de Dieu...come? Ebbene sì, la nave si chiama proprio così, come la bestemmia preferita (Tonnerre de Dieu, per l'appunto) del capitano.
Se vi meravigliate del suo ardire è perchè non conoscete la burbera spontaneità di Emile Lannec.
Ma non meniamo il can per l'aia.
Mathilde Pitard, sua moglie, viene ben presto a scompaginare l'equilibrio sulla Tonnerre de Dieu. Non riesce ad accettare i modi spartani, le abitudini "alla buona" che governano fin dal romanzesco quindici uomini sulla cassa del morto, yo-ho-ho, e una bottiglia di rum per conforto, la vita di ciurma.
Ma si sa, lei è una Pitard. Nonostante tutto, lei resta una Pitard. E sì perchè c'è proprio un modo di essere nel mondo, di mettere insieme ore e giorni, che è tipico della schiatta Pitard: la forma, l'etichetta, l'interesse.
Eppure Emile Lannec è felice come un bambino per la sua nuova nave. E continua a esserlo anche in seguito al ritrovamento di un biglietto: Non è il caso di fare il furbo. Uno che sa quello che si dice, t'annuncia che il "Tonnerre de Dieu" non arriverà a buon porto. Questa persona ha l'onore di salutarti insieme con la signora Mathilde.
"Un burlone!" - commenta, noncurante dell'avvertimento, Emilie Lannec.
Sta si fatto che dopo quel messaggio anonimo, le cose, a bordo, iniziano a peggiorare.
Oltre all'insolita, iniziale decisione della moglie di restare sul Tonnerre de Dieu (ma Lannec confida nelle asperità della vita marinaresca per farle cambiare ben presto idea), Mathilde impone che il pranzo venga servito dapprima a lei e a suo marito, e poi a tutto l'equipaggio, rompendo quella tradizione cameratesca che vuole che il capitano pranzi con tutto l'equipaggio.
"Ma si sa," - osserva, ancora una volta rassegnato, Lannec - "Mathilde è una Pitard!"
Quando però, in seguito a una sfuriata, la moglie confessa a Lannec che non ha sposato Marcel il violinista solo perchè la madre si è opposta, e che, ciononostante, ha tradito il marito proprio con Marcel, Emile Lannec non è disposto più a fare spallucce.
Uno schiaffo del capitano confina la moglie, orgogliosa e altezzosa come solo una Pitard sa esserlo, all'interno della cabina.
I giorni passano e finalmente eccolo, l'approdo ad Amburgo in grado, secondo Lannec, di far finalmente scendere dal Tonnerre de Dieu la moglie ("che vada pure a congiungersi con quel violinista da strapazzo!") e di classificare indiscutibilmente quel biglietto come uno scherzo di pessimo gusto: ormai, infatti, la nave è "giunta a buon porto."
Sceso dall'imbarcazione, Emile Lannec accetta la proposta di prendere a bordo del Tonnerre de Dieu un ingente carico di materiale ferroviario da trasportare fino in Islanda in tempi brevissimi.
Non potrebbe anche questo essere un pretesto per non pensare più a quella maledetta Pitard?
In procinto di intraprendere questa disperata avventura, scopre che la moglie è ancora sulla nave.
Perchè?
Mentre raccoglie la segnalazione della Françoise che è in balia di una tempesta di mare e di pioggia, quando è ormai convinto, proprio al vedere la faccia dei marinai che vengono falcidiati dalle onde, che non raggiungerà più in tempo Reykjavík, capisce ogni cosa.
Tutt'intorno è un inferno di lamiere, di uomini inghiottiti con l'illusione di una gomena che si perde nel fondo degli abissi, di bottiglie di Calvados scolate solo per ubriacare la consapevolezza di trovarsi ai titoli di coda.
Alla fine di tutto, quando la morte ha messo in cascina una buona scorta di poveri diavoli, nessuno avrebbe mai potuto immaginare che il rozzo Lannec si fosse, adesso sì, innamorato perdutamente di sua moglie.
Nonostante fosse una Pitard.

giovedì 15 marzo 2018

"Numero Zero", di Umberto Eco


È una redazione raccogliticcia, un rassemblement di nuove e vecchie disillusioni, quella messa in piedi dal dottor Simei. Missione? Confezionare dodici "numeri zero", uno per ogni mese dell'anno, disposti a dire la verità su tutto. 
Piccolo particolare: il giornale verrà stampato in pochissime copie, quante ne basteranno al commendatore Vimercate, editore di "Domani", per dotarsi di una probabile arma di ricatto.
Secondo il suo convincimento, infatti, sarà sufficiente dimostrare di essere in grado di mettere in difficoltà qualche pezzo grosso, per entrare nel salotto buono della finanza, delle banche e dei grandi giornali.
Ovviamente, l'esperimento riuscirà solo se nessuno, a parte il Commendatore, Simei e Colonna, saprà che il giornale non vedrà mai la luce. Tutti, compresi i collaboratori, dovranno pensare che "le rotative scalpitano."
È un giornale, in soldoni, ricavato dalle notizie pubblicate su altri quotidiani e prontamente dimenticate (tutto si dimentica e sempre più in fretta). 
Il linguaggio dovrà essere quelle dell'uomo qualunque, che parla, per esempio, di "occhio del ciclone" per indicare il centro tumultuoso degli eventi, ignorando che è proprio lì, nell'occhio del ciclone, che c'è l'unico punto di calma perfetta.
E via dunque agli oroscopi, alle notizie che sembrano voler comunicare qualcosa ma che, in realtà, fomentano sospetti e retropensieri.
Colonna, la persona scelta da Simei per dirigere "Domani", è un perdente "compulsivo", abbandonato, a cinquant'anni suonati, sulla via della solitudine dopo pochi anni di matrimonio, che non si è mai laureato perchè sapeva il tedesco.
Potrebbe scrivere un libro, ma il suo continuo rimando a situazione letterarie glielo impedisce.
Un cielo nitido e terso? Nella mente di Colonna scatta subito, fino a non lasciar posto ad altra circonlocuzione, il cielo "da Canaletto." Addio, quindi, originalità, e buonanotte velleità da scrittore!
Poi c'è Maia (rimando al "velo di Maya" di Schopenhauer?), trentenne che è in disaccordo con il mondo perchè nessuno, almeno fino all'incontro con Colonna, riesce ad accordarsi con i tempi illuminanti delle sue intuizioni e dei suoi pensieri.
Tra gli altri personaggi di "Numero Zero", non si può non parlare di Braggadocio la cui mente ha come unico filo conduttore il complotto paranoico. Riesce a concatenare tra loro eventi apparentemente lontani e discordanti ricostruendo, così, una fantasiosa(?) storia di cinquant'anni d'Italia. Il fulcro della narrazione è il sosia di Mussolini (quello esposto in Piazzale Loreto) mentre il vero duce se n'è rimasto tranquillo e beato in Argentina fino al giorno della sua morte: il giorno stesso del fallito colpo di Stato di Junio Valerio Borgese. E poi Gladio, la P2 con il venerabile Gelli, l'assassinio di Papa Luciani, la Cia, le Brigate Rosse infiltrate, e via di questo passo.
Macchina del fango? E come mai un giornalista è stato ucciso? E perchè la trasmissione della BBC sembra dare ai fatti un'aurea di veridicità?
Qual è la verità, quale la menzogna?
Colonna, ormai fattosi persuaso del pericolo di morte imminente, vorrebbe scappare via lontano, in un posto dove anche il Male sia riconoscibile come tale e non nascosto tra le pieghe del perbenismo.
"E perchè andar via, allora?" - gli chiede sarcastica Maia (ed eccolo il velo del filosofo che, ormai squarciato, mostra la nuda verità!): l'Italia sta proprio diventando come il paese di sogno in cui Colonna vorrebbe esiliarsi, la nazione in cui non c'è più memoria. Ergo, - è l'amara conclusione di Maia - è inutile andarsene via.
Sarà, ma io non sento più la voce del personaggio del libro che dice queste cose. Quest'ultima frase, la parte finale del romanzo per chi avrà la bontà di leggerlo, è pronunziata con quello scoramento burbero, proprio del piemontese pronto a risalire in montagna per resistere alla barbarie, del Maestro.
Ancora una volta, Prof, c'ha visto giusto.