Visualizzazione post con etichetta Racconto. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Racconto. Mostra tutti i post

giovedì 2 luglio 2020

La pianta sulla sabbia


Ogni anno, il mio primo mare è frutto di un contatto; del corpo con l’acqua, sicuramente, ma ancor prima e più attentamente, dei piedi con la sabbia. Tutte le volte, infatti, che mi tolgo le ciabatte e poggio la pianta dei piedi sulla battigia, è come se riannodassi le fila della scorsa estate con quella che mi accingo a vivere.

È un sintonizzarsi con le nervature profonde  di un elemento misto, metà terragno metà acquatico, che mi riconcilia con le mie quarantadue stagioni precedenti. E sì, ci sono proprio tutte: da quella dimenticata eppur presente in qualche piega di memoria dei piedini conficcati nella sabbia con l’ostinazione di chi non vuole abbandonarsi all’ignoto, a quella ansiogena e comunque allettante dell’adolescente in attesa degli orali che gli confezioneranno la maschera da portare a zonzo nella società; passando, irrimediabilmente, per la stagione di qualche mancanza che mi accompagnerà per tutta la vita, fino ad arrivare a quella in cui l’io si espande a ricomprendere un’alterità di cui non potrò più fare a meno.

Stamattina, il mio piede sulla battigia del primo mare, mi riconnette con le speranze, le nostalgie e quel senso di spaesamento che hanno connaturato i miei anni. Quando, dopo un minuto speso a giustificare con le scuse più bislacche il mio rimanermene piantato lì, sulla linea di confine tra la sabbia e il mare, mi decido finalmente a consegnarmi alle onde, i piedi hanno già rotto il ghiaccio con quell’elemento ogni anno diverso, eppure sostanzialmente identico a quello dell’anno precedente e all’altro ancora prima, fino all’origine del mondo.

Il mare, il cui respiro millenario un piede allenato può già avvertire dalla sabbia che lo introduce, ci aspetta sornione anche quest’estate: conosce le asperità del  nostro corpo, e ancor più gli aneliti e gli abissi delle nostre anime. Niente paura: non esiste una pianta così sensibile da avvertirli né una sabbia a tal punto ciarliera da spiattellarli in giro.

 

giovedì 25 giugno 2020

La bambola che si taglia la pancia


A Pastena, all’inizio del muro che mena dritto al porticciolo, c’è un’opera d’arte. Il soggetto raffigurato è una bambina. Se ne sta seduta, con i capelli lunghi e lo sguardo serioso, mentre con la mano sinistra impugna le forbici. Con la mano destra, invece, agguanta un rigurgito di ciccia che viene prontamente catturato dalle due lame.
Sì, la sensazione è proprio quella della bambina che sta per tagliarsi quel sovrappiù di pancia.
L’autore di quest’opera di street art è il corrosivo inSerra. È inutile che cerchiate di appioppare un volto all’artista. In pratica, nessuno sa chi sia. Per lui, parlano le opere, diffuse soprattutto nel salernitano.
L’ultima a far discutere, è stato il Gesù crocifisso a un hastag: manco a dirlo, immediatamente censurata.
La prima volta che ho posato lo sguardo sulla bambina del porticciolo, sono rimasto spiazzato: possibile che una mocciosetta possa già rifiutare il suo corpo? E restavo a guardarla mentre, conoscendo lo stile provocatorio e di denuncia di inSerra, riflettevo sulla nostra società in grado fin dall’infanzia di inculcare modelli.
E sì perché quelle forbici aperte sulla pancia della bambina interrogano spietatamente ognuno di noi. Ci mettono di fronte all’impresa titanica, vissuta giorno per giorno, di discostarci quanto meno possibile da tutto ciò che è regolare. La diversità, anche quando si concreta in un arricchimento, fa paura, diventa un fardello da immolare sull’altare della nostra serenità.
Si sta bene quando si è in sintonia con l’esteriorità del mondo, allorché si rientra nei parametri di ciò che è consueto.
Il “monstrum” latino era sia la diversità che incute repellenza (Polifemo) sia la differenza che cova il prodigioso (la pianta nata dal cadavere di Polidoro le cui foglioline, strappate da Enea, gocciolavano sangue).
In italiano, quando si parla di “mostro”, si allude quasi esclusivamente a qualcuno, a qualcosa a tal punto diverso dall’ordinario, da risultare inaccettabile per i nostri canoni. Proprio come, a ben vedere, il grasso di cui si vuole disfare la bambina di inSerra.
Del miracoloso, non c’è rimasto praticamente niente.
Il diverso, in soldoni, presuppone un volo troppo ardito per le nostre comode ali di cera.

giovedì 18 giugno 2020

L'act del Jobs, del Family e il Dantedì


Purtroppo conosco poco l’inglese. A scuola infatti, sia perché appartengo alla generazione de “il francese è la lingua della cultura”, sia perché “vuoi mettere l’eleganza del francese?”, ho studiato la lingua “sbagliata”.

Premesso ciò, pur non nascondendo una certa avversione per la fonetica anglosassone così sgraziata e per l’ortografia spesso troppo distante dalla pronuncia, apprezzo chi conosce l’inglese.

Ecco, per l’appunto: la conoscenza!

In Italia, la maggior parte di chi si professa conoscitore dell’inglese, è padrone solo di una trentina di termini e perifrasi “mercantilistici”. E poiché, in fondo, questi nostri connazionali sono consapevoli della loro scarsa preparazione, approfittano di ogni occasione per utilizzare la striminzita batteria di anglicismi.

D'altronde, vuoi mettere la finezza del termine inglese al posto dello stinto e provinciale lemma italiano?

Ci sono, però, due considerazioni da fare al proposito: in primo luogo, troppe persone che utilizzano gli anglicismi lo fanno perché confidano che quel po’ d’inglese imparato alla come viene viene, possa trasformarli d’incanto in persone colte; la seconda considerazione, è che lo stesso abborracciato linguista di cui sopra utilizzi l’inglese anche quando potrebbe attingere al corrispondente italiano quasi sempre più appropriato e più di spessore.

In questo secondo caso, la conseguenza è il depauperamento del nostro immenso e ineguagliabile patrimonio linguistico con lemmi e costrutti sintattici che nulla aggiungono (anzi!) alla cultura del paese là dove 'l sì suona.

Il dramma è che la classe politica che dovrebbe difendere con i denti una delle poche “italianità” in grado di renderci davvero fieri nel mondo (la lingua italiana, per l’appunto), è la prima che la svilisce, prendendo a prestito termini d’Oltremanica di cui non c’è per nulla bisogno.

Perché jobs act, family act, infatti, quando si potrebbe parlare di “piano” rispettivamente per il lavoro e per la famiglia?

Senza contare il fatto che, anche tecnicamente, l’act non ha alcuna cittadinanza giuridica nel nostro ordinamento.

Perché, dunque, jobs act e family act? Perché ‘sti “italiani brava gente” appartengono alla percentuale degli “Azzeccainglesismi”?

Probabile.

Perché non conoscono l’italiano?

Molto probabile.

Certamente perché troppi di loro sono la rappresentazione, fedele fino all'identificazione, del popolo che rappresentano.

Si avvicina il sabato. Buon fine settimana, allora, e non buon week-end, soprattutto a pochi mesi dal “Dantedì” (25 marzo 2021- giornata nazionale dedicata a Dante Alighieri per i 700 anni dalla morte).

 

 

 


giovedì 11 giugno 2020

Certi fatti e il silenzio di Eduardo


Chiunque ha studiato un po’ di musica, sa che il silenzio, le pause sono l’essenza stessa della musica. Senza le pause, ci sarebbe un continuo sonoro che non genererebbe alcun motivo o melodia.

Eppure siamo portati a identificare il silenzio con la rinuncia, la sottomissione, il chinare la testa. Chi non denuncia un misfatto è vittima e, in molti casi, complice.

Il silenzio è inazione, soccombenza, omertà.

Ci sono, però, dei silenzi diversi.

Minneapolis, USA. Tutti abbiamo negli occhi l’immagine del poliziotto che per nove minuti, mano nella tasca e sguardo del buon padre di famiglia, sta uccidendo un nero.

Da circa tre mesi ci bardiamo con mascherine e guanti per proteggere il nostro respiro dal virus e poi, nella civilissima America, lasciamo impunemente che un poliziotto faccia morire di asfissia un afroamericano.

Fortunatamente c’è stata la diffusione social del video dell’omicidio.

E allora via alle sacrosante proteste in tante nazioni del mondo al grido di “I can’t breathe” (non respiro) e “black lives matter“ (le vite dei neri contano).

Sia chiaro, occorre ribellarsi, e farlo con veemenza, al sopruso. Senza il “no” gridato da chi non ci sta, a volte seguito anche da un’azione ferma e decisa, i diritti non si sarebbero conquistati, le battaglie civili non si sarebbero nemmeno combattute.

Eppure, in alcuni casi, come nella vicenda di George Floyd o di Giulio Regeni, c’è spazio, dopo la denuncia e la lotta, anche per il silenzio. Che non significa rassegnazione, rinuncia o accettazione dello status quo.  Nossignore. È un silenzio che sottintende un’avversione così marcata, una delusione a tal punto cocente sulle sorti del mondo, da farci chiamare fuori. Ecco, è il silenzio che ribalta il motto terenziano dell’ Homo sum: humani nihil a me alienum puto (Sono un essere umano: niente di ciò che è umano ritengo estraneo a me). È, in definitiva, il silenzio di Eduardo ne “Le voci di dentro” che capisce finalmente perché zi’ Nicola ha rinunciato a comunicare con i suoi simili, se non sparando petardi che gli varranno il soprannome di “Sparavierzi”.

Sa essere troppo brutto, a volte, l’animo umano per correre il rischio di una comprensione.

 

giovedì 4 giugno 2020

Giovi, la strada per il parto


C’è una strada, a Giovi. Oddio, detta così la cosa, sembrerebbe che ce ne fosse solo una, di strada a Giovi.  E invece no.

Quello che voglio dire, è che c’è una strada in particolare, a Giovi: quella che si snoda tra l’unico ufficio postale di Piegolelle e l’ultima curva panoramica di Bottiglieri. Ebbene, questa strada è un unicum per tutta Salerno. È si asfaltata, ci mancherebbe, ma lo strato di asfalto presenta, in ordine sparso, fossi, balze, crateri, dislivelli, gobbe, pantani, grattugie bituminose. Il tutto, manco a dirlo, amalgamato dalle bestemmie più o meno peccaminose di chi si trova a percorrerla.

Eppure, da circa un mese, anche questa strada ha trovato la sua ragion d’essere. Dopo infatti che gli autisti, i ciclisti, i cinghialotti multistrato del footing hanno rotto, nell’ordine, semiassi, ruote e caviglie, a Marcovaldo il tabaccaio si è accesa la lampadina.

Come tutte le cose destinate a cambiare il mondo, l’idea è nata per caso

“Tu vuoi favorire le contrazioni di tua moglie, che così te la sgrava presto presto la nennella? Venite in macchina con me e, senza nemmeno il tempo di dire “Madonna mia, aiutami!”, la femmina tua sarà già in sala parto.”

Com’è come non è, davvero la signora Brigida, dopo aver percorso il tratto di strada tra Piegolelle e Bottiglieri a bordo dell’auto di Marcovaldo, tra un dosso e un fosso, è stata assalita dalle contrazioni. A tal punto che se il tabaccaio non fosse stato lesto di acceleratore, avrebbe visto la sua tappezzeria a coste blu naufragare nelle “acque rotte” della signora Brigida.

È bastato quest’evento a far spargere la voce. E adesso, quando la gravida all’ultimo stadio si danna col maschio per ‘ste benedette contrazioni che non ne vogliono sapere di venire”, si sente addosso lo sguardo sornione del “mo me la vedo io.”

E così, dopo aver percorso la strada incriminata, non c’è altra via che non sia quella dell’ospedale o della clinica.

In conclusione, se all’ormai rinomata “passeggiata della partoriente” aggiungiamo anche l’avida lobby dei meccanici (ogni settimana almeno un giovese, cascasse il mondo, bussa alla loro saracinesca per il semiasse andato alla malora), non ci saranno santi che tengano: la strada che da Giovi Piegolelle mena a Bottiglieri rimarrà sempre così, sgarrupata da far ribrezzo, per omnia saecula saeculorum.

Requiescat in pace.

 

 

giovedì 21 maggio 2020

Avvocati in naftalina


Basta armarsi di un po’ di pazienza e li troverai lì, ognuno all’insaputa dell’altro, ciascuno con orari e manie diversi da quelli dei colleghi, a costeggiare i perimetri degli uffici giudiziari.
Come il latitante che finirà sempre a rintanarsi in un buco di culo vicino al suo paese natio, così gli avvocati. Sì, magari li vedrai camminare a passo svelto, con la borsa similpelle dei fascicoli migliori, con l’abbronzatura di chi si è dimenato da una fumisteria del diritto all’altra. E pazienza se, da marzo e almeno fino a settembre, il passo svelto è e sarà quello di chi circumnaviga terre inesplorate solo per distanziarsi dal cliente dell’ “Avvoca’, ma quei soldi, ce la faccio a vederli prima di andare in pensione?”; poco male che la borsa similpelle, apparentemente abboffata come la zampogna natalizia sulla nota più grassa, è e sarà imbottita dai manualoni del ragionamento critico-numerico; peccato che l’abbronzatura color pervinca è e sarà la disperata mossa di giardinaggio, d’agricoltura o di semplice “stallo balconiano” data in pasto alla famelicità delle giornate floscie.
E sì perché, com’è ormai noto a tutti fuorché al cliente di cui sopra che si ostina a implorare diritto in un mondo storto, gli avvocati sono ibernati in un bozzolo d’irrilevanza: udienze rinviate alle calende greche o imbalsamate nella rete del vorrei ma non posso; adempimenti inadempienti per cancellieri alternati e snervati dalle telefonate e dalle mail inevase.
Insomma, l’avvocatura è stata messa sotto naftalina.
Già, proprio come le nostre nonne facevano con le lenzuola per difenderle dalle tarme, in attesa della stagione propizia per tirarle fuori dall’armadio.
Gli avvocati, infatti, sono stati acciuffati nelle aule dell’ “e però c’è prima la mediazione obbligatoria”, nelle cancellerie del “voi avvocati rovistate nei fascicoli, li perdete, e poi li volete da noi”, negli studi legali dell’ “ancora un’altra ora, tanto c’è tuo marito a casa”, e così come si trovavano, sono stati piegati, possibilmente a novanta gradi, e riposti nel cassetto della giustizia denegata. “In attesa della stagione propizia”, proprio come le lenzuola di poc’anzi. Con la differenza, non trascurabile, che le naftalina, per sua stessa natura, preserva i tessuti; agli avvocati, invece, fa l’effetto di rodere, fino a scarnificarlo, il fegato. Certo, poi ci sarebbero le aspettative frustrate, gli studi sviliti, i costi esorbitanti di una professione, quando va bene, ormai operaia. Senza contare che, all’orizzonte, non si staglia nessuna stagione, men che meno propizia.