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mercoledì 25 gennaio 2017

"Alessandro Magno Ieri e Oggi", di A. Cecchi Paone

Alessandro Magno, dopo tredici anni di regno che hanno sconvolto il mondo, si trova nella sua reggia di Babilonia.

L'uomo che, come racconta Plutarco, tiene la testa lievemente piegata a sinistra come se cercasse una prospettiva diversa per osservare le cose, muore ad appena trentatré anni.
Muore, così, l'uomo Alessandro che da piccolo riesce, lui solo, a capire cosa spaventa il per altri versi coraggiosissimo Bucefalo: la sua ombra.
Da questa comprensione, nasce un sodalizio con il suo cavallo che addirittura spingerà il sovrano macedone a dedicargli una città sulle rive dell'Idaspe, Bucefalia.
Resta invece in vita, a distanza di ventitré secoli, l'Alessandro fondatore di una città (Alessandria, per l'appunto) costruita su indicazione onirica di Omero davanti all'isoletta di Faro; la polis che, tra l'altro, ospita nella sua biblioteca tutto il sapere dell'epoca accumulato anche grazie all'obbligo per tutti gli stranieri di passaggio di lasciarvi copia di ogni scritto che portano con loro.
Vive l'Alessandro conquistatore che, partito dalla "barbara" Macedonia (così definita dai civilissimi ateniesi perché abitata da stranieri che balbettavano insicuri nell'idioma di Omero), si spinge fin dove nessuno ha osato mai andare, neanche il dio Dioniso nelle sue farneticanti peregrinazioni: il fiume Idaspe.
Eppure il leone di Pella sa che il mondo non finisce lì. Oltre il fiume, ne è certo, si estende la misteriosa India e dopo, chissà quale altra terra incognita. 
Alessandro il condottiero, però, che ha sempre combattuto in prima linea e non si è mai risparmiato nessuna sofferenza, guarda in faccia i suoi uomini segnati dagli anni e dalle sofferenze, e capisce ogni cosa: il mondo, per loro, finisce lì. Non l'avrebbero seguito oltre.
Mortificato, quindi, nella sua brama di oltrepassare ogni limite che, a ben vedere, lo rende ostaggio di un demone senza nome, acconsente a ricondurre il suo esercito in patria.
Resta in vita l'Alessandro cosmopolita che seguendo l'insegnamento di Aristotele avvia, anche in contrasto con parte dei suoi uomini che non vedono di buon occhio la fusione con i riti e costumi orientali, la globalizzazione c.d. virtuosa alimentata dall'insopprimibile amore per la conoscenza. Lo stesso amore che, se da un lato lo spingerà a dormire, ogni notte, con il capo appoggiato su una copia dell'Iliade e dell'Odissea gelosamente custodite anche sui campi di battaglia, dall'altro, lo invoglierà a ricondurre nel pantheon greco le divinità locali incontrate nelle innumerevoli città conquistate.
Sopravviverà, ancora, l'Alessandro mistico che ammirando qualsiasi indefesso viaggiatore, anche quelli che compiono il viaggio negli anfratti bui della propria anima, non tarderà a spostarsi quando Diogene di Sinope gli dirà che l'unica cosa che desidera da Alessandro Magno, è che se ne stia fuori dalla sua luce; così come sicuramente resta l'Alessandro indomito che, al cospetto della complessità del nodo di Gordio non esita, per preannunciare la prossima conquista dell'Asia, a tranciarlo con un colpo netto di spada, in barba alla sua proverbiale inestricabilità.
Infine sopravviveranno ancora altri cento Alessandro, tutti reali e immaginari, tutti umani e divini. E quando si tratterà di farsi proclamare figlio di Zeus, sarà lo stesso condottiero macedone a sfruttare un errore di pronuncia dell'oracolo che anziché appellarlo paidìon (figlio), lo chiamerà paidiòs (figlio di Zeus), per assurgere al rango che gli spetta, quello di dio.
In questo romanzo ben cesellato di Cecchi Paone, c'è tutto Alessandro, la sua storia, il mito, la grandezza delle sue azioni da cui trasuda un'umanità che ancora oggi affascina il mondo intero. E come in un gioco di specchi che si rimandano luce riflessa da ben ventitré secoli, il Nostro è visto anche dalla prospettiva di oggi, oltre che di ieri: la Storia e la Divinità del re macedone, quasi per soddisfare, entrambe diversamente esigenti, i due colori (chiaro e scuro) che avevano gli occhi dell'inarrivabile Alessandro Magno.

lunedì 16 gennaio 2017

"La casa dei sette cadaveri", di J. Farjeon

Metti un cancello, di quelli cesellati, che cigolano svogliati lasciando intravedere una casa indifesa.

Metti che questa casa sulla costa dell'Essex trasudi ricchezza da ogni mattoncino avvinghiato dall'edera.
Metti, ancora, l'assenza di qualsivoglia movimento intorno alla casa così come di tracce di fumo che escano dal comignolo. Se poi a tutti questi segni di abbandono aggiungi anche la mancanza di cani a difesa della proprietà e, soprattutto, una finestra senza imposte che sembra dirti "vienimi ad aprire", beh, allora lo possiamo ben capire, Ted Lyte. E sì perché quella casa deserta potrebbe significare qualcosa da mettere sotto i denti a digiuno da quasi una settimana oltreché, sia chiaro, una dozzina di posate d'argento da rivendere al miglior offerente.
Un salto sul davanzale della finestra, e Ted Lyte non ci pensa più. Ma ecco la tentazione di una porta chiusa a chiave e lo sciagurato ladruncolo che non riesce a resistervi. Gira la chiave lasciata nella toppa e apre, convinto di trovare un muro di tenebre a inghiottire le pareti di quella stanza.
Nulla di tutto questo: la sua vista viene sferzata da un'abbagliante luce elettrica.
Ted, vattene via, lasciati bruciare le pupille da quel bagliore artificiale e abbandona di corsa la casa.
Troppo tardi: la sua vista e la sua ragione vengono incatenati da sette cadaveri disseminati in quel sudario di morte.
Lo scenario che si squaderna davanti agli occhi del giornalista free lance Hazeldean e dell'ispettore Kendall, nel frattempo accorsi in casa, è di quelli che richiedono un acume investigativo sicuramente non comune. E si badi bene, non ci si riferisce ai malcapitati sette cadaveri, ché quello è un dato la cui gravità può essere, e infatti lo è stata fin da subito, tranquillamente rilevata anche dal povero Ted Lyte. Nossignore, il riferimento è al foglietto stropicciato su cui c'è scritto: "Con le scuse del Club dei Suicidi" e sul retro dello stesso, stavolta aggiunto a matita, "Particolari all'indirizzo 59.16S 4.6E An". Ma ancora, altro elemento che richiede approfondimenti, Hazeldean e Kendall trovano un foro di proiettile proprio al centro del cuore di una bambina, che poi si scoprirà essere Dora Fenner, ritratta nel quadro in fondo alla parete.
Infine, su una mensola anonima della casa, fa bella e inquietante mostra di sé una logora palla da cricket che porta impressi i segni di un accordo violato.
Rigurgito di quale passato è l'insolito oggetto e perché ci si è presi la briga di sfondare un vetro per farlo arrivare fin lì, quasi firma in calce a quelle sette morti?
La casa dei sette cadaveri di Farjeon è un congegno dagli ingranaggi ben incastonati nel corpus narrativo.
Lontano dagli eccessi e dagli stereotipi di troppa letteratura di genere, l'opera riesce a "tenere in tensione" il lettore per gran parte del libro, in un crescendo di (mai banali) colpi di scena.
L'escamotage del diario che incontriamo alla fine del romanzo, poi, sia pure certo non una novità nel filone mistery, ha il merito di riannodare le fila degli eventi che potrebbero sfuggire al lettore.
Non è un caso che, tra gli estimatori dello scrittore, ci fosse Dorothy L. Sayers, uno dei grandi nomi della letteratura gialla, che ne apprezzava le trame ingegnose e i personaggi "intriganti".

lunedì 9 gennaio 2017

"L'oro di Napoli", di Giuseppe Marotta

L'oro, per rilucere, richiede una certa distanza: solo così l'occhio umano potrà saziarsi dei mille bagliori che vi si irradiano.

Già, proprio come accade con l'albero di limoni di Montale: è solo nelle città rumorose e, quindi lontano dalla campagna, che dal malchiuso portone possono scoppiare le trombe d'oro della solarità.
Giuseppe Marotta, da Milano, da una città e da una condizione economica per molti versi opposte a quella di vicoli e stenti di Napoli, riesce a catturare e a capire l'oro di Napoli dell'immediato dopoguerra.
L'oro è il pane con sale e olio a cui si ricorre quando tutto è perduto: finito il denaro, finito il credito, finite le avemarie, infatti, resta soltanto la poesia del pane con sale e olio.
L'oro!
E come non trovarlo pure nelle pizze a giorno a otto che don Rosario Pugliese prepara gonfie di fondente ricotta e non prive di qualche truciolo di prosciutto in Vico Lungo Sant'Agostino? Si mangiano adesso e si pagano solo fra otto giorni, circostanza, questa, che incoraggia, stimola e potenzia il consumatore. E sì perché, a ben vedere, in otto giorni possono accadere tante cose, non ultima la morte, senza eredi, dello stesso pizzaiolo.
E oro è pure il brodo di polipo di don Gennarino Aprile in cui c'è solo un frammento di polipo che sarebbe opportuno sputare prima di andare a letto ma che, all'occorrenza, si può ricominciare a masticare anche l'indomani mattina e per sempre, in saecula saeculorum: insomma, chiosa un divertito Marotta, il frammento di polipo è il verace antenato del chewing-gum americano.
E come, poi, non rivestire d'oro il culto dei napoletani per gli spaghetti? E già, perché, chi entra in paradiso da una porta, non è nato a Napoli dal momento che, il napoletano, il suo ingresso trionfante nel palazzo dei palazzi lo fa solo scostando delicatamente una tendina di spaghetti. Ma...
Ma l'oro di Napoli è anche il guappo che era un criminale e non lo era. Più che mettersi fuori dalla legge egli le opponeva una sua legge; e lo sberleffo di don Pasquale Esposito? D'oro, anch'esso, si capisce, soprattutto nella sua distinzione tra pernacchio (forte o debole, lungo o corto, massiccio o sdutto, aquilino o camuso ma è sempre maschio, ma è costruttivo e solerte, ma insomma lavora) pernacchia che è molle e pigra, tumida, bianca, sdraiata; insomma, come un'odalisca sui tappeti: femmina.
Aurea, di poi, è la nonna dello scrittore che, se le avessero fatto l'autopsia, le avrebbero trovato una spina dorsale fatta di grani di rosario, sette poste e misteri, così come la gobba di don Ignazio Ziviello che si vanta di tenerci, lì dentro, un angelo custode chiuso a chiave.
Ma anche l'amore a Napoli, capace di generare un figlio dalla prima guagliona con cui ci si è fatto l'amore ben tredici anni addietro, è d'oro; così come lo è la verde e accigliata Porta Capuana, palpitante tra i vapori diffusi dalle immense teglie delle friggitorie. E i Quartieri che Dio creò per sentirvisi lodato e offeso il maggior numero di volte nel minore spazio possibile? Certo che son dorati, ci mancherebbe!
L'oro di Napoli, inoltre, non risparmia nemmeno le divinità: la mamma schiavona di Montevergine, dove gli squarcioni, tra una preghiera e un voto, fanno a gara a chi ostenta più lusso; San Giuseppe, che nel mese di giugno,  siede con gli scugnizzi sul marciapiede o sulla stanga di un carretto di cocomeri o su una ringhiera o su niente.
Nella Napoli d'oro di Marotta, raccontata senza stereotipi o stupido folklore, senza pietismo e senza retorica ma solo con sentita partecipazione, è d'oro la stessa Morte perché ogni uomo, a Napoli, dorme con sua moglie e con la morte; in nessun paese del mondo la morte è domestica e affabile come laggiù tra Vesuvio e mare.

martedì 27 dicembre 2016

La Grande Magia de "La Locandina" di Pagani

La grande Magia di Eduardo De Filippo, commedia in 3 atti, per la regia di Alfonso Tortora.

Sono già stato qui, al Teatro La Locandina di Pagani. La prima volta, ho assistito alla messa in scena di Tre pecore viziose di Eduardo Scarpetta.
In quella occasione, sono bastate poche battute recitate con maestria dai funambolici interpreti, per fare degli spettatori l'ideale cassa di risonanza degli equivoci, degli infingimenti rappresentati sul palcoscenico. E la distanza, già strutturalmente esigua tra palco e platea, si è azzerata nell'idem sentire attori-pubblico che è la sola, inconfutabile attestazione di successo.
Buona la prima.
Stasera, però, mi sono accomodato nella poltrona armato della penna già intinta nell'inchiostro della stroncatura; come se non bastasse, poi, ho deposto ai lati della poltrona la faretra di lance acuminate pronte a infilzare la tracotanza, la hybris, della Compagnia.
"Voglio proprio vederli, 'sti saltimbanchi de La Locandina, destreggiarsi lungo l'infido margine realtà-finzione proprio de La grande Magia!"
Una sfida, insomma, da far tremare le vene ai polsi allo stesso Eduardo che, forse consapevole della complessità del tema sviscerato anche nell'Enrico IV di Pirandello, ha rappresentato la commedia solo poche volte.
La recita della vicenda che avrebbe dovuto incubare la mia stroncatura, si dipana lungo il perimetro degli occhi spiritati del prestigiatore Otto Marvuglia (un caleidoscopico Carmine De Pascale) che, "appattatosi" con Mariano D'Albino (Alessandro De Pascale, dizione "da libro stampato"), fa scomparire, in un luciferino gioco di magia, l'amante di quest'ultimo, la signora Marta Di Spelta (una suggestiva Teresa Barbara Oliva), esasperata dalla gelosia parossistica di suo marito, Calogero di Spelta (Tonino De Vivo...profondo!). Nel suo numero, il mago è aiutato dalla sgangherata compagna di vita e di palcoscenico, l'eccessiva Zaira (una sopraffina Valeria De Pascale).
La sparizione, come d'accordo, avrebbe dovuto durare non più di un quarto d'ora. Ma che succede se poi i due amanti, all'inizio solo vogliosi di uno scampolo d'intimità, decidono di tagliare la corda per quattro lunghissimi anni?
La magia si concretizza nella scatola consegnata dall'illusionista al marito abbandonato con la raccomandazione di aprirla solo se e solo quando avrà la fede "certa" dell'onestà della moglie. Unicamente a queste condizioni, quindi, la signora Di Spelta, nel più incredibile giuoco di prestidigitazione in cui mago si sia mai cimentato, potrà finalmente riapparire.
Ma, nelle more (termine giuridico che ben è familiare a Renato Giordano, anche lui "capace"parte in commedia) di questo intricato canovaccio, nel faticoso dosaggio tra il freno della realtà e l'acceleratore dell'impressione che solo può convincere il marito tradito della veridicità dell'assurdosi arriva, poi, allo spiazzante epilogo.
Per dirla con Demostenenulla è più facile che illudersi, perché ciò che ogni uomo desidera, crede anche che sia vero.
La grande Magia, giocando abilmente tra la vista "relativa" e il fantasmagorico terzo occhio, consuma le ultime battute del III Atto.
Sul palcoscenico stanno furoreggiando le intemperanze verbali del cameriere Gennarino (Peppe Di Maio, la maschera plautina della Compagnia), il siciliano ottuso del brigadiere di P.S. (uno scenografico Peppe Tufano); e ancora, le rivendicazioni della cinica cognata di Di Spelta (la deliziosa Rosaria Argentino) accompagnate dalle lacrime quarantennali della di lei suocera Matilde ("vera" Monica Civale). Infine, per ultimi ma non ultimi, ecco i commenti pettegoli della Signora Locascio (una frizzante Rosalba Canfora), della Signora Zampa ("stilosa" Letizia Vicidomini) e il sorriso complice di Gervasio Penna (al secolo, un rassicurante Lello Tortora).
Alla fine della rappresentazione, dopo il sipario ultimo dei saluti, l'inchiostro della mia bic si redime in questo articolo di apprezzamento; la mia faretra, invece, quasi fosse protagonista di una de Le metamorfosi di Ovidio, si muta in una cornucopia di convinti applausi.
La grande Magia portata in scena dalla Compagnia La Locandina di Pagani è artigianato puro in un mondo, quello del teatro, dove troppo spesso è la standardizzazione a farla da padrona.
Chapeau, ragazzi!

domenica 18 dicembre 2016

Dante è meglio di Harry Potter, credete a me

Fidatevi, miei assidui venticinque lettori, Dante è meglio, ma molto meglio di Harry Potter.

Alla soglia dei quaranta, nel mezzo del cammin di mia vita (il giro di boa per Dante si fermava a trentacinque anni ma, si sa, la vita s'è allungata), m'è venuto lo sghiribizzo di rileggere l'Inferno.
Ebbene, dopo aver seguito il rumore del ruscello che ha condotto Dante e Virgilio fuori dalla selva oscura, nell'emisfero australeancora ammaliato dalla divin arte dell'Alighieri, non posso che riconoscere la supremazia di Dante sul maghetto Harry Potter.
Partiamo dalla constatazione che tutti i generi presenti nella saga della Rowling trovano piena cittadinanza anche nella Divina Commedia.
La magia? E come non rivelarla, ad esempio, nella selva dei suicidi? Qui, in un bosco orrido e strano, pieno di arbusti contorti e spinosi Dante, su invito di Virgilio, spezza una fraschetta.
Perchè mi schiante? Perchè mi scerpi? 
È il grido di dolore frammisto al sangue che fuoriesce da Pier della Vigna, insigne ministro di Federico II tramutato, al pari degli altri suicidi, in pianta di basso fusto.
L'avventura? E come può definirsi, se non anche avventuroso, il viaggio di Ulisse al di là di dov'Ercule segnò li sui riguardi acciò  che l'uom più oltre non si metta?
Il mitologico? Puah, a bizzeffe! Il gigante Anteo, alto sessanta braccia, invincibile perché la madre Terra gli dà nuove forze non appena tocca terra che, lusingato dalle parole di Virgilio, depone lui e Dante sul fondo ghiacciato del nono cerchio; e ancora il gran veglio che a Creta, dentro il monte Ida, sta ritto con le spalle volte all'oriente e il viso verso Roma. Ha la testa d'oro, il petto e le braccia d'argento, il ventre di rame, le gambe e il piede sinistro di ferro; quello destro sul quale si appoggia, invece, è di terracotta. Ebbene tutte le parti del Veglio di Creta, ad eccezion del capo, sono solcate da fessure: attraverso di esse gocciolano le lacrime che scendono nell'Inferno formando Acheronte, Stige, Flegetonte e Cocito, i quattro fiumi infernali.
Il pathos? C'è tutto, ex multis, nell'apparizione di Cavalcante De' Cavalcanti che, sorgendo dall'arca e vedendo Dante, gli chiede come mai, essendo egli qui per altezza d'ingegno, non sia accompagnato da suo figlio. Il sommo poeta, allora, risponde che l'assenza è probabilmente da imputare al fatto che Guido ebbe a disdegno la teologia.
Come? dicesti "elli ebbe"? non viv'elli ancora? non fiere li occhi suoi lo dolce lume?
L'attimo d'esitazione di Dante male interpretato da Cavalcante, fa sì che l'afflitto padre supin ricadde e più non parve fora.
L'amore? Scontato è il rimando, primo fra molti, all'abusato amor, ch'a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m'abbandona di Francesca da Rimini.
E lo humor ne l'Inferno di Dante? Certo che è presente. A questo proposito, si deve uscire dall'errore (molte volte alimentato da una cattiva vulgata proprio della scuola) di un Dante arcigno, a tal punto coerente e intransigente da non abbandonarsi mai, né in vita né nelle opere, al sorriso o all'ironia. Nulla di tutto questo. A chiusura del canto XXI, infatti, il ed elli avea del cul fatto trombetta di Barbariccia, sconcio quanto emblematico segnale sonoro agli altri compagni, certifica la presa in giro degli strampalati diavoli a danno proprio di Dante e Virgilio.
Per quanto riguarda la divinazione, il profetico-allegorico, poi? Valga, per tutti, il veltro evocato da Virgilio come unico "animale" in grado di far morir con doglia la lupa della cupidigia, la cui sua nazion sarà tra feltro e feltro
Orbene, il feltro è un panno modesto che può far pensare a umili origini del salvatore, ma anche alla provenienza da un ordine religioso. Il feltro, però, può rimandare pure al concetto di elezioni democratiche: di feltro, infatti, erano foderate le urne in cui si deponevano i voti per l'elezione dei magistrati. Qualcuno, infine, volle vedervi addirittura una designazione geografica: Feltro, starebbe per Feltre, località in cui il redentore sarebbe dovuto nascere.
La paura? E come non provarla al cospetto del gigantesco Lucifero conficcato nel ghiaccio della Giudecca da cui esce da mezzo il petto? Una sola, immensa testa dotata di tre facce di colore diverso, sotto ognuna delle quali sono allocate due smisurate ali di pipistrello: è dal movimento di queste che scaturisce il vento che ghiaccia Cocito.
Ma vi è di più. Dai sei occhi fuoriescono lacrime che si mescolano alla bava sanguinosa delle tre bocche in cui vengono maciullati in eterno tre peccatoriGiuda, che viene anche sgraffignato, dalla parte della testa; Bruto e Cassio, invece, inghiottiti dalle gambe.
In conclusione, tutti gli ingredienti dell'occhialuto Harry Potter sono presenti nell'Inferno del sommo poeta, con un'ovvia chiosa: il lettore che riuscirà a rimanere nella scia del e quindi uscimmo a riveder le stelle di Dante, verrà catapultato in un firmamento di cultura e sapienza che nessun Avada Kedavra potrà mai annientare o depotenziare.


martedì 22 novembre 2016

Il caffè, lo specchio, la barca: ah, che rebus!

La canzone Rebus (1979) di Paolo Conte dura poco più di due minuti.

Velocità silenziosa ed esaustiva.
Una pennellata d'autore che sopra un letto di pianoforte e riflessioni, insegue il senso della visione.
La sfida è di quelle che l'avvocato appassionato di enigmistica, tra uno sberleffo compiaciuto e un bemolle sornione, è certo di poter vincere: il rebus, uno dei tanti affrontati e risolti al riparo delle colline astigiane, grazie a una fulminea intuizione.
Sì, proprio un lampo giallo al parabrise.
Mentre rimugina tasti e pensieri, s'impegna ad accordare immagini con significati.
Cercando di te.
Il baffo che custodisce la voce filtrata attraverso sabbia e whisky, biascica il tema del rebus: cercando di lei, per l'appunto.
Un vecchio caffè. Con dentro uno specchio. Nello specchio, il mare. Dentro il mare, una piccola barca.
Gli indizi scenografici sono questi.
La sigaretta abbandonata in preda alla riflessione, s'involve in volute di connessioni.
Seconda quartina.
Un altro caffè. Con dentro uno specchio. Nello specchio, il mare. Dentro il mare, una piccola barca.
Le dita sul pianoforte interrogano con maestria ripetizioni, rimandi.
Una prima barca che porta ad un secondo caffè. Il suggerimento di un'altra traversata, con l'ennesima barca pronta per lui, sempre alla ricerca di lei.
Il sorriso della comprensione. Il tempo di un mugolio risolutore.
Il giro in cerca di lei, è turistico. L'amore agognato, il tema del rebus, è una mistificazione. E già perché, rivela il Maestro, chi affitta le barche è anche il padrone di tutti i caffè.
Conflitto d'interessi incompatibile con la liberalità dell'amore.
Compiaciuto per la soluzione del rebus, il pianoforte tuttavia approda, tra la rabbia e la disillusione della rivelazione, al porto mercantilistico del paga di qua, e paga di là, noleggia una barca e prendi un caffè.
Nell'ultima terzina, l'amara considerazione:
Ah, è meglio star qui a guardare
i pianeti nuotare davanti a me
nell'oscurità del rebus
Malgrado tutto, poco male! Ancora una volta, dall'alto dei suoi ottant'anni di poesia e musica, lo smaliziato Conte troverà conforto nella ricerca di un po' d'Africa in giardino, tra l'oleandro e il baobab. 
Alcuni luoghi sono un'enigma; altri, una spiegazione.

venerdì 21 ottobre 2016

"La giostra degli scambi", di Andrea Camilleri

Leggere il Montalbano di Camilleri, magari uno degli ultimi come in questo caso, ha il sapore del ritorno a casa.

E sì perché, dopo un più o meno lungo viaggio tra le pagine di altri libri, dopo essere stati catafottuti in anfratti claustrofobici o, di converso, in esangui pozze di impressioni e suggestioni altre, l'approdo (l'ennesimo) a Vigata, sullo scoglio chiatto proprio sotto il faro dove Montalbano si fa la passiata (un pedi leva e l'autro metti) appena soddisfatto il pititto lupigno con pasta al nivuro di siccia, triglie allo scoglio e frittura di calamaretti,  ha il fascino della strada che sa di bucato e ragù dopo un anno di Fifth Avenue.
Questo Montalbano di Camilleriassugliato dalle vicchicaglie del tempo, riesce ancora una volta, come nelle migliori pillicole 'mericane, a venire a capo di una storia dove tutto sembra trovarsi in un posto diverso, scangiato, rispetto a quello indovi le cose stesse si dovrebbero attrovari: la giostra degli scambi, per l'appunto.
Eppure, malgrado, nell'ordine, il tiatro di ben tre sequestri di persona messi in scena senza torcere un capello (almeno nei primi due) e senza rubare niente alle malcapitate di turno; nonostante la farfanteria della scenografia pure apparecchiata di una possibile rivalsa contro gli istituti di credito; a dispetto dell'aver individuato (troppo presto, per gli scafati lettori del Camilleri-Montalbano) il puparo dell'opira dei pupi, il commissario Montalbano si arritrova, alla fine della giostra, di pirsona pirsonalmenti come direbbe Catarella, di fronte all'eterno guazzabuglio dal quale prende le fattezze ogni assassino e, soprattutto, ogni movente delle storie di Camilleri: l'abisso, insondabile e imprescindibile, dell'animo umano. A ben vedere, topos, quest'ultimo, praticamente incontrato in ogni indagine di Montalbano ma che adesso, ancora di più (ed eccola, la metabolizzazione della vecchiezza), affascina e arricchisce in primisi il commissario, in secunnisi il lettore.
A Camilleri occorre il saltafossoil trucco per avere la confessione finale. E' indispensabile, però, scegliere il momento giusto, il fiat passato il quale non ci sarebbe soluzione alcuna perché, perso quello, movente e assassino scomparirebbero in un vidiri e svidiri.
<Ora!> disse a se stisso il commissario. <Ora che si sta rilassanno, ora che si senti fora periglio, ora che ha abbasciato le difise...>
In alcuni punti più farraginoso di altri libri di Camilleri incentrati sulla figura del commissario Montalbano, La giostra degli scambi è il romanzo del rovello interiore del protagonista (testimoniato anche da un utilizzo più diffuso del dialetto), alle prese con un'età che non gli consente più la notatina dalla spiaggia di Marinella alle setti di matina ma che, in fondo in fondo, lo appaga per la sempre maggiore 'spirienza circa l'animo delle persone e le cose del mondo.

sabato 15 ottobre 2016

Odiosi Viceré di De Roberto, eppure già mi mancate!

I Viceré? "Un'opera pesante, che non illumina l'intelletto come non fa mai battere il cuore."

La causa.
Federico De Roberto? La sua scomparsa, a poco più di sessantasei anni, passò per lungo tempo quasi inosservata nell'ambiente culturale nazionale.
E quest'ultimo, automatico come gli interessi della cartella esattoriale, è l'immancabile effetto.
Ora, mi domando e dico: come poteva essere diversamente se l'autore della stroncatura de I Viceré di De Roberto è addirittura quel Benedetto Croce per mezzo del quale, all'indomani dell'apparizione del suo saggio Perché non possiamo non dirci cristiani (1942), anche i mangiapreti più incalliti non riuscivano più a professarsi atei?
Ebbene, pienamente d'accordo con Sciascia che giudica I Viceré di De Roberto, "dopo i Promessi Sposi, il più grande romanzo che conti la letteratura italiana", debbo registrare una clamorosa, forse l'unica, cantonata del Croce, proprio a proposito del suo giudizio sul capolavoro di Federico De Roberto.
I Viceré, questa "manica di ladri" (Verga) blasonati, hanno catturato la mia attenzione a ritmo di cinquanta e più pagine a notte, facendomeli maledire a ogni piè sospinto e, nello stesso tempo, stanando in me una ridda di passioni che mi hanno tenuto attaccato a loro come l'ubriaco alla bottiglia.
Nelle tre generazioni della famiglia catanese degli Uzeda di Francalanza che l'opera di De Roberto fa scorrere sotto i nostri occhi, non esiste un personaggio principale; e, cosa ancora più spiazzante, non c'è un solo protagonista che abbia le stimmate della positività.
Nel romanzo di De Roberto il "se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi" de Il Gattopardo, trova la sua prima e più perniciosa, perché meglio e diffusamente radicata nelle maglie parentali, declinazione. D'altronde, la frase che riassume la filosofia di Consalvo, esponente dell'ultima generazione della stirpe avida, pazza e paranoica dei viceré, è che "la storia è una monotona ripetizione: gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli stessi." E anche quando proprio Consalvo, che pure è stato allattato con il latte rancido del più bieco ossequio alle vestigia reazionarie, per riuscire ad essere eletto deputato, abbraccia il credo democratico, lo fa sempre nella convinzione che il solo titolo di viceré, quasi per volontà divina, è sufficiente al trionfo anche negli ambienti che dovrebbero essere più refrattari alla sua seduzione.
Nella famiglia degli Uzeda di Francalanza non esiste la coerenza tra idee o la fedeltà alle persone. Ed è proprio per questo motivo che, da una parte, lo zio Blasco, monaco gaudente di San Nicola, dopo averne detto peste e corna di Garibaldi, Mazzini e del nuovo Stato "che chiude i conventi", poi non solo compra il Cavaliere, l'appezzamento di terra dove sorgeva il monastero, ma investe anche nei titoli dello stesso Stato fino a un minuto prima esecrato; così come, dall'altra parte, lo zio duca d'Oragua prima si serve di Benedetto Giulente, suo nipote acquisito, per scalare le vette del potere politico, poi preferisce dare il suo appoggio al nipote Consalvo.
Non vi è alcun dubbio, ancora una volta d'accordo con Leonardo Sciascia, che I Viceré "sia il prodotto di una delusione, se non addirittura di una disperazione storica" che ha nell'ironia il filo conduttore; in quell'ironia cioè, che non può che nascere dal confronto e dalla contraddizione tra gli ideali che sembravano dover ammantare l'Italia appena unificata, la loro effettuale attuazione e, ciò che è ancor più disperante, tra la loro ormai conclamata inattuabilità.
Al termine della lettura dell'opera di De Roberto, finisci con l'odiarne tutti i protagonisti; col condannarne le loro intemperanze, la loro debolezza, la loro ottusa aristocraticità. Eppure, un attimo prima di voltare l'ultima pagina, un momento prima di abbandonarti al sonno dell'ennesima giornata di lavoro, non puoi non pensare che i viceré ti mancheranno; e che ti mancheranno tremendamente proprio non appena ti sfiora il pensiero del mondo di fuori che ti aspetterà l'indomani e che, miracolo della grande letteraturaè rimasto pressoché lo stesso, sia pure con forme, e parliamo solo di esteriorità, diverse.
Un perito agrimensore compose un opuscolo intitolato: Consalvo Uzeda principe di Francalanza, brevi cenni biografici, e glielo presentò. Egli lo fece stampare a migliaia di copie e diffondere per tutto il collegio. Il ridicolo di quella pubblicazione, la goffaggine degli elogi di cui era piena non gli davano ombra, sicuro com'era che per un elettore che ne avrebbe riso, cento avrebbero creduto a tutto come ad articoli di fede.
Più attuale di così!

mercoledì 28 settembre 2016

Giovi, la poesia antidoto al "si c'o puort, c'o truov"

Giovi, una periferia che la città di Salerno non è mai riuscita a coinvolgere del tutto.

Una sola frazione divisa in una quindicina di "case" e quartieri, sgrammaticata come solo può esserlo una realtà troppo ricca per sottostare ai diktat della sintassi; ebbene, Giovi, il suo pegno alla diversità e alla specificità, l'ha pagato, e pure con gli interessi : alzi la mano il lettore che al sentir parlare di Giovi non abbia pensato, con il sorriso allusivo di chi la sa lunga, al motto che dall'origine dei tempi condanna la nostra terra: "Juov, si c'o puort, c'o truove" (Giovi, se ce lo porti, ce lo trovi).
È incredibile come una rima possa inchiodare per sempre una frazione al legno ingrato della grettezza più bieca!
Già, una rima. E proprio una rima di una delle oltre 240 poesie presentate alla II edizione del Premio Nazionale di Poesia "Spiga di grano", per una sorta di nemesi storica, viene a costituire l'antidoto più efficace contro l'ingiusto e immeritato epiteto affibbiato a Giovi.
Tutto è iniziato poco più di un anno fa. Come tutte le rivoluzioni, il grimaldello che ha scardinato il pregiudizio è stato un gesto semplice: l'intuizione di un giovane amante della poesia e poeta egli stesso, Angelo Palatucci, subito capita e supportata da una coraggiosa associazione culturale-sportiva, quella delle "Colline di Giovi" (allora presieduta dal dr. Massimiliano Natella e oggi, invece, dal sig. Gerardo Rocchino).
Dall'incontro tra l'idea illuminante e la voglia di crederci, nasce la prima edizione del Premio di Poesia "Spiga di Grano".
E così il "si c'o puort, c'o truov",  inizia a vacillare sotto i colpi della cultura, sola dispensatrice di una generosità capace di intaccare anche i più inveterati e stupidi luoghi comuni.
Il 24 settembre, c'è stata la II edizione del premio predetto.
L'Auditorium della Scuola Media di Giovi, allora, ancora una volta e ancora di più rispetto allo scorso anno, ha fatto da cassa di risonanza ai versi di quella "poesia-eco" prefigurata da Carl Sandburg, che "chiede all'ombra di ballare".
La serata del premio, per evitare che la nave, per quanto strutturalmente inaffondabile, potesse colare a picco a causa dell'impatto con gli iceberg  dei cuori refrattari al bello, è stata affidata alla conduzione dell'ottimo Enzo Landolfi.
Alla fine dell'evento, possiamo dire che anche grazie alla maestria e alla leggerezza "colta" del conduttore, la nave è giunta vittoriosamente in porto.
Sul palco, così, si sono alternati versi (in italiano e in vernacolo), intrecciate rime, sovrapposte età (dalla ragazzina di 11 anni alla nonna di quasi 90), azzerate distanze (sono giunti, alla segreteria del premio, componimenti da tutta Italia, da Cefalù a Milano). In altre parole, si è fatta cultura, mettendo in difficoltà, per la bellezza dei componimenti giunti in segreteria, anche la titolata giuria del premio presieduta dal prof. Andrea Natella.
Per inciso, nota di merito va riconosciuta alla lettrice di molte liriche in concorso nonché, come diremo tra poco, anche di alcuni passi dell'opera presentata nell'occasione del premio, la dott.ssa Sonia Postiglione, che ha dato profondità e ali ancora più robuste al volo delle liriche.
Prima dell'apertura ufficiale della II edizione del Premio Nazionale "Spiga di Grano", come accennavamo, si è svolta la toccante presentazione del libro "Tra sogno e realtà...Dottor Cresta di Gallo ed il suo mondo magico: la fantasia di due bimbi...si trasforma in...Magia...", Pubblisfera Edizioni.
Trattasi di un racconto lungo scritto a quattro mani da Angelo Palatucci ed Emmanuela Rovito in cui, attingendo a quella fantasia che solo può imbrattare le pareti asettiche di un ospedale con l'incantesimo della magia, addirittura il guanto di una sala operatoria può assumere le fattezze di una...cresta di gallo.
E inizia il Sogno capace di redimere le vite dei due piccoli protagonisti, convinti che anche la loro vita, nonostante la problematica partenza, debba fiorire in un tripudio di colori.
Scritto di getto, tra telefonate e chat fb (...), questo racconto è un piccolo Arcobaleno che gli autori, Angelo Palatucci e Emmanuela Rovito, vogliono disegnare nel cielo di coloro che...nella vita vivono o hanno vissuto troppi temporali!
Giunti quasi alla fine di questo pezzo, torniamo al punto di partenza, all'alfa di questo nostro articolo: Giovi, e il suo "si c'o puort, c'o truov". Ma per farlo, abbiamo ancora bisogno del racconto lungo di cui sopra.
Nella penultima pagina, subito dopo i ringraziamenti, i due autori scrivono, con una pudicizia che è propria delle grandi azioni, che "il ricavato (delle vendite, ndr) verrà devoluto alle pediatrie ospedaliere".
Nell'ultima pagine, invece, c'è l'elenco degli sponsor che hanno permesso la pubblicazione di quest'opera.
Attraverso il riflesso di un'ora tarda di fine settembre, mi si squaderna, davanti agli occhi assonnati, l'anima di Giovi. Do una sbirciatina. La vedo riflessa in quella ragazzina di 11 anni che c'invita a rispettare la natura, ma anche nella nonna novantenne che si è messa a scrivere poesie solo adesso, "perché prima era giusto dare la precedenza al vero poeta di casa mia, mio marito".
La scorgo, infine, nel poeta milanese che, dopo uno dei primi naufragi di profughi, ha sentito il bisogno di mettere su carta la tara della sua pietà verso questi disperati.
Stanotte, grazie anche alle iniziative culturali come quelle messe in piedi da Angelo Palatucci, dall'Associazione Culturale-Sportiva "Colline di Giovi" e da tutti gli altri, persone fisiche e enti vari che ci hanno creduto, la mia Giovi non mi chiede niente né, tanto meno, chiede qualcosa agli altri.  Offre soltanto, come solo può farlo un cuore innamorato di poesia.

sabato 3 settembre 2016

"Il Mastino dei Baskerville", Sir Arthur Conan Doyle

Si narra che Sir Arthur Conan Doyle, papà letterario del celeberrimo Sherlock Holmes, a un certo punto abbia voluto disfarsi della sua creatura.

E questo perché lo scrittore, sempre secondo la vulgata giunta fino a noi, si aspettava la consacrazione del suo talento soprattutto grazie ai romanzi storici, e non certo per il tramite delle opere imperniati sulla figura dell'infallibile investigatore.
Anche sulla scorta di questo rumor dell'epoca, quindi, è probabile che il buon sir Arthur si decise, una volta per tutte, a far precipitare Sherlock Holmes e la sua leggenda dalla cascata del Reichembach, provando gusto a lasciarlo lì, almeno fino a quando le proteste unanimi dei lettori e degli amici non ebbero la meglio, costringendolo a riesumarne il corpo e le gesta letterarie. E sì perché, come dicevamo, sir Arthur Conan Doyle avrebbe voluto de-mitizzare il personaggio che, ormai fu chiaro fin dalla sua prima apparizione nel romanzo Uno studio in rosso (1887), gli sarebbe sicuramente sopravvissuto.
A ben vedere, proprio alla stessa maniera di come, nell'ultima parte della sua vita, il brillante dottor Arthur Conan Doyle avrebbe voluto de-strutturarsi, pronto ad offrire i suoi elementi vitali alla creazione dell'opposto da sé, a quel sir Arthur cioè che, ormai, aveva deciso di sciacquare i panni della medicina nell'acido corrosivo dello spiritualismo.
Ancora una volta, quindi, l'eterno contrasto tra dionisiaco e apollineo, con un significativo, senile passaggio, per quanto riguarda il Nostro, dall'uno all'altro.
Sulla falsariga di questa stuzzicante prospettiva, mi piace pensare che lo scrittore abbia voluto, proprio nell'opera Il mastino dei Baskerville (1902), far le prove generali dell'annientamento di Sherlock Holmes, del suo abbandono nelle fumisterie dell'aldilà. E infatti sir Arthur, in questo romanzo, cala il campione del metodo deduttivo capace, ad esempio, di risalire dal colore e dalla consistenza delle macchie su un pantalone ai diversi sobborghi di Londra in grado di causarle, nella landa desolata e tenebrosa che fa da sfondo all'intero romanzo, sulle tracce di una leggenda foriera di lutti.
Sir Charles Baskerville viene trovato morto con "una distorsione facciale pressoché inverosimile": una paura folle ha stroncato il suo filantropico cuore.
Il dr. Mortimer, amico del nobile defunto, si reca a Baker Street, convinto che solo il famigerato Sherlock Holmes sia in grado di spiegare quel terrore gridato dagli occhi annichiliti di Sir Charles.
L'affidare l'incarico di far luce su quell'insolita morte e il raccontare al detective la sinistra leggenda che da tempo immemore cade come una mannaia sul capo dei Baskerville, è tutt'uno.
Un cane infernale, una fiera crudele e diversa di proporzioni mastodontiche e fluorescente si aggira per la landa, con l'unica missione di fare strame della genia dei Baskerville.
Cosa potrà la mente, il nous adamantino del detective contro il medioevo della ragione che muove il Mastino dell'anatema?
Sherlock Holmes e il fido dr. Watson (il personaggio, quest'ultimo, a cui Sir Arthur Conan Doyle più somiglia, anche fisicamente), sono ingaggiati, quindi, per un'impresa apparentemente impossibile: impedire che l'ultimo discendente dei Baskerville, il volitivo Sir Henry, venga immolato sull'altare della maledizione di famiglia.
Eppure.... Eppure.
Tra scarpe vecchie misteriosamente scomparse, tra ululati alla luna di ghiaccio della landa spettrale; e ancora, tra parentele di sangue che vengono spacciate per legami acquisiti, tra mire ereditarie nascoste nelle somiglianze dei ritratti esposti al maniero, ecco che il caso apparentemente insolvibile si avvia a una scenografica soluzione.
E sì perché, per quanto fantastica e irrazionale possa sembrare la maledizione dei Baskerville, lo stesso Mastino da Sir Arthur evocato e messo sulle tracce del suo amato-odiato investigatore, dovrà capitolare, e con esso tutto il mistero che porta con sé, al cospetto della implacabile analisi di Sherlock Holmes.
Al termine dell'appassionante lettura del romanzo di Sir Arthur Conan Doyle, non possiamo fare altro che concordare con chi ha affermato che nessun altro eroe letterario ha contribuito come "il segugio di Baker Street" a consolidare l'arte delle detection.
Le illuminazioni dei predecessori anche geniali sono diventate (con Sherlock Holmes, ndr) un agguerrito sistema mentale, una vera e propria teoria che vede nella deduzione e nell'analisi gli strumenti fondamentali: gli indizi più insignificanti, come le unghie di un uomo o le maniche di una giacca, possono condurre alle conclusioni più importanti, alle rivelazioni più inattese e determinanti.