I Viceré? "Un'opera pesante, che non illumina l'intelletto come non fa mai battere il cuore."
La causa.
Federico De Roberto? La sua scomparsa, a poco più di sessantasei anni, passò per lungo tempo quasi inosservata nell'ambiente culturale nazionale.
E quest'ultimo, automatico come gli interessi della cartella esattoriale, è l'immancabile effetto.
Ora, mi domando e dico: come poteva essere diversamente se l'autore della stroncatura de I Viceré di De Roberto è addirittura quel Benedetto Croce per mezzo del quale, all'indomani dell'apparizione del suo saggio Perché non possiamo non dirci cristiani (1942), anche i mangiapreti più incalliti non riuscivano più a professarsi atei?
Ebbene, pienamente d'accordo con Sciascia che giudica I Viceré di De Roberto, "dopo i Promessi Sposi, il più grande romanzo che conti la letteratura italiana", debbo registrare una clamorosa, forse l'unica, cantonata del Croce, proprio a proposito del suo giudizio sul capolavoro di Federico De Roberto.
I Viceré, questa "manica di ladri" (Verga) blasonati, hanno catturato la mia attenzione a ritmo di cinquanta e più pagine a notte, facendomeli maledire a ogni piè sospinto e, nello stesso tempo, stanando in me una ridda di passioni che mi hanno tenuto attaccato a loro come l'ubriaco alla bottiglia.
Nelle tre generazioni della famiglia catanese degli Uzeda di Francalanza che l'opera di De Roberto fa scorrere sotto i nostri occhi, non esiste un personaggio principale; e, cosa ancora più spiazzante, non c'è un solo protagonista che abbia le stimmate della positività.
Nel romanzo di De Roberto il "se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi" de Il Gattopardo, trova la sua prima e più perniciosa, perché meglio e diffusamente radicata nelle maglie parentali, declinazione. D'altronde, la frase che riassume la filosofia di Consalvo, esponente dell'ultima generazione della stirpe avida, pazza e paranoica dei viceré, è che "la storia è una monotona ripetizione: gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli stessi." E anche quando proprio Consalvo, che pure è stato allattato con il latte rancido del più bieco ossequio alle vestigia reazionarie, per riuscire ad essere eletto deputato, abbraccia il credo democratico, lo fa sempre nella convinzione che il solo titolo di viceré, quasi per volontà divina, è sufficiente al trionfo anche negli ambienti che dovrebbero essere più refrattari alla sua seduzione.
Nella famiglia degli Uzeda di Francalanza non esiste la coerenza tra idee o la fedeltà alle persone. Ed è proprio per questo motivo che, da una parte, lo zio Blasco, monaco gaudente di San Nicola, dopo averne detto peste e corna di Garibaldi, Mazzini e del nuovo Stato "che chiude i conventi", poi non solo compra il Cavaliere, l'appezzamento di terra dove sorgeva il monastero, ma investe anche nei titoli dello stesso Stato fino a un minuto prima esecrato; così come, dall'altra parte, lo zio duca d'Oragua prima si serve di Benedetto Giulente, suo nipote acquisito, per scalare le vette del potere politico, poi preferisce dare il suo appoggio al nipote Consalvo.
Non vi è alcun dubbio, ancora una volta d'accordo con Leonardo Sciascia, che I Viceré "sia il prodotto di una delusione, se non addirittura di una disperazione storica" che ha nell'ironia il filo conduttore; in quell'ironia cioè, che non può che nascere dal confronto e dalla contraddizione tra gli ideali che sembravano dover ammantare l'Italia appena unificata, la loro effettuale attuazione e, ciò che è ancor più disperante, tra la loro ormai conclamata inattuabilità.
Al termine della lettura dell'opera di De Roberto, finisci con l'odiarne tutti i protagonisti; col condannarne le loro intemperanze, la loro debolezza, la loro ottusa aristocraticità. Eppure, un attimo prima di voltare l'ultima pagina, un momento prima di abbandonarti al sonno dell'ennesima giornata di lavoro, non puoi non pensare che i viceré ti mancheranno; e che ti mancheranno tremendamente proprio non appena ti sfiora il pensiero del mondo di fuori che ti aspetterà l'indomani e che, miracolo della grande letteratura, è rimasto pressoché lo stesso, sia pure con forme, e parliamo solo di esteriorità, diverse.
Un perito agrimensore compose un opuscolo intitolato: Consalvo Uzeda principe di Francalanza, brevi cenni biografici, e glielo presentò. Egli lo fece stampare a migliaia di copie e diffondere per tutto il collegio. Il ridicolo di quella pubblicazione, la goffaggine degli elogi di cui era piena non gli davano ombra, sicuro com'era che per un elettore che ne avrebbe riso, cento avrebbero creduto a tutto come ad articoli di fede.
Più attuale di così!
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