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giovedì 21 maggio 2020

Avvocati in naftalina


Basta armarsi di un po’ di pazienza e li troverai lì, ognuno all’insaputa dell’altro, ciascuno con orari e manie diversi da quelli dei colleghi, a costeggiare i perimetri degli uffici giudiziari.
Come il latitante che finirà sempre a rintanarsi in un buco di culo vicino al suo paese natio, così gli avvocati. Sì, magari li vedrai camminare a passo svelto, con la borsa similpelle dei fascicoli migliori, con l’abbronzatura di chi si è dimenato da una fumisteria del diritto all’altra. E pazienza se, da marzo e almeno fino a settembre, il passo svelto è e sarà quello di chi circumnaviga terre inesplorate solo per distanziarsi dal cliente dell’ “Avvoca’, ma quei soldi, ce la faccio a vederli prima di andare in pensione?”; poco male che la borsa similpelle, apparentemente abboffata come la zampogna natalizia sulla nota più grassa, è e sarà imbottita dai manualoni del ragionamento critico-numerico; peccato che l’abbronzatura color pervinca è e sarà la disperata mossa di giardinaggio, d’agricoltura o di semplice “stallo balconiano” data in pasto alla famelicità delle giornate floscie.
E sì perché, com’è ormai noto a tutti fuorché al cliente di cui sopra che si ostina a implorare diritto in un mondo storto, gli avvocati sono ibernati in un bozzolo d’irrilevanza: udienze rinviate alle calende greche o imbalsamate nella rete del vorrei ma non posso; adempimenti inadempienti per cancellieri alternati e snervati dalle telefonate e dalle mail inevase.
Insomma, l’avvocatura è stata messa sotto naftalina.
Già, proprio come le nostre nonne facevano con le lenzuola per difenderle dalle tarme, in attesa della stagione propizia per tirarle fuori dall’armadio.
Gli avvocati, infatti, sono stati acciuffati nelle aule dell’ “e però c’è prima la mediazione obbligatoria”, nelle cancellerie del “voi avvocati rovistate nei fascicoli, li perdete, e poi li volete da noi”, negli studi legali dell’ “ancora un’altra ora, tanto c’è tuo marito a casa”, e così come si trovavano, sono stati piegati, possibilmente a novanta gradi, e riposti nel cassetto della giustizia denegata. “In attesa della stagione propizia”, proprio come le lenzuola di poc’anzi. Con la differenza, non trascurabile, che le naftalina, per sua stessa natura, preserva i tessuti; agli avvocati, invece, fa l’effetto di rodere, fino a scarnificarlo, il fegato. Certo, poi ci sarebbero le aspettative frustrate, gli studi sviliti, i costi esorbitanti di una professione, quando va bene, ormai operaia. Senza contare che, all’orizzonte, non si staglia nessuna stagione, men che meno propizia.

giovedì 7 maggio 2020

Salerno non è una città per pianoforte

Salerno non è una città per pianoforte. Certo, le iniziative musicali, soprattutto messe in campo dal Conservatorio “Giuseppe Martucci”, non mancano. Ma la mia asserzione , più che ai vari, meritori eventi organizzati anche con il patrocinio del Comune di Salerno, riguarda due parametri essenziali per chi voglia capire quanta cultura pianistica ci sia nella nostra città: le scuole di formazione e i negozi di vendita del pianoforte.
Procediamo per gradi: fino a tre-quattro anni fa, quando mi trovavo in zona, passavo sul trincerone, all’altezza di via Pietro da Eboli, solo per respirare l’aria di solfeggio e per ascoltare le “scale metodiche, tenaci, scorate” della scuola di musica (non ne ricordo manco più il nome) ubicata sopra una filiale di banca.
Più di una volta, quando qualche impegno non era troppo esigente con i miei minuti a disposizione, ho gironzolato sotto il balcone, arricchendo l’animo di ogni nota che l’allievo di turno decideva di regalarmi.
Da qualche anno, via Pietro da Eboli piange una scomparsa. Ovviamente, non della banca che è rimasta lì più indispensabile che mai, ma proprio della scuola di musica a cui mi aggrappavo per disegnare ghirigori di diesis e bemolle che addolcivano le mie pause.
Veniamo al secondo parametro, quello dei negozi di vendita del pianoforte. Alzi la mano il lettore, anche il più distratto, che non abbia notato come all’intersezione tra via Diaz e via Manzo, da qualche anno, l’idra dalle innumerevoli teste del profitto abbia cancellato la presenza di “Napolitano Pianoforti.”
Questo negozio non si limitava solo a vendere pianoforti. Forniva anche personale qualificato per accordare lo strumento oltre che vendere libri di musica.
Uno dei miei primi spartiti che mi fece finalmente mettere le mani sulla tastiera, l’ “Ave Maria” di Schubert, ovviamente in versione semplificata, lo acquistai proprio da “Napolitano Pianoforti.”
Un pomeriggio d’inverno, nonostante la mia arte pianistica sia tuttora appena mediocre, ricordo di aver trascorso in questo negozio più di tre ore a strimpellare il Petrof  marrone e lo Steinway & Sons nero. Allorché scorgevo un smorfia d’impazienza sul titolare del negozio, me ne uscivo con la scusa che stavo cercando la sfumatura di suono che mi avrebbe finalmente convinto ad acquistare un modello piuttosto che l’altro.
Ebbene, quando passo di lì, non posso che considerare la chiusura di “Napolitano Pianoforti” non già come qualcosa che riguarda le vicissitudini di un singolo commerciante, ma, come per la chiusura della “Libreria Internazionale” per ciò che attiene ai libri, un abbrutimento dell’intera città.
Per la cronaca, al posto della storica “Napolitano Pianoforti”, si è aperta un’agenzia immobiliare. Ora, se avete bisogno di acquistare e/o cambiare abitazione, vi basta fare una puntatina qui, in via Diaz, non prima, ovviamente, di aver acceso un mutuo allo sportello in via Pietro da Eboli: nell’altro tempio, quindi, che è sorto sulle rovine di un incommensurabile universo bianco e nero.
Salerno, decisamente, non è una città per pianoforte.

venerdì 1 maggio 2020

Giovi all'acqua pazza


Probabilmente sarebbe bastato che l’automedica si fosse parcheggiata di fronte al civico 88 un minuto dopo il passaggio del pullman. E invece, proprio in contemporanea, l’automedica inchioda e il funzionario dell’Asl in tuta lunare è già col dito sul citofono.
Dai finestroni del bus, quindici paia di occhi sgranati intessono collegamenti ostinati tra la croce rossa sullo sportello dell’automedica e il civico 88, tra il civico 88 e la croce rossa. Finché la voce occupante il sedile in fondo a destra non sentenzia: “È la figlia di Cosimo ‘o tratturista. Il virus l’ha presa.”
Il tempo per l’autobus di arrivare all’ultima fermata di Giovi, che sono stati allertati proprio tutti: dal conestabile Bentivoglia “senza il qual non si move foglia”, al monumentale Cicciotto, il mastino di Ciccillo ‘o bllillo.
Qualche bene informato racconterà poi che l’abnorme e contestuale traffico telefonico tra l’avvistamento dell’automedica e il fine corsa del bus, abbia shakerato la mente dei mosconi a tal punto da provocarne il suicidio di massa giù dal Piesco.
Sta di fatto che in men che non si dica, tutto l’albero genealogico di Cosimo ‘o tratturista compresa la fronda occupata nei peggiori bar di Caracas, viene concentrato nel girone dell’isolamento e sorvegliato a vista.
La gente, pur di non transitare nei paraggi del civico 88, ha aggiunto una dicitura in più sull’autocertificazione anti covid-19: necessità di giro largo per “focolare” (sigh!) civico 88.
Si vocifera che una pattuglia avrebbe fermato un autoctono il quale, per baipassare il civico 88, sarebbe sceso a Pastena per poi salirsene per sant’Eustachio, fino a rispuntare a Giovi, giusto 10 metri più in là del luogo incriminato. Ebbene, la fonte compulsata giurerebbe e spergiurerebbe che nessuna multa sarebbe stata elevata all’ambizioso compaesano “per intercessione dell’eccellentissimo Bentivoglia”.
È giunta, altresì, voce che un anonimo studente, in una chat collettiva, abbia avuto l’ardire di obiettare: “Vabbè, ma la figlia di Cosimo ‘o tratturista se l’è buscata perché ha lavorato in farmacia, e quindi anche per noi, mica perché se n’è andata a ballare la lap dance?”. È bastato questo: l’adolescente provocatore s’è trovato subito espulso dalla chat del paese e tacciato di aver contagiato, lui sicuramente paziente zero, la malaccorta fanciulla.
E mentre il conestabile Bentivoglia si mostra preoccupato per il “focolare” (e dagli!) che prende sempre più piede nelle nostre contrade, Margherita ‘a Guasta scuote la testa contrariata: “I giovinastri non credono più a niente, spostano la nervatura del Padreterno, e quello che fa? Dà fuoco alle ossa dei vecchi, più credenti e quindi maggiormente attaccabili dal virùs, per appicciare (nel focolare, ndr) la superbia dei guaglioni”.
Così è se vi pare.

venerdì 10 aprile 2020

Il crespuscolo della vicinanza


Quando ha deciso di migliorarsi, l’uomo si è avvicinato al suo simile. Nel momento in cui, invece, si è rannicchiato nel proprio egoismo, ha smesso di progredire nella sua crescita socio-politica. E ciò è tanto più vero quanto più flebile è la forza che quest’uomo isolato può opporre al sopruso del potente di turno.
Subito dopo il Mille, per scardinare il sistema feudale che mortificava il suo anelito di rivalsa, l’uomo medievale ha dato vita all’ “adunanza dei vicini”: un’assemblea, cioè, in cui più persone si riunivano sul sagrato di una chiesa, attorno a un olmo, per contarsi e provare a fare massa critica. Così comportandosi, gli uomini di buona volontà hanno dato vita al primo istituto della democrazia comunale.
La storia successiva, fino ai giorni nostri, è stata un continuo “mettersi insieme” per guadagnare maggiore peso contrattuale, tanto da assorbire questa socialità nelle fibre più profonde dell’anima.
Ci si avvicina perché si è coscienti di non bastare a se stessi. Questo, almeno fino a ieri.
Se un effetto secondario, infatti, la pandemia da covid-19 ha generato, è stato sicuramente quello di allontanarci dal nostro simile.
Ieri mattina, ad esempio, mentre seguivo le traiettorie di una lucertola che si beava alle prime avvisaglie di sole, all’improvviso mi sono bloccato: con lo sguardo basso, non mi ero accorto di essermi avvicinato a un’altra persona che, a sua volta, era troppo occupata in una conversazione telefonica per badare a me. Quando ci siamo sorpresi a valutare eccessivamente striminzita la nostra distanza, entrambi abbiamo fatto un salto indietro e, pur conoscendoci da una vita, ci siamo congedati con un saluto appena abbozzato. Tutti e due, una volta a casa, abbiamo tremato di quella rapidissima e pur paralizzante contiguità. E questa paura del contatto, a ben vedere, la si prova anche nei casi in cui è la natura stessa che imporrebbe una vicinanza al limite della compenetrazione: è ormai risaputo che nella sala parto, di questi tempi, i padri non possano accedere. Il primo contatto con l’esserino bramato per nove mesi, quindi, non può che essere mediato dai pixel del cellulare.
Una volta squarciato il velo di questa pestifera costrizione, avremo un vuoto di vicinanza da colmare. Per noi stessi, e per le conquiste che ancora ci attendono sul percorso accidentato della vita.
A patto di esserne ancora capaci, s’intende.

mercoledì 8 aprile 2020

Merluzzo cosmopolita


È l’ultima confezione rimasta. Mi guardo intorno con occhi furtivi. L’aprire il portello del bancone frigo e l’impossessarmene, è tutt’uno.
Eccola finalmente nel mio carrello, la scatola di filetti di merluzzo.
Soddisfatto, m’avvio alle casse. Alzo la testa: decine di carrelli inchiavardati su centinaia di consumatori, migliaia di acquisti che strabordano dalle buste del supermercato. Una scena apocalittica.
Riprendo in mano la mia confezione di filetti di merluzzo; in qualche modo, dovrò pure ingannare l’attesa.
Leggo. «Prodotto pescato in Norvegia». Sorrido all’immagine del ridente merluzzo che solca i limpidi mari del nord. Al rigo di sotto, «Prodotto importato dalla Cina»
Panico. Il merluzzo di cui sopra smette di ridere.
Cioè, fatemi capire, pescato in Norvegia, lavorato in Cina e consumato in Italia?
Prendo il cellulare, allarmato. Digito su google «dalla Norvegia alla Cina». Memorizzo. E poi «dalla Cina all’Italia». Rimemorizzo. Sommo le due distanze: più di 30.000 km!
Follia! Eppure, c’è del metodo in questa follia.
Il merluzzo, dopo essere stato pescato in Norvegia, viene spedito nelle fabbriche cinesi per essere sfilettato. Motivo: il costo di manodopera enormemente più basso. Ma vi è di più. I malcapitati filetti, infatti, vengono sottoposti ai cc.dd. «bagni d’acqua»: iniezioni di acqua, cioè, utili ad aumentarne il volume e a farli vendere, perché più pesanti, a un prezzo maggiore. Dulcis in fundo, i martoriati merluzzi sono spesso trattati con l’E-451, un trifosfato pentasodico che serve a prevenire il processo di ossidazione. Manco a dirlo, l’impiego di ‘sta sostanza è sì legale nell’Ue, ma solo entro certi limiti e rispettando rigide regole.
Se a tutto questo aggiungiamo pure gli effetti nefasti della pesca industriale e dell’acquacoltura intensiva sui merluzzi (esseri senzienti, per parere unanime della scienza), le tinte fosche del quadro sono tutte sulla tela.
Sono rimasto io, un paio di carrelli con cinque persone, e la mia confezione di filetti di merluzzo in mano.
I continui bip del passaggio della merce, finalmente si arrestano; segno inequivocabile che il carrello della famiglia Mulino Bianco si è svuotato.
È quasi arrivato il mio turno. Titubante, guadagno qualche metro verso la cassa. I miei occhi delusi ricadono di nuovo sul retro della confezione. Meglio non pensarci. Giro la scatola: tre merluzzi scintillanti galoppano, controcorrente, sulle rapide di una cascata. Sotto di loro, una dicitura: «pesce freschissimo.»
«Ma vafancul, va!»
Un paio di secondi. Un lancio fulmineo della confezione oltre il reparto salumeria.
La commessa passa il mio barattolo di nutella, il mio chilo di pasta, i miei cento grammi di cotto, la mia tavoletta di cioccolato fondente all’80%.
«Una busta?» E il suo sorriso stanco è quello del lavoratore assunto in Italia, formato in Norvegia, pagato in Cina.

giovedì 19 marzo 2020

Sono io il Covid-19


Mi cercavate, sono qui.
Sono io il Covid-19. Ma sono stato anche la peste nera, la spagnola, l’asiatica, l’influenza di Hong-Kong, la pandemica H1N1.
Sono la cattiva coscienza dell’uomo, il grumo nero che ne ammorba le frattaglie, la filigrana che si dispone a cappio alla giugulare dell’umanità.
Sono il profitto che pianta il vessillo sul sangue dell’ultimo, l’isola pedonale che vomita piastrine plastificate da discount, il superfluo che dissecca la vena del necessario.
Sono l’imprevedibile che interseca le parallele, l’imponderabile che confonde i torti e le ragioni, l’onnipresente che moltiplica laddove la medicina sottrae.
Sono generato e non creato, della sostanza dei vostri antibiotici, dei vostri “dovremmo”, dei vostri “ma c’è prima…”. E sì perché c’è sempre un “conveniente” prima di un “giusto”, un interesse prima di un obbligo, un cornicione prima del salto nel vuoto.
Sono nel vostro disgusto al solo scorgere un muso giallo mangiapipistrelli. Sono nelle vostre 100 mascherine acquistate a peso d’oro e nel “peggio per i poveri cristi che non ce l’hanno!”. Sono nelle vostre valigie che si accalcano febbricitanti lungo il corridoio del Milano-Salerno. Sono nei vostri strafottenti drink collettivi mentre la tazzina di caffè riflette sulla sua solitudine. Sono nel vecchio raggrinzito che sputa in faccia al camice bianco perché l’attesa si protrae troppo. Sono nella “immunità di gregge” dello scalcagnato Boris Johnson e nel “complotto democratico” dell’improponibile Donald Trump.
Non ci sono più, invece, in quell’infermiera estenuata che reclina il capo sulla tastiera del pc. Non ci sono più nello sforzo volontario che porta medicinali e generi di prima necessità agli anziani e agli immunodepressi. Non ci sono più nel siero e nelle attrezzature recanti la doppia bandiera cinese e italiana.
Nell’etere della mia inconsistenza, osservo il genere umano dall’alto. La cosa certa, in questo pomeriggio da centro cittadino finalmente respirabile, è che io andrò via. Tra venti giorni o tra un paio di mesi, tra diecimila o centomila morti, per me non fa alcuna differenza.
La cosa altrettanto certa è che quando ritornerò, sicuramente sotto altre spoglie, troverò ad attendermi gli stessi uomini, uguali sistemi, identici strabismi.
O no?