Il camminare presuppone che a ogni passo il mondo cambi in qualche suo aspetto e pure che qualcosa cambi in noi. (Italo Calvino)
venerdì 4 novembre 2016
Il pianoforte della prozia che mi salvò dal terremoto
martedì 20 settembre 2016
Facebook e l'incubo del caschetto biondo
Dopo il suicidio della povera Tiziana Cantone, tutti gli italiani, a partire da quelli appena capaci di accordare una pariglia di sostantivi a una decina d’indicativi, hanno risposto alla chiamata di Facebook.
martedì 21 giugno 2016
Sono morto. Dio al pianoforte?
Sono morto. E fin qui, nulla di speciale. Certo, alla tenera età di 39 anni, fa un po' specie morire. Ma tant'è: l'Eguagliatrice che numera le fosse ha chiesto il mio fio, e io sto qua, aspettando Dio. Nulla di più, nulla di meno.
martedì 5 maggio 2015
Dall'alto dei cieli, la lingua di Dio
Ebbene sì, me ne sto convincendo sempre di più: secondo me la lingua di Dio, il suo idioma, è la musica.
Ragionatene con me. Il libro della Genesi ci narra la vicenda della Torre di Babele costruita dagli uomini per “raggiungere” Dio. Ora la divinità, per punire la superbia (la hybris della tragedia greca) dei suoi fedeli, ingarbuglia le lingue in maniera tale che le persone non si possono più comprendere e, non intendendosi, non possano più continuare la costruzione della torre. Ecco nata, quindi, la diversità linguistica tra i vari popoli della Terra.
A partire da questo momento, la difformità tra una lingua ed un’altra non solo ha creato problemi alle persone, ma è stata foriera di guai anche per il messaggio stesso che Dio ha voluto veicolare agli uomini di buona volontà. E non parlo soltanto del passato (si pensi, per un attimo, alle eresie nate e perseguitate per la diversa definizione data, ad esempio, allo Spirito Santo – basta leggere, all'uopo e senza scomodare i testi religiosi, il Nome della Rosa di Eco per farsene un’idea), ma anche del presente, come nel caso della querelle infinita tra gli assertori della interpretazione letterale (ad es. i Testimoni di Geova) e quelli dell’interpretazione più “libera” e “mediata” delle Scritture; oppure, per allargare il campo delle incomprensioni, si pensi ancora alle dispute interminabili, sempre causate da sottigliezze terminologiche, sul corretto significato da attribuire alla parola jihad.
Stando così le cose, io ritengo che al buon Dio sarebbe convenuto molto di più parlare attraverso la musica, non foss’altro che per evitare i fraintendimenti linguistici che hanno causato, e continuano a causare, una messe di morti per un accento o un apostrofo.
Con la musica, invece, si risolverebbe ogni problema. Il do, infatti, in qualsiasi latitudine del mondo, è sempre scritto allo stesso modo sul pentagramma. Una semibreve si chiamerà diversamente a seconda del Paese in cui la partitura viene eseguita, ma la sua raffigurazione e, quindi, il suo valore, saranno sempre la stesse, dal Manzanarre al Reno.
Quali sono le fonti capaci di accreditare questa mia (strampalata) teoria? Nessuna, ovviamente, ma mi piace pensare che a questa conclusione sul linguaggio di Dio si siano avvicinati, sia pure sempre nel solco dell’ortodossia cattolica, anche personaggi illustri come San Bernardo…
I tre monaci] incontanente che furono dentro [alla porta d’esso Paradiso], udirono lo suono della rota del cielo che si volgeva; lo quale suono era di tanta dolcezza e suavitate e di tanto diletto, che quasi non sapevano lo sito dove erano, anzi si posono a sedere dentro della porta, tanto erano allegri e dilettosi di quello suono della rota del cielo! (Leggenda del Paradiso Terrestre, ne Le sette opere di penitenza di San Bernardo)
e il Sommo Poeta Dante Alighieri, con la sua armonia delle sfere…
Quando la rota, che tu sempiterni Desiderato, a sé mi fece atteso, Con l’armonia che temperi e discerni, Parvemi tanto, allor, del cielo acceso De la fiamma del sol, che pioggia o fiume Lago non fece mai tanto disteso. (Par I, 76-81)
UT queant laxis/REsonare fibris/ MIra gestorum/ FAmuli tuorum/ SOLve pollutis/ LAbiis reatum/ Sancte Jhoannes
Certo, obietterete voi, qui si parla di causa (latino, e quindi lingua) ed effetto (la musica). Ma voi stessi sapete fin troppo bene che il confine tra causa ed effetto, a volte, è molto sottile e, altrettante volte, di non chiara antecedenza logico-semantica.
In conclusione, a Dio piacendo, e nella speranza di non essere tacciato di eresia, credo proprio che la voce di Dio sia una musica celestiale.
martedì 31 marzo 2015
Paolo Conte, mannaggia a te!
Paolo Conte, mannaggia a te! A te che te ne stai lì, col baffo sornione e lo sberleffo ringalluzzito di chi ha capito che la fuga dalla vita è la quintessenza.
A te, Conte Paolo, che ti diverti e ti estenui, rannicchiato nell’ombra dei tuoi diesis e bemolle capaci di strapparmi un sorriso di tregua ad ogni accordo. Eppure non ci sarebbe nulla da sorridere, mannaggia a te… e mannaggia pure a me che continuo a sorridere come uno scimunito, sprofondato in fondo ad una città.
Prima di quella sera, prima che l’orchestra illusa a Napoli del San Carlo mi ribadisse che sì, Max, la tua facilità non semplifica, Max, sciorinando lamine di luce lungo il mio angusto universo musicale, avevo una vita “ganza”. Poi (che Atahualpa o qualche altro dio ti fulmini), con l’aggettivo giovane (“ganza”, per l’appunto), è scomparsa dalla mia vita pure Marisa.
Meschina! Mi amava, in estate mi portava (sempre) a far due passi in riva al mar. Ma come sopravvivere, poveretta, al ventiquattresimo rewind per capire se il termine masnaia di Ludmilla fosse proprio masnaia? Salvo poi (mannaggia a te, mannaggia!) precipitarmi raggiante a casa di Marisa e rivelarle che il mistero era bell’e svelato: la parola masnaia del Paolo Conte “Del tempo fatto di attimi e settimane enigmistiche” era stata inventata (non sense) di sana pianta. Insomma, uno dei suoi tuoi tanti, ingarbugliati giochi linguistici… mannaggia a te, mannaggia!
Ricordo che oscillava misterioso il lampadario. Ma questo è secondario. Primario fu il tuo: <<A me è sempre piaciuta la disco. Il tuo Paolo Conte è out>>.
E siam rimasti lì, chiusi in noi, sempre di più.…
Mannaggia a te, avvocato di Asti!
Ora, mentre sto pestando l’uva nel tinello marron, mi squilla il cellulare. È Jimmy che m’invita al concerto di Tiziano Ferro. Mi dice che c’è folla, che con lui ci stanno pure due tipe che conosco per la loro insulsaggine. Io ci rifletto un po’ su. E poi gli dico: <<Jimmy – ridendo e scherzando – non vorrei dire, però… ci meritiamo, di più, di più!>>
Paolo Conte, mannaggia a te, mannaggia! Prima di te avevo sempre l’ultimo modello di cellulare e ora non so resistere alla tentazione del telefono con la rotella che fa da sottofondo alla sigla di Carosello. Suonavo il pianoforte digitale che ho barattato con uno verticale con i tasti ingialliti dai night del secolo scorso. Mi lavavo con profumi ed essenze, ora il mio corpo conosce e reclama solo il suggestivo pulito della saponetta. Ballavo l’ultimo hip-hop e ora nessun grammofono di frontiera mi dà l’incendio di un’habanera.
Mannaggia a te, Conte Paolo!
Sono invitato al matrimonio di Ettore. Si è sposato a novembre perché, da pianista di piano bar, mi dice che non si guadagna con le note “blue”.
Ora mi annoio più di allora. Fuori il locale piove un mondo freddo. Io, sotto lo sguardo vitreo dei bicchieri di boemia, vengo assalito da un delirio agguato di nostalgia.
C’è un pianoforte a coda lunga, nero che ingentilisce la sala. “Non mi fido, – penso tra me e me – in certi casi un pianoforte è un grido, ci sono gambe che si sfiorano e tentazioni che si parlano”. E infatti una bionda (esasperante il suo languor) confabula con la sposa fino a quando quest’ultima, ammiccante, mi chiede: <<La vuoi conoscere Madeleine? È austriaca!>>
È bella quanto il sole. Ma d’istinto rispondo: <<Io parlo male il tedesco, scusa, pardon!>> Poi, per cercare di giustificarmi, spiego: <<Non vedo tra parentesi nessuno, venuto da lontano per esistere con me>>.
Mannaggia a te, Paolo Conte!
Grut-grut-grut, pot-pot-pot, cling-cling-cling è un traffico africano che mi avviluppa non appena esco dal locale.
Torno a casa tardi. Accendo la luce. Va via la corrente.
Mi sorprendo a sorridere. (Mi) offro l’intelligenza degli elettricisti, così almeno un po’ di luce (la stanza) avrà.
Mi metto al pianoforte, con la finestra aperta nonostante la notte gelida. C’è un po’ di vento, abbaia la campagna e c’è una luna in fondo al blu.
Le intemperanze luminose del Mandingo, un sexy shop di recente apertura, come un lampo giallo al parabrise, mi rimandano al Mocambo che fu tutto in fior.
Torna la corrente. Improvvisamente, però, i miei occhi si ribellano alla luce da neon della plafoniera. Accendo, allora, la pallida lampada araba, sognando ‘na scudisciata turcomanna a mezza luna.
Suono rievocando la giarrettiera rosa di tutte le Madeleine che mi sono perso e batte, batte forte il cuor sul territorio dell’amor.
Tra una pausa e un’acciaccatura s’infilano le bestemmie dell’ing. Piastretta del piano di sopra. E nonostante ribadisca il concetto (mannaggia a te, Paolo Conte!), mi sento fradicio di magia.
lunedì 5 gennaio 2015
Il respiro di Napoli (su Pino Daniele)
Il respiro di Napoli, arrochito dalla pietra lavica del Vesuvio, affannato dai miasmi dei roghi tossici, eternato dagli squarci di storia infinita…
Nei polmoni abusati eppure capaci di sempre nuovi immagazzinamenti di vita, vi è stato un momento di pucundria. Una pausa che ha atrofizzato, sia pure solo per un attimo, gli alveoli che incamerano l’addore ‘e mare e lo trasformano in mille culure.
Il respiro di Napoli si è strozzato in gola. È morto Pino Daniele.
Per trenta secondi, la città si è cristallizzata in un dagherrotipo del tempo presente, eppure già imbrigliato nel passato di un’assenza.
Napule è ‘na carta sporca…
Ogge è deritto, dimane è stuorto, e chesta vita se ne và…
E nui passammo e uaie e nun puttimmo suppurtà e chiste invece e rà na mano s’allisciano se vattono se magniano a città…
E ancora, perché i trenta secondi dei grandi si misurano in emozioni, il blues napoletano di un nero a metà, l’oggi è sabato, domani non si va a scuola di ogni ultima ora di religione, il quanto costa la felicità delle prime riflessioni sul senso della vita; infine, l’a me me piace chi dà ‘nfaccia senza ‘e se fermà’, rimuginato davanti a ‘na tazzulella ‘e cafè, quanno chiove e avresti voglia di mettere tutti ‘nfaccia ‘o muro.
Al respiro di Napoli basta anche solo questo primo universo di musica di Pino Daniele, per avvertire l’esigenza di fermare il cuore del suo microcosmo.
Come le era capitato di fare anche per Massimo Troisi, che aveva rivestito di immagini le semiminime e gli accordi della chitarra di Pino Daniele.
Il respiro di Napoli, però, inizia a insufflare aria non appena viene solleticato da un altro garage del Rione Sanità, dove un giovane cerca il riscatto tra le corde di una chitarra; quando viene pungolato da un ennesimo scugnizzo che imbraccia uno strumento troppo pesante di fatica per essere studiato nelle aule leggere del Conservatorio.
Il gorgoglio di vita chiede di poter sfociare in un rigurgito di aria allorquando assiste all’incontro tra un chitarrista e un attore che continueranno a declinare, servendosi di musica e celluloide, il genio di Napoli nel mondo.
Troppa aria viene immagazzinata nei polmoni. È giunto il momento di riattivarsi.
Il respiro di Napoli riprende ancora una volta a dare senso alla vita.
E cammina, cammina vicino ò puorto / e rirenno pensa a’ morte / se venisse mò fosse cchiù cuntento / tanto io parlo e nisciuno me sento…
Addio Pino, e quanto ti sbagliavi nel pensare che la morte potesse rendere afona la tua voce di chitarra e poesia!
martedì 9 dicembre 2014
Il rosso del sipario e la sua essenza
Il rosso che squarcia il velo di ogni oscurità
La platea, il loggione, li sento strabordare di curiosità ammirata.
Ecco, mi dicono di prepararmi. Prendo le giuste distanze dal sipario che so di essere di colore rosso… già, rosso: alla mia ancestrale domanda, mi hanno risposto: “Sì, insomma…del colore del sangue” oppure “Lei ha presente il semaforo…?” o ancora “Basta pensare a una tinta più chiara di quella della maglietta della Salernitana”. Eppure, mi viene da pensare in questo momento, io saprei spiegare benissimo cos’è l’oscurità! E qui mi sorprendo a sorridere perché, come sempre, anche questa volta l’origine di tutte le incomprensioni s’annida nell’imprecisione delle mie domande. D’altra parte, quando l’infanzia s’azzardava, impertinente, a porre quesiti di tal genere, non era ancora a conoscenza del mondo delle idee di Platone; giocoforza, non avrebbe potuto chiedere, malgrado già l’intuisse, una cosa del tipo: “Sì ma… qual è l’essenza, l’idea della…rossità? Insomma, della rossezza a cui mi devo rifare?”
Troppo tempo ormai, è stato perso.
Ecco, ci siamo. Alessandra centellina le ultime note di una fuga di Bach. Mi aggrappo a esse e mi lascio sospingere al di là del sipario rosso.
Un applauso intenso circonda i miei sensi. La mia unica preoccupazione però, è quella di stare attento a rimanere nella scia del “do maggiore” a cui, tra una manciata di secondi, Ale darà voce. Eccolo qui. Affretto il passo. Un quarto, due quarti, tre quarti… il salto. Afferro il pianoforte. M’oriento grazie a esso.
M’inchino al pubblico. Artiglio le dita affusolate di Ale con la destra mentre la mano sinistra è sempre lì, piantata sul mio mondo. Con il piede cerco la panca. La trovo leggermente spostata a sinistra (probabilmente Alessandra si sarà emozionata alla fine dell’esecuzione), la sistemo e mi ci siedo. Apro e chiudo tre volte la mano destra e poi, di seguito, quella sinistra.
Poggio le dita tremanti sulla tastiera. Animo i polpastrelli.
Un’ottava, altre ottave per poi ritornare alla prima.
Un mare di tasti bianchi solcato da una miriade di delfini neri.
La mia anima esplode e vedo finalmente il rosso del sipario e la sua essenza.
martedì 28 ottobre 2014
Il Paolo Conte di "Snob"
Il Paolo Conte di “Snob”: forse, mai come questa volta, davvero “Con quella faccia un po’ così/quell’espressione un po’ così…”
Già, proprio un manuale di conversazione per permettere al Maestro di farsi intelligere dalla musica, troppe volte stracciona (“Oggi si fanno canzoni con solo 2 -3 accordi, cosa che, ai miei tempi, era inconcepibile”), del nostro presente.
A rompere la classicità della foto di copertina, lo “Snob” amaranto posto in basso a destra. Proprio “snob”, “sine nobilitate“, come gli studenti di Cambridge definivano chi non apparteneva al mondo universitario. E, come volevasi dimostrare, Paolo Conte non può appartenere all’università (musicale) del contemporaneo. A rimarcarlo, qualora ce ne fosse bisogno, basterebbe far riferimento alla presentazione dell’album uscito il 14 ottobre: ai salotti paludati delle emittenti TV, alle frequenze psichedeliche delle radio, il Maestro ha preferito… la cantina. Sì, proprio così: il nuovo cd è stato presentato, al cospetto di una quindicina di giornalisti, nella cantina Rocchetta Tanaro di Asti.
La “vendemmia della cultura“, come qualcuno ha felicemente definito l’evento.
Ed eccoli qui i quindici colori, le quindici “interpretazioni di gusto” del vino (supremo) del Maestro.
1) Si sposa l’Africa: due telefonini stregoni (“io non posseggo il telefonino”) s’incontrano e, dopo essersi parlati due volte, decidono di sposarsi.
Nella prima parte, l’Africa antica, dove gli invitati arrivano tra capre e nuvole. Nella seconda, l’Africa moderna, con la terra rossa dei campi da tennis: son tutti soci di Wimbledon.
Musica etnica (fisarmonica “tambureggiante”) corredata dalla voce “tribale” di Conte che ripete il mantra Kunta Kinte;
2) Donna dal profumo di caffè: un sogno, una donna declinata con le virtù del caffè (bevo un caffè da aviatore/che sta ascoltando un motore…).
Suoni onirici e pianoforte “suggestivo”.
3) Argentina: terra d’immigrazione, dove i bastimenti gridano partiamo.
Ne abbiam frustato scarpe a Buenos Aires.
Pianoforte arrembante di malinconia.
4) Snob: le erre arrotate della propria donna fanno temere una simpatia per qualcuno dai tre cognomi. Il provinciale, però, con le sue cose “sostanziose” (parole, cibo), con le canzoni che van ben per i soldati e i muli, la riconquisterà.
Virtuosismi pianistici al limite della classicità.
5) Tropical: le ultime sambe degli anni cinquanta quando le parole bastavan da sole.
Ritmi swing come pennellate di colore.
6) Fandango: ermetismo poetico della statua di luna su lucidi ghiacci.
Atmosfere musicali dark.
7) Incontro: l’uomo incatenato e perduto al cospetto della luce d’amore (gatto d’estate che vaga e insegue un romanzo suo).
Musica “tanghera”.
8) Tutti a casa: c’è una vita nelle strade d’inverno, come nel cuore del protagonista; la stessa vita non comprensibile alla donna che si scalda le gambe davanti ad un falò.
Ballata cantilenante.
9) L’uomo specchio: un uomo che si fa specchio per esprimere la vera, segreta personalità della sua amata.
Intro: connubio d’autore sax-pianoforte. Scampoli d’elettronica.
10) Maracas: ritmo coinvolgente, tra Genova e le Americhe dove vuoi o non vuoi, hanno sorrisi più larghi di noi.
Samba in dialetto (parte finale) genovese.
11) Gente (csidn): occhi, piedi, mani, vite di Gente Che Stava Innamorandosi Di Noi.
Trionfo di chitarra acustica.
12) Glamour: un condor rosso in lingua tedesca.
Voce calda e roca del Maestro.
13) Manuale di conversazione (v. sopra).
14) Signorina Saponetta: la signorina che valzeggia, volteggia e poi marzuccheggia.
Revival musicale dei primi decenni del Novecento.
15) Ballerina: ballerina sei di legno, ma t’insegno io…
Gioco musicale d’antan.
Chapeau, Maestro.