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venerdì 4 novembre 2016

Il pianoforte della prozia che mi salvò dal terremoto

L'ultima volta che ho visto il pianoforte della prozia, è stato l'anno scorso, in occasione del trasferimento a Norcia.

Ora sta confinato nel sottotetto, in compagnia del ciarpame reietto di cui nemmeno l'inafferrabile topo Lupin riesce a sbarazzarsi definitivamente.
È bruttissimo il pianoforte della prozia. Nero come una maledizione, vecchio come il respiro del mondo, squinternato alla maniera del cervello dell'antenata che sola, in più di cento cinquant'anni di miserie familiari, ha avuto la voglia di suonarlo.
Fosse stato per me e per mia moglie, lo avremmo volentieri affidato alle sapienti mani di Karol.
<Mister, cinquo minuti, e ne facemo gabia per coccodè!>
E Karol ride. E io avrei senza dubbio foraggiato la sua risata se non fosse stato per la fissazione di mammà.
Il pianoforte della prozia, per una sorta di lascito testamentario della sciroccata pianista, deve tramandarsi di generazione in generazione pena, recita ancora terrorizzata un' invasata mammà, la rovina della famiglia. Ma vi è di più: la leggenda vuole che qualora si resista (e ci vuole un bel coraggio dopo più di cento cinquant'anni!) nel sopportare la rovinosa presenza, addirittura una non meglio precisata salvezza passerà proprio per il derelitto pianoforte.
Com'è come non è, sta di fatto che anche in quest'ultimo, si spera definitivo trasferimento, il primo oggetto che è stato portato nella nuova casa di Norcia, è stato proprio quello che ormai è lo scheletro del pianoforte della prozia.
Stizzito per questa ineluttabile compagnia, mi sono vendicato inchiavardandolo in un'armatura di panno e scotch più raffazzonata dell'unica corda che, a detta di un amico incuriosito dalla vestigia musicale, ancora si ostina a dar voce a un sinistro sol grave.
Il 30 ottobre 2016, alle 07:38, nella mia nuova vecchia casa di Norcia prospiciente la basilica di San Benedetto, un suono mi si pianta in testa. Un sol grave, profondo come le viscere della paura, allarma il mio patrimonio genetico.
Balzo nella cameretta di Vinicio, lo agguanto ancora incaprettato nelle lenzuola del risveglio.
Un secondo dopo sono a vincere, con l'esperienza maturata in più di cento cinquant'anni, la ritrosia di mia moglie ad abbandonare la casa.
07:40, l'inferno. E mi trovo dal lato opposto della basilica a osservarlo dalla prospettiva dell'unica testimonianza rimasta in posizione verticale.
Il pianoforte della prozia Lucia, e la sua corda di sol grave.

martedì 20 settembre 2016

Facebook e l'incubo del caschetto biondo

Dopo il suicidio della povera Tiziana Cantone, tutti gli italiani, a partire da quelli appena capaci di accordare una pariglia di sostantivi a una decina d’indicativi, hanno risposto alla chiamata di Facebook.

E allora, da un popolo di commissari tecnici, eccoci tramutati tutti, con le nostre tavole della legge a tracolla, a soloni della privacy, a censori del così ci si sta su Facebook.
Illusi!  La verità è che Facebook, questa effe pudica su sfondo color pervinca, conosce ognuno di noi; e di ciascuno di noi, le sue paure. Già, proprio come, in “1984”, il Grande Fratello di Orwell conosceva l’unica paura di Winston Smith in grado di farlo consegnare, armi e bagagli, all'annientamento della spersonalizzazione.
La vulgata comune, a proposito del venerabile Licio Gelli, capo indiscusso della Loggia P2, parla di un archivio praticamente sterminato di cui era in possesso. Di ogni uomo, a prescindere che fosse amico o nemico, quel Gran Visir di Licio conosceva vita, morte e miracoli. E tra la vita, la morte e i miracoli, soprattutto le paure. Già, la paura, l'unico sentimento in grado di sottomettere qualsiasi uomo al ricatto perenne.
Eppure nessuno pensa al fatto che, con l’avvento di Facebook, anche gli incubi inchiavardati nelle segrete della nostra coscienza più profonda, potrebbero essere portati alla luce della condivisione. E, in alcuni casi, rovinare per sempre la reputazione che ci siamo costruiti per tutta una vita.
E sì perché Facebook non conosce selezione, non si lascia ammaliare dalle (a volte) rassicuranti correnti del fiume Lete. Nossignore, il social network più famoso del mondo conosce solo l’accumulo, l’affastellamento di ricordi su ricordi che, una volta in rete, possono essere sempre ripescati dagli abissi della sua elefantiaca memoria.
Pigliate, ad esempio il mio, di incubo. Sono un direttore d'orchestra, di quelli che inaugurano le stagioni teatrali. Frequento persone che danno del tu al potere.
Tutto va ben, madama la marchesa.
Ma ho un amico. Che sta su Facebook. Un amico di quelli scemi. Di quelli che t’affatichi una vita a crearti una reputazione e poi…zac, vengono loro, e ti appioppano lo stigma dell’infamia. E quindi, la bussola va impazzita all’avventura, si sbriciolano i teatri,  gli amici raffinati se la svignano, le tue benemerenze s’involgariscono.
E non pensiate che non mi sia dato da fare per arginare il pericolo. Mi sono sbarazzato, come solo ci si può sbarazzare di un accidente, di tutte le foto su Facebook che richiamano quel periodo della mia esistenza. Sono arrivato addirittura a eliminare dagli amici l’amico di cui sopra. Eppure, il mio incubo non mi dà pace.
Una foto, c’è ancora una foto, testimone muta ma più ciarliera di mille pettegolezzi, che mi toglie il sonno e la ragione. Un’immagine dalle potenzialità devastanti, che io, pur tra mille e succulente blandizie, non sono riuscito a far eliminare dal Facebook di quello scemo del mio amico. Che in quanto scemo, ovviamente, è estremamente imprevedibile.
Teatro Verdi. Poco prima dell’ouverture, per la durata interminabile di un minuto, la mia schiatta di frac distinti e di violini aristocratici, guarda incredula il display del cellulare. Poi, quasi in ossequio a un muto intendimento, mi pianta all'unisono il nero e il mogano in cui è impresso il logo di Facebook direttamente negli occhi.
Passata la paura: è una innocua e deliziosa foto che la mia orchestra fa del proprio Maestro in ambasce!
E io, di rimando, li guardo grato, finalmente in grado di far perdere il pomo d’adamo in qualche binario morto delle interiora; in qualche passaggio segreto lontano mille miglia dalla foto di me adolescente, con un improbabile caschetto biondo platino, nell'inequivocabile omaggio al Nino D’Angelo di Nu jeans e 'na maglietta. 

martedì 21 giugno 2016

Sono morto. Dio al pianoforte?



Sono morto. E fin qui, nulla di speciale. Certo, alla tenera età di 39 anni, fa un po' specie morire. Ma tant'è: l'Eguagliatrice che numera le fosse ha chiesto il mio fio, e io sto qua, aspettando Dio. Nulla di più, nulla di meno.

Avete presente le nuvoletteSan Pietro, il cielo blu e le schiere degli angeli? Sì? Resettate tutto. Io, e sto ormai aspettando Dio da più di un'ora, vedo solo una panca, un corridoio scuro che sembra esistere solo per giustificare la presenza della panca di cui sopra, e un tizio col colbacco che mi chiede continuamente:<Ma com'è stato?>
"Cazzi tuoi, niente, eh?"
Che poi, a dirla tutta, fino ad adesso ho risposto a tutte le domande; anche a quelle del ciccione col toscano agli angoli della bocca che fumava e chiedeva, chiedeva e fumava. Dopo avermi sentito inanellare la selva di insuccessi che una vita che si rispetti porta inevitabilmente con sé, mi ha raccomandato di mettermi finalmente seduto lì, in attesa di Dio. Certo, anche lui mi ha chiesto:<Ma com'è stato?> Poi però, evidentemente stanco di far finta di non sapere, ha cominciato a sbellicarsi dalle risate.
Vabbuò, ho capito, ve lo dico. Sono morto, io antiliberista, antimperialista, anticapitalista convinto, a causa di un panino. Cioè, di un particolare tipo di panino. Santo Dio, sì, lo ammetto, era un mcchicken.
Stronza di un'ironia della sorte!
Mica è colpa mia se Amaranta lavorava lì e l'unico modo per vederla era ingozzarmi di panini del Mc Donald's? Tanto tuonò che piovve: l'ultimo morso del mcchicken mi è rimasto qui, piantato da qualche parte in gola, fino a portarmi dritto dritto in questo corridoio, come vi dicevo, ad aspettare Dio.
Si apre una tenda. L'uomo col colbacco mi dice che tocca a me ma mentre sto per entrare mi si avvicina curioso e, per l'ennesima volta, mi chiede:<Ma com'è stato?>
<Ma vaffanculo!>
Una voce, dal timbro di quelle da palcoscenico:<Dio è qui.>
Un teatro di periferia, di quelli raccolti, quasi intimi. Al centro della sala, un pianoforte: nero, a coda, immenso. Tutt'intorno candele, oggetti e suggestioni del Novecento.
Diavolo rosso dimentica la strada...
Bartali con gli occhi allegri da italiano in gita...
Fuori piove un mondo freddo...
È proprio un pianoforte da concerto, dal suono avvolto dal mistero, un pianoforte a coda lunga, nero... 
Il Mocambo e il curatore sembra un buon diavolo...
Un gelato al limon con l'intelligenza degli elettricisti...
Genova e il sole è un lampo giallo al parabris...
Azzurro e neanche un prete per chiacchierar.
All'estremità del suo piano da concerto, quello dal quale ha tolto un piede per vedere meglio il suo pubblico, ci sta lui. Un paio di baffi sornioni, un naso di quelli che hanno esaurito lo spettro delle profumazioni del mondo, gli occhi dell'avvocato che ha scandagliato tutte le memorie che un cuore umano può produrre.
<Dio...tu?>
Mi sorride con quell'aria tra l'allusivo e il timido. Giusto il tempo di insufflare il pneuma divino ai polpastrelli. Le nervature delle sue dita, quasi artritiche per il tormento e l'ironia che la sua maestria esige, tiranneggiano la tastiera, ricavandone moti d'infinito.
E il jazz in cui l'uomo scimmia cammina...
L'ultima carità di un'altra rumba che è soltanto un'allegria del tango...
La fuga che tiene la sua accademia sotto lo sguardo vitreo dei bicchieri di boemia...
Un valzer di vento e di paglia...
Blue tango tra le ombre verdi di un bovindo, gustando un'acqua al tamarindo...
Alle prese con una verde milonga in cui il musicista si diverte e si estenua.
Dal suo angolo di ispirazione, Dio-Conte mi fa un cenno. Si liscia il baffo e serio mi chiede:<Ma com'è successo?>
In quel momento mi vien quasi da piangere pensando che anche lui, il Dio del mio paradiso, mi voglia prendere in giro. Poi mi chiede di spiegarglielo con i tasti del pianoforte. Si siede e mi costringe quasi a prendere il suo posto, lì, sulla panca del protagonista.
Tradurre quella morte assurda con la tastiera? Ci provo, ma ne vien fuori un accordo talmente sguaiato da far provare sdegno al pianoforte di Paolo Conte.
Mi mette una mano sulla spalla. Dalla sua voce ruvida e suggestiva come la terra dei giardini pensili che hanno fatto il loro tempo, mi dice:<Ritorna lì, e vieni dal tuo Dio quando avrai un accordo meno stonato da suonare.>
Un'occhiolino d'intesa e una mano sul pianoforte.
E ricomincerà...come da un rendez-vous...parlando piano tra noi due....
E niente, poi mi sveglio.

martedì 5 maggio 2015

Dall'alto dei cieli, la lingua di Dio



Ebbene sì, me ne sto convincendo sempre di più: secondo me la lingua di Dio, il suo idioma, è la musica.

Ragionatene con me. Il libro della Genesi ci narra la vicenda della Torre di Babele costruita dagli uomini per “raggiungere” Dio. Ora la divinità, per punire la superbia (la hybris della tragedia greca) dei suoi fedeli, ingarbuglia le lingue in maniera tale che le persone non si possono più comprendere e, non intendendosi, non possano più continuare la costruzione della torre. Ecco nata, quindi, la diversità linguistica tra i vari popoli della Terra.

A partire da questo momento, la difformità tra una lingua ed un’altra non solo ha creato problemi alle persone, ma è stata foriera di guai anche per il messaggio stesso che Dio ha voluto veicolare agli uomini di buona volontà. E non parlo soltanto del passato (si pensi, per un attimo, alle eresie nate e perseguitate per la diversa definizione data, ad esempio, allo Spirito Santo – basta leggere, all'uopo e senza scomodare i testi religiosi, il Nome della Rosa di Eco per farsene un’idea), ma anche del presente, come nel caso della querelle infinita tra gli assertori della interpretazione letterale (ad es. i Testimoni di Geova) e quelli dell’interpretazione più “libera” e “mediata” delle Scritture; oppure, per allargare il campo delle incomprensioni, si pensi ancora alle dispute interminabili, sempre causate da sottigliezze terminologiche, sul corretto significato da attribuire alla parola jihad.

Stando così le cose, io ritengo che al buon Dio sarebbe convenuto molto di più parlare attraverso la musica, non foss’altro che per evitare i fraintendimenti linguistici che hanno causato, e continuano a causare, una messe di morti per un accento o un apostrofo.

Con la musica, invece, si risolverebbe ogni problema. Il do, infatti, in qualsiasi latitudine del mondo, è sempre scritto allo stesso modo sul pentagramma. Una semibreve si chiamerà diversamente a seconda del Paese in cui la partitura viene eseguita, ma la sua raffigurazione e, quindi, il suo valore, saranno sempre la stesse, dal Manzanarre al Reno.

Quali sono le fonti capaci di accreditare questa mia (strampalata) teoria? Nessuna, ovviamente, ma mi piace pensare che a questa conclusione sul linguaggio di Dio si siano avvicinati, sia pure sempre nel solco dell’ortodossia cattolica, anche personaggi illustri come San Bernardo

I tre monaci] incontanente che furono dentro [alla porta d’esso Paradiso], udirono lo suono della rota del cielo che si volgeva; lo quale suono era di tanta dolcezza e suavitate e di tanto diletto, che quasi non sapevano lo sito dove erano, anzi si posono a sedere dentro della porta, tanto erano allegri e dilettosi di quello suono della rota del cielo! (Leggenda del Paradiso Terrestre, ne Le sette opere di penitenza di San Bernardo)

 e il Sommo Poeta Dante Alighieri, con la sua armonia delle sfere…

 Quando la rota, che tu sempiterni Desiderato, a sé mi fece atteso, Con l’armonia che temperi e discerni, Parvemi tanto, allor, del cielo acceso De la fiamma del sol, che pioggia o fiume Lago non fece mai tanto disteso. (Par I, 76-81)

 Sì, lo so che sia San Bernardo che Dante erano ben lontani dall'equazione “lingua di Dio=musica”, ma mi intriga l’idea che la mancata affermazione di una cosa del genere fosse solo dovuta a, diciamo così, prudenza teologica. Che poi, qualsiasi sia la vostra opinione al proposito, una cosa è certa: la stretta interdipendenza tra lingua e musica nella sfera religiosa è un dato di fatto che si evince, non in ultimo, anche dal nome stesso dato alle note musicali. Infatti, com'è noto, i suoni attualmente in uso nel nostro sistema musicale derivano dalle sillabe iniziali dei primi sei versi di un inno in onore di S. Giovanni attribuito a Paolo diacono:

UT queant laxis/REsonare fibris/ MIra gestorum/ FAmuli tuorum/ SOLve pollutis/ LAbiis reatum/ Sancte Jhoannes

Certo, obietterete voi, qui si parla di causa (latino, e quindi lingua) ed effetto (la musica). Ma voi stessi sapete fin troppo bene che il confine tra causa ed effetto, a volte, è molto sottile e, altrettante volte, di non chiara antecedenza logico-semantica.

In conclusione, a Dio piacendo, e nella speranza di non essere tacciato di eresia, credo proprio che la voce di Dio sia una musica celestiale.

martedì 31 marzo 2015

Paolo Conte, mannaggia a te!

Paolo Conte, mannaggia a te! A te che te ne stai lì, col baffo sornione e lo sberleffo ringalluzzito di chi ha capito che la fuga dalla vita è la quintessenza.

A te, Conte Paolo, che ti diverti e ti estenui, rannicchiato nell’ombra dei tuoi diesis e bemolle capaci di strapparmi un sorriso di tregua ad ogni accordo. Eppure non ci sarebbe nulla da sorridere, mannaggia a te… e mannaggia pure a me che continuo a sorridere come uno scimunito, sprofondato in fondo ad una città.

Prima di quella sera, prima che l’orchestra illusa a Napoli del San Carlo mi ribadisse che sì, Max, la tua facilità non semplifica, Max, sciorinando lamine di luce lungo il mio angusto universo musicale, avevo una vita “ganza”. Poi (che Atahualpa o qualche altro dio ti fulmini), con l’aggettivo giovane (“ganza”, per l’appunto), è scomparsa dalla mia vita pure Marisa.

Meschina! Mi amava, in estate mi portava (sempre) a far due passi in riva al mar. Ma come sopravvivere, poveretta, al ventiquattresimo rewind  per capire se il termine masnaia di Ludmilla fosse proprio masnaia? Salvo poi (mannaggia a te, mannaggia!) precipitarmi raggiante a casa di Marisa e rivelarle che il mistero era bell’e svelato: la parola masnaia del Paolo Conte “Del tempo fatto di attimi e settimane enigmistiche” era stata inventata (non sense) di sana pianta. Insomma, uno dei suoi tuoi tanti, ingarbugliati giochi linguistici… mannaggia a te, mannaggia!

Ricordo che oscillava misterioso il lampadario. Ma questo è secondario. Primario fu il tuo: <<A me è sempre piaciuta la disco. Il tuo Paolo Conte è out>>.

E siam rimasti lì, chiusi in noi, sempre di più.…

Mannaggia a te, avvocato di Asti!

Ora, mentre sto pestando l’uva nel tinello marron, mi squilla il cellulare. È Jimmy che m’invita al concerto di Tiziano Ferro. Mi dice che c’è folla, che con lui ci stanno pure due tipe che conosco per la loro insulsaggine. Io ci rifletto un po’ su. E poi gli dico: <<Jimmy – ridendo e scherzando – non vorrei dire, però… ci meritiamo, di più, di più!>>

Paolo Conte, mannaggia a te, mannaggia! Prima di te avevo sempre l’ultimo modello di cellulare e ora non so resistere alla tentazione del telefono con la rotella che fa da sottofondo alla sigla di Carosello. Suonavo il pianoforte digitale che ho barattato con uno verticale con i tasti ingialliti dai night del secolo scorso. Mi lavavo con profumi ed essenze, ora il mio corpo conosce e reclama solo il suggestivo pulito della saponetta. Ballavo l’ultimo hip-hop e ora nessun grammofono di frontiera mi dà l’incendio di un’habanera.

Mannaggia a te, Conte Paolo!

Sono invitato al matrimonio di Ettore. Si è sposato a novembre perché, da pianista di piano bar, mi dice che non si guadagna con le note “blue”.

Ora mi annoio più di allora. Fuori il locale piove un mondo freddo. Io, sotto lo sguardo vitreo dei bicchieri di boemia, vengo assalito da un delirio agguato di nostalgia.

C’è un pianoforte a coda lunga, nero che ingentilisce la sala. “Non mi fido, – penso tra me e me – in certi casi un pianoforte è un grido, ci sono gambe che si sfiorano e tentazioni che si parlano”. E infatti una bionda (esasperante il suo languor) confabula con la sposa fino a quando quest’ultima, ammiccante, mi chiede: <<La vuoi conoscere Madeleine? È austriaca!>>


È bella quanto il sole. Ma d’istinto rispondo: <<Io parlo male il tedesco, scusa, pardon!>> Poi, per cercare di giustificarmi, spiego: <<Non vedo tra parentesi nessuno, venuto da lontano per esistere con me>>.

Mannaggia a te, Paolo Conte!

Grut-grut-grut, pot-pot-pot, cling-cling-cling… è un traffico africano che mi avviluppa non appena esco dal locale.

Torno a casa tardi. Accendo la luce. Va via la corrente.

Mi sorprendo a sorridere. (Mi) offro l’intelligenza degli elettricisti, così almeno un po’ di luce (la stanza) avrà.

Mi metto al pianoforte, con la finestra aperta nonostante la notte gelida. C’è un po’ di vento, abbaia la campagna e c’è una luna in fondo al blu.

Le intemperanze luminose del Mandingo, un sexy shop di recente apertura, come un lampo giallo al parabrise, mi rimandano al Mocambo che fu tutto in fior.

Torna la corrente. Improvvisamente, però, i miei occhi si ribellano alla luce da neon della plafoniera. Accendo, allora, la pallida lampada araba, sognando ‘na scudisciata turcomanna a mezza luna.

Suono rievocando la giarrettiera rosa di tutte le Madeleine che mi sono perso e batte, batte forte il cuor sul territorio dell’amor.

Tra una pausa e un’acciaccatura s’infilano le bestemmie dell’ing. Piastretta del piano di sopra. E nonostante ribadisca il concetto (mannaggia a te, Paolo Conte!), mi sento fradicio di magia.

lunedì 5 gennaio 2015

Il respiro di Napoli (su Pino Daniele)

Il respiro di Napoli, arrochito dalla pietra lavica del Vesuvio, affannato dai miasmi dei roghi tossici, eternato dagli squarci di storia infinita…

…e ancora, il respiro di Napoli, cullato dall’ adda’ passà ‘a nuttata, raccontato dai vicoli stesi al sole, immillato dalla musica delle contaminazioni…: ebbene, il respiro di Napoli è venuto, ancora una volta, meno.

Nei polmoni abusati eppure capaci di sempre nuovi immagazzinamenti di vita, vi è stato un momento di pucundria. Una pausa che ha atrofizzato, sia pure solo per un attimo, gli alveoli che incamerano l’addore ‘e mare e lo trasformano in mille culure.

Il respiro di Napoli si è strozzato in gola. È morto Pino Daniele.

Per trenta secondi, la città si è cristallizzata in un dagherrotipo del tempo presente, eppure già imbrigliato nel passato di un’assenza.

Napule è ‘na carta sporca…

Ogge è deritto, dimane è stuorto, e chesta vita se ne và…

E nui passammo e uaie e nun puttimmo suppurtà e chiste invece e rà na mano s’allisciano se vattono se magniano a città…

E ancora, perché i trenta secondi dei grandi si misurano in emozioni, il blues napoletano di un nero a metà, l’oggi è sabato, domani non si va a scuola di ogni ultima ora di religione, il quanto costa la felicità delle prime riflessioni sul senso della vita; infine, l’a me me piace chi dà ‘nfaccia senza ‘e se fermà’, rimuginato davanti a ‘na tazzulella ‘e cafè, quanno chiove e avresti voglia di mettere tutti ‘nfaccia ‘o muro.

Al respiro di Napoli basta anche solo questo primo universo di musica di Pino Daniele, per avvertire l’esigenza di fermare il cuore del suo microcosmo.

Come le era capitato di fare anche per Massimo Troisi, che aveva rivestito di immagini le semiminime e gli accordi della chitarra di Pino Daniele.

Il respiro di Napoli, però, inizia a insufflare aria non appena viene solleticato da un altro garage del Rione Sanità, dove un giovane cerca il riscatto tra le corde di una chitarra; quando viene pungolato da un ennesimo scugnizzo che imbraccia uno strumento troppo pesante di fatica per essere studiato nelle aule leggere del Conservatorio.

Il gorgoglio di vita chiede di poter sfociare in un rigurgito di aria allorquando assiste all’incontro tra un chitarrista e un attore che continueranno a declinare, servendosi di musica e celluloide, il genio di Napoli nel mondo.

Troppa aria viene immagazzinata nei polmoni. È giunto il momento di riattivarsi.

Il respiro di Napoli riprende ancora una volta a dare senso alla vita.

E cammina, cammina vicino ò puorto / e rirenno pensa a’ morte / se venisse mò fosse cchiù cuntento / tanto io parlo e nisciuno me sento…

Addio Pino, e quanto ti sbagliavi nel pensare che la morte potesse rendere afona la tua voce di chitarra e poesia!

martedì 9 dicembre 2014

Il rosso del sipario e la sua essenza

Il rosso che squarcia il velo di ogni oscurità

Non ho bisogno dell’accompagnatore. Per orientarmi, è sufficiente che qualcuno suoni anche poche e semplici note fino alla mia entrata in scena.

La platea, il loggione, li sento strabordare di curiosità ammirata.

Ecco, mi dicono di prepararmi. Prendo le giuste distanze dal sipario che so di essere di colore rosso… già, rosso: alla mia ancestrale domanda, mi hanno risposto: “Sì, insomma…del colore del sangue” oppure “Lei ha presente il semaforo…?” o ancora “Basta pensare a una tinta più chiara di quella della maglietta della Salernitana”. Eppure, mi viene da pensare in questo momento, io saprei spiegare benissimo cos’è l’oscurità! E qui mi sorprendo a sorridere perché, come sempre, anche questa volta l’origine di tutte le incomprensioni s’annida nell’imprecisione delle mie domande. D’altra parte, quando l’infanzia s’azzardava, impertinente, a porre quesiti di tal genere, non era ancora a conoscenza del mondo delle idee di Platone; giocoforza, non avrebbe potuto chiedere, malgrado già l’intuisse, una cosa del tipo: “Sì ma… qual è l’essenza, l’idea della…rossità? Insomma, della rossezza a cui mi devo rifare?”

Troppo tempo ormai, è stato perso.

Ecco, ci siamo. Alessandra centellina le ultime note di una fuga di Bach. Mi aggrappo a esse e mi lascio sospingere al di là del sipario rosso.

Un applauso intenso circonda i miei sensi. La mia unica preoccupazione però, è quella di stare attento a rimanere nella scia del “do maggiore” a cui, tra una manciata di secondi, Ale darà voce. Eccolo qui. Affretto il passo. Un quarto, due quarti, tre quarti… il salto. Afferro il pianoforte. M’oriento grazie a esso.

M’inchino al pubblico. Artiglio le dita affusolate di Ale con la destra mentre la mano sinistra è sempre lì, piantata sul mio mondo. Con il piede cerco la panca. La trovo leggermente spostata a sinistra (probabilmente Alessandra si sarà emozionata alla fine dell’esecuzione), la sistemo e mi ci siedo. Apro e chiudo tre volte la mano destra e poi, di seguito, quella sinistra.

Poggio le dita tremanti sulla tastiera. Animo i polpastrelli.

Un’ottava, altre ottave per poi ritornare alla prima.

Un mare di tasti bianchi solcato da una miriade di delfini neri.

La mia anima esplode e vedo finalmente il rosso del sipario e la sua essenza.

martedì 28 ottobre 2014

Il Paolo Conte di "Snob"

Il Paolo Conte di “Snob”: forse, mai come questa volta, davvero “Con quella faccia un po’ così/quell’espressione un po’ così…”

E come poteva essere altrimenti? Ti guarda, dallo sfondo nero della copertina del nuovo CD,  come “l’uomo scimmia” che, nonostante tutto, davvero non “capisce il motivo”; come il “camionero sensible” (“peruviano mixto Andaluz”), bisognoso del manuale di conversazione (traccia n. 13) per potersi intendere con la bella africana che, con “intenzion cavalleresca” fa salire sul suo camion.

Già, proprio un manuale di conversazione per permettere al Maestro di farsi intelligere dalla musica, troppe volte stracciona (“Oggi si fanno canzoni con solo 2 -3 accordi, cosa che, ai miei tempi, era inconcepibile”), del nostro presente.

A rompere la classicità della foto di copertina, lo “Snob” amaranto posto in basso a destra. Proprio “snob”, “sine nobilitate“, come gli studenti di Cambridge definivano chi non apparteneva al mondo universitario. E, come volevasi dimostrare, Paolo Conte non può appartenere all’università (musicale) del contemporaneo. A rimarcarlo, qualora ce ne fosse bisogno, basterebbe far riferimento alla presentazione dell’album uscito il 14 ottobre: ai salotti paludati delle emittenti TV, alle frequenze psichedeliche delle radio, il Maestro ha preferito… la cantina. Sì, proprio così: il nuovo cd è stato presentato, al cospetto di una quindicina di giornalisti, nella cantina Rocchetta Tanaro di Asti.

La “vendemmia della cultura“, come qualcuno ha felicemente definito l’evento.

Ed eccoli qui i quindici colori, le quindici “interpretazioni di gusto” del vino (supremo) del Maestro.

1) Si sposa l’Africa: due telefonini stregoni (“io non posseggo il telefonino”) s’incontrano e, dopo essersi parlati due volte, decidono di sposarsi.

Nella prima parte, l’Africa antica, dove gli invitati arrivano tra capre e nuvole. Nella seconda, l’Africa moderna, con la terra rossa dei campi da tennis: son tutti soci di Wimbledon.

Musica etnica (fisarmonica “tambureggiante”) corredata dalla voce “tribale” di Conte che ripete il mantra Kunta Kinte;

2) Donna dal profumo di caffè: un sogno, una donna declinata con le virtù del caffè (bevo un caffè da aviatore/che sta ascoltando un motore…).

Suoni onirici e pianoforte “suggestivo”.

3) Argentina: terra d’immigrazione, dove i bastimenti gridano partiamo.

Ne abbiam frustato scarpe a Buenos Aires.

Pianoforte arrembante di malinconia.

4) Snob: le erre arrotate della propria donna fanno temere una simpatia per qualcuno dai tre cognomi. Il provinciale, però, con le sue cose “sostanziose” (parole, cibo), con le canzoni che van ben per i soldati e i muli, la riconquisterà.

Virtuosismi pianistici al limite della classicità.

5) Tropical: le ultime sambe degli anni cinquanta quando le parole bastavan da sole.

Ritmi swing come pennellate di colore.

6) Fandango: ermetismo poetico della statua di luna su lucidi ghiacci.

Atmosfere musicali dark.

7) Incontro: l’uomo incatenato e perduto al cospetto della luce d’amore (gatto d’estate che vaga e insegue un romanzo suo).

Musica “tanghera”.

8) Tutti a casa: c’è una vita nelle strade d’inverno, come nel cuore del protagonista; la stessa vita non comprensibile alla donna che si scalda le gambe davanti ad un falò.

Ballata cantilenante.

9) L’uomo specchio: un uomo che si fa specchio per esprimere la vera, segreta personalità della sua amata.

Intro: connubio d’autore sax-pianoforte. Scampoli d’elettronica.

10) Maracas: ritmo coinvolgente, tra Genova e le Americhe dove vuoi o non vuoi, hanno sorrisi più larghi di noi.

Samba in dialetto (parte finale) genovese.

11) Gente (csidn): occhi, piedi, mani, vite di Gente Che Stava Innamorandosi Di Noi.

Trionfo di chitarra acustica.

12) Glamour: un condor rosso in lingua tedesca.

Voce calda e roca del Maestro.

13) Manuale di conversazione (v. sopra).

14) Signorina Saponetta: la signorina che valzeggia, volteggia e poi marzuccheggia.

Revival musicale dei primi decenni del Novecento.

15) Ballerina: ballerina sei di legno, ma t’insegno io…

Gioco musicale d’antan.

Chapeau, Maestro.

venerdì 26 aprile 2013

Mi piace Masini, embe'?

"Ho studiato pianoforte."
"E beh, allora ti piace la musica raffinata. La classica? Il jazz? Certo, ci starebbero bene pure i grandi cantautori italiani."
"Già".
"Sono di sinistra."
" E beh, allora avrai, musicalmente parlando, l'imbarazzo della scelta. Dai grandi gruppi pop ai cantautori italiani impegnati, tipo Guccini, per intenderci."
"Già".
"Mi sono laureato con una tesi sull'esistenzialismo di Sartre".
"E allora, figliuolo, caro, la musica per te è un qualcosa di estremamente raffinato."
"Già...anzi no, aspetti: - insufflo un grumo d'aria capace di infondermi coraggio - MiPiaceMarcoMasini!" - confesso tutto d'un fiato come una locomotiva d'altri tempi che attraversa la galleria dell'incomprensione.
Non ho studiato pianoforte, non sono di sinistra, non mi sono laureato con una tesi sull'esistenzialismo di Sartre. 
E pensare che mi piace pure la musica classica, il jazz, Guccini.
Già...ma mi piace Marco Masini!!