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giovedì 16 aprile 2020

È colpa mia


Certo, la colpa è mia, se la quarantena da Covid-19 dovrò scontarla in un basso di 40 mq, se convivono con me una mamma demente e una sorella tossica.
Sicuramente è colpa mia, se l’umidità che stagna sulle pareti mi imputridisce il cuore, se i vaneggiamenti di mammà non zittiscono il collasso delle vene di Flavia che elemosinano dannazione.
Senza dubbio è colpa mia, se quando scoprii che il diploma a pieni voti bastava a  legittimare l’acquisto di terreni da imbottire di munnezza, me ne spogliai inorridito; se quando Amìn ci lasciò la vita nel solco di pomodori a 11 ore al giorno, denunciai il bastardo e persi il lavoro.
Ovviamente è colpa mia, quando avrei voluto iscrivermi all’università, ma papà aveva bisogno di braccia da sacrificare alle zolle ereditate; quando, quel giorno di maggio, il cuore di mio padre si fermò appena dopo l’ingente prestito ottenuto dal cravattaro.
Colpa mia di sicuro, quando la giustizia del capitale purchessia ci spogliò della nostra casa che trasudava sangue e rinunce; quando, dopo l’ennesima notte persa nelle derive del bisogno, Flavia presentò il conto del primo buco.
Indubitabilmente colpa mia, quando i cortocircuiti dell’esistenza ingolfarono la mente di mammà; quando la mia Marta, dopo una notte d’amore in cui la sentivo piangere e gemere, mi disse che no, non ce la faceva più, e che sarebbe andata via per sempre.
Evidentemente colpa mia, per aver avuto, per troppo tempo, due soli libri in tutta la casa, un simulacro di bibbia e un estratto de “Piccole donne crescono”; per aver dovuto scegliere l’istituto tecnico quando avevo una smania smisurata di perdermi nelle lettere del Classico.
Colpa mia tutta la vita, per essere nato da Gioacchino il lustrascarpe e da Annamaria Pezzella, fu Mariassunta la portinaia e padre ignoto.
Anzi, adesso che ci penso, incontrovertibilmente colpa mia per essere nato e basta: se non fossi venuto al mondo, infatti ora, all’ascoltare gli inviti a restare a casa dalle profondità rassicuranti dell’ennesima villa con giardino, potrei addirittura sorridere. Forse, sforzandomi al massimo, ce la farei anche a condannare chi proprio non ne vuole sapere di rimanere tappato in casa, mettendo a repentaglio la sicurezza di tutti…voi.
Solo e unicamente colpa mia infine se, nonostante la mia vita strozzata dai fallimenti, continuo a non ritenermi sfortunato perché…c’è sempre qualche ultimo che è più ultimo di me.



   

venerdì 10 aprile 2020

Il crespuscolo della vicinanza


Quando ha deciso di migliorarsi, l’uomo si è avvicinato al suo simile. Nel momento in cui, invece, si è rannicchiato nel proprio egoismo, ha smesso di progredire nella sua crescita socio-politica. E ciò è tanto più vero quanto più flebile è la forza che quest’uomo isolato può opporre al sopruso del potente di turno.
Subito dopo il Mille, per scardinare il sistema feudale che mortificava il suo anelito di rivalsa, l’uomo medievale ha dato vita all’ “adunanza dei vicini”: un’assemblea, cioè, in cui più persone si riunivano sul sagrato di una chiesa, attorno a un olmo, per contarsi e provare a fare massa critica. Così comportandosi, gli uomini di buona volontà hanno dato vita al primo istituto della democrazia comunale.
La storia successiva, fino ai giorni nostri, è stata un continuo “mettersi insieme” per guadagnare maggiore peso contrattuale, tanto da assorbire questa socialità nelle fibre più profonde dell’anima.
Ci si avvicina perché si è coscienti di non bastare a se stessi. Questo, almeno fino a ieri.
Se un effetto secondario, infatti, la pandemia da covid-19 ha generato, è stato sicuramente quello di allontanarci dal nostro simile.
Ieri mattina, ad esempio, mentre seguivo le traiettorie di una lucertola che si beava alle prime avvisaglie di sole, all’improvviso mi sono bloccato: con lo sguardo basso, non mi ero accorto di essermi avvicinato a un’altra persona che, a sua volta, era troppo occupata in una conversazione telefonica per badare a me. Quando ci siamo sorpresi a valutare eccessivamente striminzita la nostra distanza, entrambi abbiamo fatto un salto indietro e, pur conoscendoci da una vita, ci siamo congedati con un saluto appena abbozzato. Tutti e due, una volta a casa, abbiamo tremato di quella rapidissima e pur paralizzante contiguità. E questa paura del contatto, a ben vedere, la si prova anche nei casi in cui è la natura stessa che imporrebbe una vicinanza al limite della compenetrazione: è ormai risaputo che nella sala parto, di questi tempi, i padri non possano accedere. Il primo contatto con l’esserino bramato per nove mesi, quindi, non può che essere mediato dai pixel del cellulare.
Una volta squarciato il velo di questa pestifera costrizione, avremo un vuoto di vicinanza da colmare. Per noi stessi, e per le conquiste che ancora ci attendono sul percorso accidentato della vita.
A patto di esserne ancora capaci, s’intende.

venerdì 3 aprile 2020

L'avvocato che sconsigliava gli hobbies


Convinto che la cosa non potesse far altro che accrescere la mia considerazione ai suoi occhi: “Avvocato, lunedì prossimo non ci sarei, avrei la presentazione del mio libro…”
I dieci secondi successivi sguinzagliano un’ insolita increspatura sul suo sopracciglio.
“Tributario, fallimentare…qual è l’argomento trattato nel suo manuale?”
“Ehm…libro, avvocato. Sa, è un’opera di narrativa.”
La porzione d’aria tra la mia sedia blasfema e la sua poltrona ortodossa si condensa in tante, minuscole goccioline di disapprovazione.
“Cosicché lei avrebbe un hobby?”
Per un attimo mi vedo lì, piantato davanti al mio dominus, a chiedermi angosciato come abbia fatto, nonostante una vita morigerata, a buscarmi un hobby.
“L’avvocato deve avere un solo hobby: il suo lavoro. Se poi, nella propria giornata, c’è spazio anche soltanto per immaginare un’altra passione, allora, francamente…”
Com’era la distinzione tra gli avvocati propugnata da Luciano De Crescenzo? Ah, già: avvocati di grido, avvocati normali, paglietta, strascinafacenne e giovani di studio.
Ebbene, quel “francamente” dell’avv. Scuccimarra, metteva in moto un meccanismo logico-deduttivo deflagrante: se avessi continuato a perseguire il mio hobby, in altri termini, non sarei mai diventato un avvocato di grido; e poiché il mio dominus nel suo studio voleva solo avvocati che si addormentassero col codice e si svegliassero con l’agenda legale, mi avrebbe bellamente defenestrato, con conseguente difficoltà a mettere assieme il pranzo con la cena.
Morale della favola: l’unica presentazione del mio primo libro fu organizzata in un’intercapedine di solitudine, con la vergogna propria di chi si è macchiato di una colpa inemendabile.
Servì a poco.
A distanza di sei mesi dalla conoscenza del mio inconcepibile hobby, infatti, l’avv. Scuccimarra capì che, per quanti sforzi facessi, la scrittura, il pianoforte avrebbero sempre contaminato la limpidezza del suo diritto.
Sono passati un bel po’ di anni dalla mia esperienza presso lo studio “Scuccimarra&partners”.
Proprio oggi, però, ho letto del fattaccio: “l’avv. Pietro Scuccimarra, principe del foro di Roma, si è suicidato. Ignote le ragioni dell’insano gesto.”
Com’è possibile? All’improvviso una serie di flash illuminanti hanno preso a sferruzzare nelle mie sinapsi: covid-19, assenza di lavoro, mancanza di hobbies, apatia, disperazione.
Ho fretta di tornare a casa dalla spesa.
Manco il tempo di lavarmi per la cinquantesima volta le mani, che riprendo a leggere, scrivere e suonare.

giovedì 26 marzo 2020

Raccontare per mille e una notte


Raccontare è un’esigenza insita nell’uomo fin dalla notte dei tempi. Si racconta di tutto, dall’episodio più banale all’esperienza più strutturata. Eppure ci sono dei momenti in cui il narrare, oltre che un bisogno, diventa un modo per esorcizzare la morte. A volte, addirittura una maniera per rinviare l’appuntamento con “l’Eguagliatrice (che) numera le fosse”. Già, proprio come succede in questi tempi grami da Coronavirus: quando l’eccezionalità degli eventi travolge la nostra routine, infatti, il racconto è lì che pretende attenzione. E lo fa perché in grado di allontanare il pericolo o, pur non potendo garantire la salvezza (“raccontare, raccontare, finché non muore più nessuno” scrive Elias Canetti), di rimandarne l’epifania.
Ne “Le Mille e una notte” un re, tradito dalla moglie prontamente decapitata, pretende che ogni notte gli venga offerta una vergine da violentare e poi uccidere.
La figlia del visir Shahrazad, ultima fanciulla rimasta da sacrificare, escogita un piano: spalleggiata da sua sorella, inizia a raccontare una storia, e lo fa così bene da incatenare a sé l’attenzione del re. Poi, puntualmente, sul più bello si zittisce.
Il sanguinoso sovrano bramoso di conoscere gli sviluppi della trama, le risparmia la vita, convinto com’è che la notte appresso Shahrazad gli svelerà il finale e allora lui potrà finalmente ucciderla.
Niente da fare. Ogni notte la fanciulla racconta e ogni mattino interrompe la storia sul più bello. E così per mille e una notte, fino a garantirsi salva la vita e il lieto fine.
Come dicevo all’inizio, il racconto non ha certamente il potere di allontanare il “duro destino” della nostra finitudine (Heidegger), ma una cosa può farla: in questo tempo di atomizzazione indotta dove tutte le nervature implicanti alterità sono state recise, il raccontare può essere la fucina in cui si forgia l’umanità nuova. A patto, ovviamente, che il racconto trovi orecchie non distratte dal futile e dalle sovrastrutture, pronte a farsi ammaliare dalla magia del “cunto”. Per mille e una notte, e una notte ancora, fino all’eternità.

giovedì 19 marzo 2020

Sono io il Covid-19


Mi cercavate, sono qui.
Sono io il Covid-19. Ma sono stato anche la peste nera, la spagnola, l’asiatica, l’influenza di Hong-Kong, la pandemica H1N1.
Sono la cattiva coscienza dell’uomo, il grumo nero che ne ammorba le frattaglie, la filigrana che si dispone a cappio alla giugulare dell’umanità.
Sono il profitto che pianta il vessillo sul sangue dell’ultimo, l’isola pedonale che vomita piastrine plastificate da discount, il superfluo che dissecca la vena del necessario.
Sono l’imprevedibile che interseca le parallele, l’imponderabile che confonde i torti e le ragioni, l’onnipresente che moltiplica laddove la medicina sottrae.
Sono generato e non creato, della sostanza dei vostri antibiotici, dei vostri “dovremmo”, dei vostri “ma c’è prima…”. E sì perché c’è sempre un “conveniente” prima di un “giusto”, un interesse prima di un obbligo, un cornicione prima del salto nel vuoto.
Sono nel vostro disgusto al solo scorgere un muso giallo mangiapipistrelli. Sono nelle vostre 100 mascherine acquistate a peso d’oro e nel “peggio per i poveri cristi che non ce l’hanno!”. Sono nelle vostre valigie che si accalcano febbricitanti lungo il corridoio del Milano-Salerno. Sono nei vostri strafottenti drink collettivi mentre la tazzina di caffè riflette sulla sua solitudine. Sono nel vecchio raggrinzito che sputa in faccia al camice bianco perché l’attesa si protrae troppo. Sono nella “immunità di gregge” dello scalcagnato Boris Johnson e nel “complotto democratico” dell’improponibile Donald Trump.
Non ci sono più, invece, in quell’infermiera estenuata che reclina il capo sulla tastiera del pc. Non ci sono più nello sforzo volontario che porta medicinali e generi di prima necessità agli anziani e agli immunodepressi. Non ci sono più nel siero e nelle attrezzature recanti la doppia bandiera cinese e italiana.
Nell’etere della mia inconsistenza, osservo il genere umano dall’alto. La cosa certa, in questo pomeriggio da centro cittadino finalmente respirabile, è che io andrò via. Tra venti giorni o tra un paio di mesi, tra diecimila o centomila morti, per me non fa alcuna differenza.
La cosa altrettanto certa è che quando ritornerò, sicuramente sotto altre spoglie, troverò ad attendermi gli stessi uomini, uguali sistemi, identici strabismi.
O no?