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giovedì 14 maggio 2020

Libertà dalla pandemia con Orlando

Avrei tanto voluto puntare sul mio cane, ma una pappagorgia smisurata unita a un’indolenza che solo le bistecche e il ritorno del padrone possono vincere, mi hanno già da tempo fatto mettere sulle tracce di un sostituto. Non ho dovuto cercare troppo. A un tiro di schioppo da casa mia, un cane giovane e vibrante, ogni mattina, è costretto a tirarsi appresso una padrona che proprio non ce la fa a stare dietro alle sue intemperanze.

Ecco, quello è il mio cane. Nei giorni scorsi, ho osservato gli orari della sua passeggiata, ho provveduto a ingraziarmi la padrona offrendomi più volte di aiutarla a portare le buste della spesa. Nondimeno, non ho smesso un solo momento di corteggiare spudoratamente il furioso Orlando. Poi, una volta certo che anche la padrona avesse approvato la mia complicità con l’animale, osservando sempre la tirannica distanza anti-covid, ho azzardato: “Signora, le dispiacerebbe se domattina vengo a prendere Orlando e lo porto un poco a sgranchirsi le zampe?”

La mia offerta viene veicolata con un atteggiamento a metà tra la compassione per Orlando a causa della sua perenne cattività, e la comprensione per l’anziana padrona che ogni giorno rischia tibia e perone per l’esuberanza del cucciolo.

“Oh, certo che sì. Vero, Orlanduccio mio, che vuoi farti una corsetta con il nostro Vincenzino?”

Gli occhi elettrici del cane passano in una frazione di secondo dalla sua padrona a me. Attimo di esitazione.

Lo scodinzolio festante suggella il patto.

La mattina dopo, di buon’ora, sono già sullo sterminato campo oggetto di attento sopralluogo nei giorni precedenti.

Io, Orlando e una distesa chilometrica di erba.

Muscoli e fibre sono tesi allo spasimo.

Un cenno d’intesa, l’ultimo.

La corsa inizia sconclusionata e senza riserve. I cuori scalpitano all’impazzata.

Questa è la mia libertà dalla pandemia; dai morti d’aria, dagli intubati che implorano carezze da uno scafandro impotente, dalla distanza che smarrisce l’umanità, dall’egoismo che inchiavarda bare con puntelli di profitto.

La nostra corsa è quella di chi festeggia la pioggia al lazzaretto di Renzo e Lucia, dei partigiani che smaltiscono le tossine nazi-fasciste dell’orrore, dei bimbi africani finalmente ammessi all’imbandita mensa delle opportunità.

Corse, quest’ultime, tutte diverse. Ma ognuna di esse bastevole, di per sé, a giustificare un’esistenza. Libera, almeno per la durata della corsa.

  

giovedì 16 aprile 2020

È colpa mia


Certo, la colpa è mia, se la quarantena da Covid-19 dovrò scontarla in un basso di 40 mq, se convivono con me una mamma demente e una sorella tossica.
Sicuramente è colpa mia, se l’umidità che stagna sulle pareti mi imputridisce il cuore, se i vaneggiamenti di mammà non zittiscono il collasso delle vene di Flavia che elemosinano dannazione.
Senza dubbio è colpa mia, se quando scoprii che il diploma a pieni voti bastava a  legittimare l’acquisto di terreni da imbottire di munnezza, me ne spogliai inorridito; se quando Amìn ci lasciò la vita nel solco di pomodori a 11 ore al giorno, denunciai il bastardo e persi il lavoro.
Ovviamente è colpa mia, quando avrei voluto iscrivermi all’università, ma papà aveva bisogno di braccia da sacrificare alle zolle ereditate; quando, quel giorno di maggio, il cuore di mio padre si fermò appena dopo l’ingente prestito ottenuto dal cravattaro.
Colpa mia di sicuro, quando la giustizia del capitale purchessia ci spogliò della nostra casa che trasudava sangue e rinunce; quando, dopo l’ennesima notte persa nelle derive del bisogno, Flavia presentò il conto del primo buco.
Indubitabilmente colpa mia, quando i cortocircuiti dell’esistenza ingolfarono la mente di mammà; quando la mia Marta, dopo una notte d’amore in cui la sentivo piangere e gemere, mi disse che no, non ce la faceva più, e che sarebbe andata via per sempre.
Evidentemente colpa mia, per aver avuto, per troppo tempo, due soli libri in tutta la casa, un simulacro di bibbia e un estratto de “Piccole donne crescono”; per aver dovuto scegliere l’istituto tecnico quando avevo una smania smisurata di perdermi nelle lettere del Classico.
Colpa mia tutta la vita, per essere nato da Gioacchino il lustrascarpe e da Annamaria Pezzella, fu Mariassunta la portinaia e padre ignoto.
Anzi, adesso che ci penso, incontrovertibilmente colpa mia per essere nato e basta: se non fossi venuto al mondo, infatti ora, all’ascoltare gli inviti a restare a casa dalle profondità rassicuranti dell’ennesima villa con giardino, potrei addirittura sorridere. Forse, sforzandomi al massimo, ce la farei anche a condannare chi proprio non ne vuole sapere di rimanere tappato in casa, mettendo a repentaglio la sicurezza di tutti…voi.
Solo e unicamente colpa mia infine se, nonostante la mia vita strozzata dai fallimenti, continuo a non ritenermi sfortunato perché…c’è sempre qualche ultimo che è più ultimo di me.



   

venerdì 3 aprile 2020

L'avvocato che sconsigliava gli hobbies


Convinto che la cosa non potesse far altro che accrescere la mia considerazione ai suoi occhi: “Avvocato, lunedì prossimo non ci sarei, avrei la presentazione del mio libro…”
I dieci secondi successivi sguinzagliano un’ insolita increspatura sul suo sopracciglio.
“Tributario, fallimentare…qual è l’argomento trattato nel suo manuale?”
“Ehm…libro, avvocato. Sa, è un’opera di narrativa.”
La porzione d’aria tra la mia sedia blasfema e la sua poltrona ortodossa si condensa in tante, minuscole goccioline di disapprovazione.
“Cosicché lei avrebbe un hobby?”
Per un attimo mi vedo lì, piantato davanti al mio dominus, a chiedermi angosciato come abbia fatto, nonostante una vita morigerata, a buscarmi un hobby.
“L’avvocato deve avere un solo hobby: il suo lavoro. Se poi, nella propria giornata, c’è spazio anche soltanto per immaginare un’altra passione, allora, francamente…”
Com’era la distinzione tra gli avvocati propugnata da Luciano De Crescenzo? Ah, già: avvocati di grido, avvocati normali, paglietta, strascinafacenne e giovani di studio.
Ebbene, quel “francamente” dell’avv. Scuccimarra, metteva in moto un meccanismo logico-deduttivo deflagrante: se avessi continuato a perseguire il mio hobby, in altri termini, non sarei mai diventato un avvocato di grido; e poiché il mio dominus nel suo studio voleva solo avvocati che si addormentassero col codice e si svegliassero con l’agenda legale, mi avrebbe bellamente defenestrato, con conseguente difficoltà a mettere assieme il pranzo con la cena.
Morale della favola: l’unica presentazione del mio primo libro fu organizzata in un’intercapedine di solitudine, con la vergogna propria di chi si è macchiato di una colpa inemendabile.
Servì a poco.
A distanza di sei mesi dalla conoscenza del mio inconcepibile hobby, infatti, l’avv. Scuccimarra capì che, per quanti sforzi facessi, la scrittura, il pianoforte avrebbero sempre contaminato la limpidezza del suo diritto.
Sono passati un bel po’ di anni dalla mia esperienza presso lo studio “Scuccimarra&partners”.
Proprio oggi, però, ho letto del fattaccio: “l’avv. Pietro Scuccimarra, principe del foro di Roma, si è suicidato. Ignote le ragioni dell’insano gesto.”
Com’è possibile? All’improvviso una serie di flash illuminanti hanno preso a sferruzzare nelle mie sinapsi: covid-19, assenza di lavoro, mancanza di hobbies, apatia, disperazione.
Ho fretta di tornare a casa dalla spesa.
Manco il tempo di lavarmi per la cinquantesima volta le mani, che riprendo a leggere, scrivere e suonare.

giovedì 26 marzo 2020

Raccontare per mille e una notte


Raccontare è un’esigenza insita nell’uomo fin dalla notte dei tempi. Si racconta di tutto, dall’episodio più banale all’esperienza più strutturata. Eppure ci sono dei momenti in cui il narrare, oltre che un bisogno, diventa un modo per esorcizzare la morte. A volte, addirittura una maniera per rinviare l’appuntamento con “l’Eguagliatrice (che) numera le fosse”. Già, proprio come succede in questi tempi grami da Coronavirus: quando l’eccezionalità degli eventi travolge la nostra routine, infatti, il racconto è lì che pretende attenzione. E lo fa perché in grado di allontanare il pericolo o, pur non potendo garantire la salvezza (“raccontare, raccontare, finché non muore più nessuno” scrive Elias Canetti), di rimandarne l’epifania.
Ne “Le Mille e una notte” un re, tradito dalla moglie prontamente decapitata, pretende che ogni notte gli venga offerta una vergine da violentare e poi uccidere.
La figlia del visir Shahrazad, ultima fanciulla rimasta da sacrificare, escogita un piano: spalleggiata da sua sorella, inizia a raccontare una storia, e lo fa così bene da incatenare a sé l’attenzione del re. Poi, puntualmente, sul più bello si zittisce.
Il sanguinoso sovrano bramoso di conoscere gli sviluppi della trama, le risparmia la vita, convinto com’è che la notte appresso Shahrazad gli svelerà il finale e allora lui potrà finalmente ucciderla.
Niente da fare. Ogni notte la fanciulla racconta e ogni mattino interrompe la storia sul più bello. E così per mille e una notte, fino a garantirsi salva la vita e il lieto fine.
Come dicevo all’inizio, il racconto non ha certamente il potere di allontanare il “duro destino” della nostra finitudine (Heidegger), ma una cosa può farla: in questo tempo di atomizzazione indotta dove tutte le nervature implicanti alterità sono state recise, il raccontare può essere la fucina in cui si forgia l’umanità nuova. A patto, ovviamente, che il racconto trovi orecchie non distratte dal futile e dalle sovrastrutture, pronte a farsi ammaliare dalla magia del “cunto”. Per mille e una notte, e una notte ancora, fino all’eternità.

venerdì 20 marzo 2020

Elogio della matita


Checché se ne dica, io sono la matita.
Sono europeista fin dalla nascita. Gli inglesi, infatti, scoprirono il mio cuore di grafite. Due italiani, Simonio e Lyndiana Bernacotti, ebbero l’intuizione di inserirlo in un cilindro di legno. Infine un inventore francese, nel Settecento, iniziò la mia produzione in serie.
Sono tollerante per natura. Rifuggo dalle certezze granitiche dell’inchiostro inchiavardato nel rigo, posto lì a imperitura memoria.
Tra i punti esclamativi e quelli interrogativi di decrescenziana memoria, scelgo senza battere ciglio questi ultimi.  
Mi sbaglio, mi correggo, per poi sbagliarmi di nuovo. E anche nella correzione, ebbene sì, ci vado di fioretto. Pavidità? Macché: semplicemente esperienza che mi invita a essere cauta.
A che scopo, infatti, scrivere in maniera indelebile qualcosa quando, il più delle volte, quello che è giusto oggi diventa sbagliato domani, e viceversa? Io lascio sempre la possibilità di ritornare sui propri passi. E non appena la soluzione appare definitiva, sarà sempre il flusso di vita che scorre sul foglio a decidere per quanto tempo salvare il mio scritto. La verità, infatti, è che sono fortemente convinta che niente debba essere conservato per l’eternità. D’altronde, io stessa sono l’emblema della precarietà. La mia punta di grafite scrive, si spezza (oh, ho un cuore languido e delicato, io!) e quindi si consuma e si trancia. Occorre temperare. Scrivere. Per poi ritemperare di nuovo. E via, via, fino a lasciare di me un semplice e derelitto mozzicone.  
Sia chiaro, tutto si consuma. Anche la linfa della tronfia Montblanc che mi sta di fronte.
Vuoi mettere, però, il sollievo di non dover misurare il passare del tempo con l’accorciarsi graduale della mia lunghezza? D’altronde, è lo stesso motivo per cui le saponette hanno lasciato il passo ai dispensatori di sapone liquido: la prima si consuma e il secondo finisce, ma la morte della prima si sconta giorno per giorno; di quella del sapone liquido, invece, ci se n’accorge solo all’ultimo bliz
Un tempo si diceva che la filosofia serve a preparare l’uomo alla morte. Voi umani, che avete espunto la fine dalla vostra vita, avete smesso di essere filosofi. Questo lo scrivo mentre chi m’impugna ha il foglio appoggiato al vetro della finestra. Perché, tra l’altro la mia grafite, a differenza dell’inchiostro, è capace di scrivere in tutte le posizioni.
Il sacrificio e la duttilità mi appartengono. A riprova di ciò, non soffro il freddo che paralizza l’inchiostro né le cadute «con la punta» che rendono la biro praticamente inservibile. Ho un solo bisogno/desiderio, e lo calco (perché solo io posso evidenziare una parola, un periodo senza bisogno di sottolineature): che mi si temperi, di tanto in tanto, e che voi uomini vogliate riprendere a essere filosofi facendo pace, una volta per tutte, con lo scorrere del tempo.