martedì 4 novembre 2014

“Dotto’, ‘e cazettin?!”

Un ticchettìo di dita sul finestrino. Ti giri in direzione del rumore perché pensi a lei che finalmente è scesa dal treno e ti ha raggiunto. “Dotto’, – un ghigno da impunito stampato su lineamenti beffardi‘e cazettin?”

Non riesci manco a trovare il tempo di opporti che già la frangia granata (non è che per mezzo che stiamo a Salerno tutti i calzini devono essere di colore granata, no?!) s’insinua nel rettangolino del finestrino lasciato colpevolmente aperto.

“Ma io… – cerchi di accampare ‘na fetente di scusa che ti possa sottrarre all‘invasione del cazettino selvaggio…no….”

Troppe cose aperte e/o sospese: il finestrino, i puntini sospensivi fatti apposta per essere riempiti dal nylon dei calzini, la volontà morbida come il ventre caldo dell’Ubalda.

“Dotto’, ‘e cazettin!”

Imparpagliato, con i calzini granata sopra il cruscotto, metti mano al portafogli e paghi.

La fase due è quella di trovare una giustificazione all’ennesimo paia di calzini granata che regalerai al nonno, magari assieme alle brache rigorosamente nere, per riprodurre i colori sociali della Salernitana. Sempre, ovviamente, sperando che il vecchio in questione non perda la pazienza come il personaggio di Io speriamo che me la cavo (“Oh Maronna mia, nata vot o piecr! Ma che cazz o puort a fa ognj’ anno stu piecr comm a te si nun tien mai o curagg ro scannà?!? Ije te scannas ije a te!”)

E mentre pensi che “È meglio che facciano questo piuttosto che rubare o spacciare”, sopraggiunge la tua ragazza.

Ti appioppa un bacio e scorge i calzini sul cruscotto. Inizia a ridere: “Un’altra volta – osserva mentre si sganascia dalle risate ‘e cazettin?”

E tre: ti sei riempito il cruscotto di nuances granata per aspettare lei, hai “cacciato” tre euro per farti fare fesso e sei passato pure per coglione.

Piglia, impacca e porta a casa!

La settimana dopo, sempre alla stazione di Salerno e sempre ad aspettare lei.

Chiudi i finestrini e continui a spingere sul bottoncino per circa due minuti dopo la chiusura. Non pensi di controllare la venuta di Angela (“Deve cercarmi lei, l’uomo-cazettino è più importante!”) e lasci rigorosamente accesa l’auto.

Ne viene uno a destra con i calzini di spugna (granata). Innesti la prima e ti sposti due metri più in là.

Eccone un altro a sinistra, con una mappata di calzini (granata!) che cerca un varco nel tuo finestrino. Godendo come un criceto in calore, abbandoni di nuovo il cambio in folle, ingrani la marcia, e ti parcheggi, sempre col motore acceso, dall’altra parte della strada.

Viene la tua ragazza. Apre la portiera. Da destra e sinistra arrivano due ondate di stoffe granata pronte a sfruttare l’apertura alare dello sportello.

Ti avvinghi alla sua borsa, e il tirarla dentro l’abitacolo e il dare gas al motore, è tutt’uno.

E tre: ti sei risparmiato l’ennesimo paia di calzini granata sul cruscotto, non hai sborsato manco un cent, hai acquistato il rispetto della tua bella.

Fieramente impettito come il nostro ZON che vende più copie de Il Corriere della Sera, parcheggiata l’auto, te ne vai passeggiando con il tuo amore, decisamente fiero di te.

Arrivi all’altezza del palazzo della Provincia e… a destra: “Dotto’, e cazettin!”; a manca: “Dotto’, ‘nu bell’ cazettin granata, jamm!”.

Li guardi annichilito, a tal punto che la tua ragazza si sente in dovere di venirti in aiuto: “Ma che dobbiamo fare con tutti ‘ste calze e calzini, ‘na rapina?”

“Dottore’ (per normale associazione di genere), ma vi pare che se ci fosse qualcosa da rapinare, nuie stessimo ancora cca a vendere ‘sti maronn e cazettin, per di più granata (visto ca simm tifosi do Napule)?”

Tu e la tua metà vi scambiate uno sguardo di prostrata rassegnazione.

Il tornarsene a casa, tu con cinque paia di calzini lunghi, lei con altrettanti paia di cazettini di spugna (ça van sans dire, tutti di colore granata), ha qualcosa di più deprimente della Waterloo napoleonica.

sabato 1 novembre 2014

"Assassinio al Comitato Centrale", di M. V. Montalbàn

Vi è impazienza per l’arrivo di Fernando Garrido, il segretario generale.

Alla sua venuta, come sempre, i diversi gruppi nel frattempo formatisi s’apriranno “come occhi per contemplare ancora una volta l’eterno miracolo dell’incarnazione dell’avanguardia della classe operaia nella persona di un segretario generale”.

Il discorso introduttivo al Comitato Centrale, per forza di cose destinato a durare poco (“Faremo presto, perché sapete bene che non posso resistere a lungo senza fumare“), può finalmente fuoriuscire dalle labbra di Garrido, parzialmente occupate dalla sigaretta (spenta-accesa, a seconda delle ricostruzioni postume) che tanta importanza avrà, sia pure indiretta, per la risoluzione del caso.

Il black-out elettrico, con la sua oscurità pregna di possibili moventi, per qualche minuto impedisce il prosieguo dei lavori. Torna la luce, che non può fare altro che assistere e propagare l’immagine di un segretario generale morto, ucciso da una pugnalata.

Siamo all’indomani della dittatura franchista. Da poco tempo il Partito Comunista è uscito dalla clandestinità “per dare l’assalto al cielo” (Marx) della democrazia. Gli equilibri sono delicati. C’è una corrente del partito, affascinata dagli incantamenti sovietici, che vede di cattivo occhio l’eurocomunismo di Garrido. C’è chi propugna, invece, un accordo con i socialisti. Chi, infine, ritiene opportuno che il partito faccia proprie le istanze del sindacato, sua naturale cinghia di trasmissione.

Senza contare, ovviamente, il KGB, la CIA, il franchismo internazionale, che avrebbero mille motivi – anche solo per fini destabilizzanti – per volere la morte del segretario generale del partito comunista.

Eppure… porta chiusa dall’interno: l’assassino è membro del Comitato Centrale.

Le indagini vengono affidate “agli occhi acquosi senza palpebre” di Fonseca, un poliziotto che all’epoca di Franco guidava la feroce repressione agli oppositori del regime.

Santos Pacheco, numero due del partito, per il quale la Storia ci ha impedito (ai comunisti, ndr) la normalità, nel bene o nel male siamo sempre stati eccezionali, ottiene dal Governo che venga condotta, parallelamente a quella di Fonseca, un’altra indagine. Affidata questa volta a Pepe Carvalho, detective con alle spalle una militanza nel Partito Comunista clandestino spagnolo.

E lo stesso, raffinato gourmet Carvalho, immalinconito al pensiero di lasciare l’europea Barcellona per Madrid “che ha dato ai beni cultural-gastronomici della nazione soltanto un lesso, una frittata e una trippa”, si sfoga bruciando l’ennesimo libro; pratica insolita, quest’ultima, avviata contestualmente alla fine della sua carriera di compratore-lettore; precisamente, “dal giorno in cui si era sorpreso schiavo di una cultura che lo aveva separato dalla vita, (…) che aveva alterato la sua sentimentalità come gli antibiotici possono distruggere le difese dell’organismo”.

L’ottimo investigatore, tra ricerche spasmodiche di piatti “come Dio comanda”, torture fisiche e psicologiche da parte di agenti difficilmente collocabili, e donne dal fascino conturbante, riuscirà a scoprire l’assassino grazie a un particolare “illuminante”.

L’ambientazione dell’assassinio (la stanza delle riunioni del Comitato Centrale, chiusa dal di dentro, che ospita centoquaranta persone), a differenza di quell’altra celeberrima dell’Orient Express di Agatha Christie (anche in questo caso, difatti, vi è un ambiente, quello del treno, isolato dall’esterno soprattutto per la neve), è ben lontana dal suggerire quelle complicazioni psicologiche dei personaggi mirabilmente create dalla scrittrice inglese.

La trama del libro sembra volutamente mantenersi ai margini di una storia che sarebbe pure interessante per soffermarsi, piuttosto, sui reduci di un partito le cui tensioni ideali non hanno tardato a sciogliersi nella liturgia. Una formazione politica nella quale, come dice Santos nella sua lettera finale, “gli dei sono morti” e sono rimasti solo i sacerdoti, avviluppati nel loro stucchevole cerimoniale di corte.

Abbastanza confuse, poi, appaiono le motivazioni e l’appartenenza degli agenti interessati alla soluzione del caso, che verranno a scontrarsi – più o meno bruscamente – con il nostro investigatore.

Infine, non si può non rilevare un sarcasmo, in alcuni casi del tutto fuori luogo perché esasperato, di Pepe Carvalho anche in situazioni (ad esempio di fronte ai torturatori e a rischio di inasprire le loro pratiche d’interrogatorio) che presupporrebbero maggiore cautela.

Da un punto di vista stilistico, la scelta di non suddividere il romanzo in capitoli mina alquanto l’attenzione del lettore, così come i continui e improvvisi flashback appaiono, per l’appunto, troppo repentini per essere colti immediatamente. Per di più, non vengono opportunamente isolati o comunque differenziati dal normale andamento della storia.

In conclusione, malgrado il nostro Camilleri abbia scelto di chiamare il protagonista dei suoi polizieschi Montalbano, in ossequio, per l’appunto, allo scrittore spagnolo Montalbàn, diciamo che, almeno per questo romanzo… “Troppa grazia, sant’Antonio!”

Il sagace Montalbano di Camilleri, infatti, ci appare ben più accattivante del Pepe Carvalho di Montalbàn, con il quale ci sembra avere in comune esclusivamente la passione per il cibo. E anche sotto l’aspetto culinario, preferiamo grandemente la pasta “Al nivuru di siccia” e gli arancini della cammarera Adelina alle trippe e alle salsicce catalane ben tartufate di Pepe Carvalho.

martedì 28 ottobre 2014

Il Paolo Conte di "Snob"

Il Paolo Conte di “Snob”: forse, mai come questa volta, davvero “Con quella faccia un po’ così/quell’espressione un po’ così…”

E come poteva essere altrimenti? Ti guarda, dallo sfondo nero della copertina del nuovo CD,  come “l’uomo scimmia” che, nonostante tutto, davvero non “capisce il motivo”; come il “camionero sensible” (“peruviano mixto Andaluz”), bisognoso del manuale di conversazione (traccia n. 13) per potersi intendere con la bella africana che, con “intenzion cavalleresca” fa salire sul suo camion.

Già, proprio un manuale di conversazione per permettere al Maestro di farsi intelligere dalla musica, troppe volte stracciona (“Oggi si fanno canzoni con solo 2 -3 accordi, cosa che, ai miei tempi, era inconcepibile”), del nostro presente.

A rompere la classicità della foto di copertina, lo “Snob” amaranto posto in basso a destra. Proprio “snob”, “sine nobilitate“, come gli studenti di Cambridge definivano chi non apparteneva al mondo universitario. E, come volevasi dimostrare, Paolo Conte non può appartenere all’università (musicale) del contemporaneo. A rimarcarlo, qualora ce ne fosse bisogno, basterebbe far riferimento alla presentazione dell’album uscito il 14 ottobre: ai salotti paludati delle emittenti TV, alle frequenze psichedeliche delle radio, il Maestro ha preferito… la cantina. Sì, proprio così: il nuovo cd è stato presentato, al cospetto di una quindicina di giornalisti, nella cantina Rocchetta Tanaro di Asti.

La “vendemmia della cultura“, come qualcuno ha felicemente definito l’evento.

Ed eccoli qui i quindici colori, le quindici “interpretazioni di gusto” del vino (supremo) del Maestro.

1) Si sposa l’Africa: due telefonini stregoni (“io non posseggo il telefonino”) s’incontrano e, dopo essersi parlati due volte, decidono di sposarsi.

Nella prima parte, l’Africa antica, dove gli invitati arrivano tra capre e nuvole. Nella seconda, l’Africa moderna, con la terra rossa dei campi da tennis: son tutti soci di Wimbledon.

Musica etnica (fisarmonica “tambureggiante”) corredata dalla voce “tribale” di Conte che ripete il mantra Kunta Kinte;

2) Donna dal profumo di caffè: un sogno, una donna declinata con le virtù del caffè (bevo un caffè da aviatore/che sta ascoltando un motore…).

Suoni onirici e pianoforte “suggestivo”.

3) Argentina: terra d’immigrazione, dove i bastimenti gridano partiamo.

Ne abbiam frustato scarpe a Buenos Aires.

Pianoforte arrembante di malinconia.

4) Snob: le erre arrotate della propria donna fanno temere una simpatia per qualcuno dai tre cognomi. Il provinciale, però, con le sue cose “sostanziose” (parole, cibo), con le canzoni che van ben per i soldati e i muli, la riconquisterà.

Virtuosismi pianistici al limite della classicità.

5) Tropical: le ultime sambe degli anni cinquanta quando le parole bastavan da sole.

Ritmi swing come pennellate di colore.

6) Fandango: ermetismo poetico della statua di luna su lucidi ghiacci.

Atmosfere musicali dark.

7) Incontro: l’uomo incatenato e perduto al cospetto della luce d’amore (gatto d’estate che vaga e insegue un romanzo suo).

Musica “tanghera”.

8) Tutti a casa: c’è una vita nelle strade d’inverno, come nel cuore del protagonista; la stessa vita non comprensibile alla donna che si scalda le gambe davanti ad un falò.

Ballata cantilenante.

9) L’uomo specchio: un uomo che si fa specchio per esprimere la vera, segreta personalità della sua amata.

Intro: connubio d’autore sax-pianoforte. Scampoli d’elettronica.

10) Maracas: ritmo coinvolgente, tra Genova e le Americhe dove vuoi o non vuoi, hanno sorrisi più larghi di noi.

Samba in dialetto (parte finale) genovese.

11) Gente (csidn): occhi, piedi, mani, vite di Gente Che Stava Innamorandosi Di Noi.

Trionfo di chitarra acustica.

12) Glamour: un condor rosso in lingua tedesca.

Voce calda e roca del Maestro.

13) Manuale di conversazione (v. sopra).

14) Signorina Saponetta: la signorina che valzeggia, volteggia e poi marzuccheggia.

Revival musicale dei primi decenni del Novecento.

15) Ballerina: ballerina sei di legno, ma t’insegno io…

Gioco musicale d’antan.

Chapeau, Maestro.

sabato 18 ottobre 2014

“Il dottor Zivago”, di Boris Pasternak

Mai nessun romanzo come Il dottor Zivago ha avuto, suo malgrado, un’importanza esogena, “esterna” almeno pari a quella più propriamente letteraria.

Brevemente: questo libro è stato scritto da Pasternak immediatamente dopo la Seconda Guerra Mondiale e subito rifiutato dall’Unione degli Scrittori Russi.

Pur bandito dal Governo, miracolosamente Il dottor Zivago riesce a oltrepassare i confini sovietici. Viene pubblicato, allora, dalla nostra Feltrinelli (!) in un’edizione diventata giustamente famosa.

Nel 1958 ecco arrivare il premio Nobel per Pasternak. I retroscena di questa assegnazione, però, sono degni della migliore spy story: vengono coinvolti, infatti, servizi segreti pronti a dirottare aerei e a compiere eclatanti operazioni di contraffazione.

In estrema sintesi: il regolamento dell’Accademia svedese prevede, per l’assegnazione del Nobel per la letteratura, che l’opera sia pubblicata nella lingua madre dell’autore. Ora abbiamo appena scritto che la prima pubblicazione del Dottor Zivago si è avuta in Italia. Ergo, il romanzo difetta di un requisito fondamentale.

Come sopperire alla, in altri casi, insanabile mancanza?

Grazie all’aiuto della CIA e dell’Intelligence britannica (!) che riescono ad intercettare la presenza di un manoscritto in lingua russa a bordo di un aereo. Dopodiché, far deviare l’aereo e impossessarsi dell’opera letteraria, è tutt’uno.

A questo punto, non resta che mettere in atto la messinscena con la stessa abilità con cui il Baudolino di Umberto Eco inventa di sana pianta le missive del Prete Giovanni.

Impossessatisi del manoscritto, infatti, i servizi segreti provvedono a fotografarlo pagina per pagina e a pubblicarlo su carta con intestazione russa. Ma vi è di più: addirittura ci si spinge fino a utilizzare le tecniche tipografiche tipiche delle edizioni sovietiche per rendere più verosimile l’opera di mistificazione.

Dopo tutto ciò c’è l’assegnazione, come dicevamo, del Premio Nobel per la letteratura che Pasternak non ritirerà per le minacce, anche di morte oltre che di espulsione dall’amata patria, del KGB.

Ora la domanda sorge spontanea: perché, da un lato, i servizi segreti occidentali si dannano l’anima per favorire l’assegnazione del Nobel a Pasternak mentre, dall’altro, il KGB minaccia addirittura di morte lo scrittore se si presenterà a ritirare l’ambito premio?

Il marxismo è troppo poco padrone di sé stesso per essere una scienza. Le scienze hanno più equilibrio. Il marxismo e l’obiettività? Non conosco corrente che non sia più chiusa in sé stessa e più lontana dai fatti del marxismo (…) Gli uomini di governo (…) fanno di tutto per voltare le spalle alla verità.

Ecco, proprio un brano come questo ci fornisce la spiegazione del perché: da una parte e dall’altra della Cortina di Ferro, si è interessati dal Nobel a Pasternak; comprensibilmente, gli uni per facilitarne l’assegnazione, gli altri per impedirla. Entrambe la parti della commedia comunque, pronte ad utilizzare qualsiasi mezzo per raggiungere lo scopo.

Eppure è lo stesso scrittore che, per chi volesse guardare al di là degli obnubilamenti ideologici, ci dà la linea interpretativa de Il dottor Zivago.

Qui di seguito, ad esempio, uno dei personaggi ne rimprovera aspramente un altro:

Siete un bambino o ci fate? Da dove venite, dalla luna? Avidi parassiti sfruttavano i lavoratori affamati, li facevano faticare a morte, e doveva durare sempre così? E tutte le altre offese, tutte le altre forme di sopraffazione? Possibile che non comprendiate la legittimità della collera popolare, il desiderio di vivere secondo giustizia, la ricerca della verità? O vi sembra che un capovolgimento radicale possa ottenersi attraverso la Duma, per via parlamentare, e che si potesse fare a meno della dittatura?

Per concludere quindi, trattasi di un romanzo che più che criticare la rivoluzione d’Ottobre e il marxismo, ne condanna le degenerazioni e gli eccessi.

Per intenderci, l’annosa querelle tra comunismo reale e comunismo filosofico.

Dopo questa lunga, doverosa premessa “esterna” al romanzo, passiamo alla sua analisi più propriamente contenutistica.

Diciamo subito che se Il dottor Zivago fosse stato valutato unicamente secondo i parametri letterari, probabilmente non avrebbe ottenuto l’insigne riconoscimento. Anche perché Pasternak ha scritto un solo libro e, almeno per quello che mi sembra di ricordare, è difficile che ad uno scrittore, per quanto capace, venga assegnato il Nobel per una sola opera.

Ma qual è la cifra letteraria di questo manoscritto? È un romanzo che, degno figlio della letteratura russa, richiede una lettura costante, giornaliera, tanto è numeroso l’intreccio di storie e personaggi, anche di secondaria importanza, che fanno capolino tra le sue pagine.

Il protagonista, Jurij Zivago, è ottimamente cesellato nella sua “complessità semplice”. Animo complesso perché “diverso” dagli altri personaggi, un uomo nell’astuccio (Cechov) di una profondità di pensiero fuori dal comune; purtuttavia, però, un animo semplice, capace di stanare le esagerazioni deprecabili e le cervellotiche esasperazioni della Rivoluzione e, successivamente, del N.E.P. (Nuova Politica Economica inaugurata da Lenin nel 1921 con parziale ripristino della proprietà privata e del libero commercio).

Il suo controcanto letterario è Larisa Fedorovna (Lara), una ragazza costretta a crescere troppo in fretta a causa delle attenzioni deprecabili dell’avvocato Komarovskij.

Uno scrigno di equilibrio, misura e femminilità che riesce ad aprirsi solo durante la guerra, al cospetto di Jurij Zivago con il quale collaborerà in veste di infermiera.

Ed è proprio la guerra, con la sua dispersione di uomini (il marito di Lara, Pavel Pavlovic, andrà a combattere come partigiano mentre Tonija, la moglie di Zivago si troverà, per diversi motivi, lontana dal suo compagno per buona parte del romanzo)…; dicevo, proprio la guerra con le sue giornate gelide di corpi straziati, attraversata com’è, nella sua dimensione reale oltreché immaginaria, dallo squittio incessante dei topi, a presentarsi come il palcoscenico, tragico e pur ideale, per l’unione di due anime (Zivago e Lara) del tutto complementari.

E poi, come accennavamo, Pavel Pavlovic che, desideroso di diventare finalmente degno della grandezza di Lara, si dedica anima e corpo, anche sacrificando i suoi affetti più cari, all’ideale della guerra; ancora, l’avvocato Komarovskij, la stereotipata figura dell’uomo arrivista e privo di scrupoli; infine la rassicurante normalità di Tonija e le tante, profonde donne che costellano questo romanzo.

A costo di essere prolissi, non si può esimersi dal riportare un altro (l’ultimo) passo del libro, in cui Zivago, rivolgendosi a Lara, dà una definizione originale e illuminante della gelosia:

È strano, mi sembra di poter essere mortalmente geloso soltanto di una persona ignobile, del tutto estranea a me (…). Se un uomo spiritualmente vicino a me, per il quale avessi dell’affetto, amasse la stessa donna che amo io, proverei un sentimento di dolente fraternità con lui, non di contrasto e di avversione. Certo, non potrei dividere con lui, neppure per un istante l’oggetto della mia adorazione, ma sarebbe una sofferenza completamente diversa dalla gelosia, non così accesa e sanguinosa. Lo stesso mi accadrebbe se mi imbattessi in un artista che mi soggiogasse con la superiorità del suo ingegno in opere similari alle mie. (…). Credo che non ti amerei tanto se in te non ci fosse nulla da lamentare, nulla da rimpiangere. Io non amo la gente perfetta, quelli che non sono mai caduti, non hanno inciampato. La loro è una virtù spenta, di poco valore. A loro non si è svelata la bellezza della vita.

Per ciò che attiene allo stile, Pasternak adotta una scrittura che troppo spesso strizza l’occhio alla poesia (non a caso, alla fine del libro, vi sono proprio alcuni componimenti poetici attribuiti dall’autore a Jurij Zivago), e che, in alcuni frangenti, sembra compiacersi oltremodo di sé stessa.

In conclusione, Il dottor Zivago rimane comunque un’opera di capitale importanza per intercettare lo spirito russo del primo Novecento; un romanzo di spessore, con una introspezione psicologica di molti personaggi davvero notevole.

Detto questo, non pensiamo di peccare di lesa maestà quando diciamo che, al cospetto dei “tumultuosi moti interiori” del Guerra e Pace di Tolstoj o della “sfiancante ricerca della propria dimensione” di Delitto e Castigo di Dostoevskij, quest’opera ne esce inevitabilmente ridimensionata.

Ma forse il paragone non è nemmeno giusto. Parliamo, tra l’altro, di due secoli diversi oltreché, ovviamente, di un confronto (ingrato) con due mostri sacri della letteratura mondiale.

giovedì 2 ottobre 2014

"Senza perdere la tenerezza", di Paco Ignacio Taibo II

Pensieri su ‘Senza perdere la tenerezza’ che stava lì, con le pagine ammiccanti, giocando sporco

E già, come diversamente definire un libro che si presenta con un’immagine del Che depotenziata nelle dimensioni (quasi un terzo della copertina) prima di naufragare in un anonimo bianco, così come nella retorica magniloquente dell’abusato Che con Fidel, o, festival del luogo comune, del Guerrillero Heroico di Alberto Korda?

Stava lì, dicevo, quasi timido, sopra lo scaffale del mio “spacciatore di libri ambulante.

“Oddio, l’ennesimo libro sul Che! No, Vincenzo caro, ormai sei adulto, troppo grande per le reminiscenze ginnasiali. E, soprattutto, troppo inserito (e l’iva arretrata sta lì a ricordartelo) per farti ammaliare dal basco del Comandante!”.
Giro, rigiro nella Sierra Maestra di titoli vari. Me lo ritrovo in mano.
Assolutamente contrariato per un altro libro sicuramente “pompato” sul Che, pago e vado via.

Lo porto allo studio. Inizio col dargli qualche scorsa, tra una messa in mora e un atto di citazione.

Quando partecipa come testimone alle nozze di Fernandez Mell (…), lo fa vestito con un’uniforme da battaglia logora e piena di piccoli buchi. <Com’è che sei venuto con quell’uniforme?> gli domanda qualcuno. <È la mia uniforme estiva.>

Poi gli dedico il tempo prima del lavoro e dopo l’ultima pratica.

Durante una riunione della Direzione rivoluzionaria cubana, il Primo ministro aveva domandato (…) se fosse presente qualche “economista” e il Che, che stava dormicchiando, aveva capito “qualche comunista” e aveva alzato la mano.

Ora il lavoro riempie le parentesi della lettura. A tal punto che, nonostante (uno) la mole (ragguardevole), lo finisco in 20 gg.; nonostante (due) le frenetiche fatiche dell’avvocato, la stanchezza se ne va a ramingo su una delle sue tante, amate, mule.

Biografia finalmente “depurata” di un’icona che prima di rifulgere del suo mito si sofferma sull’uomo Ernesto Guevara. E allora scopro, oltre a tutte le qualità già conosciute e apprezzate (l’ossessione per la scolarità dei suoi uomini, il suo impegno a curare anche i nemici, etc.) , che era un tipo “poco igienico”, che la sua eloquenza non era proprio da urlo. Depotenziamento della sua grandezza? No, finalmente resoconto di piccole intemperanze che lo rendono ancora più apprezzabile proprio perché umanizzanti.

Anche lo stile e la grammatica del romanzo, coerenti con quest’impostazione “piana”, che nulla concede all’autoreferenzialità, vuole essere coinvolgente per il contenuto affrancandosi, così, definitivamente dall’epos celebrativo.

Traspare, soprattutto verso la fine del libro, il credo in un comunismo comunque diverso, “altro” da quello russo (che, tra l’altro, dota Cuba di trebbiatrici e macchine agricole di pessima qualità) e un’accettazione mai rassegnata del proprio destino di morte. E comunque, pur nella corruttibilità di qualsiasi organismo umano Ernesto Guevara, ci rivela l’ottimo autore del libro, continua a imperversare nella sua “maledizione”.

“La maledizione del Che”. In che consiste? Semplicemente nella convinzione, radicata soprattutto in Bolivia e corredata da una casistica a dir poco inquietante per la sua frequenza, che le numerose morti, uccisioni e disgrazie cui sono rimasti vittima i nemici di Che Guevara, siano attribuibili proprio alla colpa di quest’ultimi di essersi messi di traverso al suo messaggio di redenzione (laica, ma pur sempre redenzione).

Che aggiungere, al proposito? Sarebbe opportuno che qualche politico salernitano “piagnone” non definisca più il Che “macellaio”, se vuole evitare  di incappare nella tremenda, annichilente “maledizione del Che”.

Com’è che si dice? Non è vero ma ci credo!

Infine, passando dal faceto al serio, leggendo quest’opera egregia di Paco Ignacio Taibo II, si insinua, anche in noi, il dubbio e la speranza che forse, se le mani di Ernesto Guevara de la Serna non fossero state amputate e fossero sopravvissute alla sua leggenda, la storia universale del comunismo avrebbe potuto seguire dinamiche diverse; uno sviluppo differente, proiezione sì del suo carattere difficile, tremendamente esigente con sé stesso e con gli altri, ma anche di una sconfinata umanità, tenerezza per l’appunto.

Confesso che era da un po’ di tempo che, pur professandomi un buon lettore, non tornavo a casa di sabato sera, alle 3, con la voglia di rinchiudermi in bagno per leggere ancora un’altra pagina. Penso che questo significhi qualcosa. Almeno per me.

lunedì 15 settembre 2014

A Salerno, sostiene una fontana

Questa è la testimonianza di…una fontana! Sì, proprio così, di una fontana. C’è qualche problema? No perché pontificano i ciucci, declamano i volponi, parlano i muri, e quindi non vedo il motivo per cui una fontana, perlopiù di un certo lignaggio vista la sua stretta parentela con il Grand Hotel Salerno, non sarebbe legittimata a parlare.

Basta. Parlano pure le fontane, lo decido io. Lo stesso io che, da cronista democratico (quel che fingo d’essere e non sono), l’ascolta. E raccogliendo la sua esperienza, ve la trasmetto.

La fontana in questione è, dicevo, quella allocata nei pressi del Grand Hotel Salerno, nel piazzale Salerno Capitale.

Orbene, dovendo intervistare una fontana, mi sono abbigliato di conseguenza. Per la precisione, stivali fino al ginocchio e impermeabile a sette strati con cappuccio.

Grande è la mia sorpresa allorché, così “concertato”, ho assistito alla materializzazione di un controsenso: una fontana che non scorre.

<Eh,  per l’appunto. – si lamenta l’intervistata con l’ultimo rantolo di voce che le resta prima di tramutarsi in stagno d’infima specie (acque melmose costellate da barattoli di coca cola, cartoni di pizza, confezioni di preservativi ritardanti , etc., etc..) – E pensare che quando mi hanno comunicato che sarei stata costruita a Salerno, sono zampillata fino all’iperuranio per la felicità.>

<E perché mai, di grazia?>

<Perché? Beh, semplicemente perché è opinione comune che Salerno è la Città Turistica. Ma vi è di più. Fedele al mio scetticismo inveterato, all’epoca, presi pure le dovute informazioni da altri attori del risorgimento architettonico della città. Nella fattispecie concreta, dal Parco Mercatello e dalla Villa Comunale. Ebbene, non ci crederà, ma mi diedero, al proposito, delle rassicurazioni a prova di bomba. A sentir loro Salerno è la manna dal cielo per parchi, ville, rotonde e, soprattutto (sigh!), per le fontane pubbliche. “Pensa che addirittura – ebbe a confidarmi il Parco Mercatello (e ben gli sta che gli hanno prosciugato il corso d’acqua interno, a quell’infame!) – il nostro massimo esponente cittadino lo chiamano ‘A Funtana!”

<Beh, - provo a capire – almeno all’inizio andava tutto bene, no?>

<Benissimo, direi. Sentivo fin nelle particelle d’ossigeno di essere una fontana monumentale, a cascata, disegnata nientepopodimeno che da Bohigas! E quindi, per il periodo immediatamente successivo all’inaugurazione del 2007, piena soddisfazione mia e dei tanto decantati turisti. Fino ad arrivare allo stato in cui sono ridotta adesso. – e qui non può fare a meno di guardarsi abbrutita dal proprio abbandono - Ma io, ormai giunta alla fine dei miei rivoli, mi sono sentita in dovere di fare qualcosa per il prossimo affinché non si ripeta quello che è successo a me. Ho avvertito, infatti, un’opera pubblica che dovrà essere costruita per l’imminente festa di San Matteo…a proposito, - mi guarda tristemente allusiva - sa che anch’io sono stata inaugurata per quell’evento?>

Un brivido di freddo mi corre lungo la schiena. Mi sforzo di non “cogliere”. E, per fortuna, non mi devo impegnare troppo perché lei, da vera signora, non infierisce: <Le dicevo che ho provato a mettere in guardia una struttura in procinto di essere inaugurata, e sa cosa si è permessa di dirmi?>

<Cosa?>

<Non ha trovato di meglio che spiattellarmi sul grugno che sono un’invidiosa e che dico solo bugie. “Non l’hai letta – mi fa con la sua vocina stridula – il sondaggio di Artribune, rivista culturale tra le più importanti d’Italia, in cui Salerno risulta essere la city europea più vivace nel campo dell’architettura?>

<E lei?>

<E che potevo ribatterle? Avrei voluto consigliarle di chiedere informazione, chessoio, alla Fontana di Falcone e Borsellino, alle spiagge imbrattate di rifiuti di Torrione. Ma, probabilmente, sarebbe stato tutto inutile. Il fatto è che…, - e tra la fatica delle sue parole si acquatta l’Eguagliatrice che numera le fosse che reclama la quota d’acqua per rimpolpare l’Acheronte – finché non si capirà che è inutile, se non per la propaganda, inaugurare cinque nuove opere (meglio, parti di opere pronte ad essere interessate da una nuova inaugurazione, e da un’altra ancora) quando non si manutengano dieci di quelle vecchie, ebbene, fino a questo momento, dicevo, Salerno non diventerà mai definitivamente una città turistica. Il saldo, infatti, sarà sempre negativo di cinque unità perché un’opera lasciata all’incuria vale almeno, se non addirittura di meno per il senso di sciatteria civica che s’insinua nel turista, quanto un’opera non realizzata. E poi…>.

A questo punto, da un’auto in corsa, viene lanciato un pacchetto di sigarette che viene a cadere, ironia della sorte, proprio sull’ultimo sbuffo d’acqua, affogandolo del tutto.

Intristito e consapevole di non poter far nulla per rianimare la mia fontana annegata nel sudiciume, me ne vado con la curiosità di quell’ “e poi” che mi rimbomba in testa, suggerendomi suggestivi rimandi; comunque soddisfatto, in fin dei conti, per aver dato voce a quella disgraziata fontana dai natali illustri, nobilissimi e perfetti.
 

 

sabato 6 settembre 2014

Chi ama Napoli?


Il carabiniere al posto di blocco, di qualsiasi regione d'Italia ma anche di Napoli, avverte il freddo del grilletto che gli s'ingigantisce nell'animo.
Lui non ama Napoli perché chi è in servizio a Napoli, con i nervi tesi come lame di rasoio e i sensi pronti a deflagrare al primo barrito di marmitta, si convince che è lì per una colpa da scontare. E non si può amare una città che ti fa sentire colpevole.
Il ragazzo con lo zaino in spalla, asfissiato dalla rassegnazione di persone e strutture, cerca il senso del libro per le vie di fuga dei vicoli bui.
Lui non ama Napoli perché chi studia a Napoli, tra guadagni facili di vie diverse e difficoltà nel declinare la propria dignità, capisce che dovrà cullare i suoi sogni lontano da Napoli. E non si può amare una città che sai già che non avrà scrupoli ad espellerti dal suo seno.
Il disoccupato onesto, che non vuole seppellire la sua intelligenza sotto la coltre di mitra e di morti frantumati in polvere, forza le sue esigenze a pretendere sempre meno.
Lui non ama Napoli perché chi non ha lavoro a Napoli sa che potrebbe trovarlo da qualche altra parte. E non si può amare una città che pretende di tenerti senza lavoro per poi buttarti nel tritacarne dell'espediente.
L'avvocato non calcificato ancora dalla rassegnazione, laureatosi in legge per contribuire ad una società migliore, si scopre a dover chiudere lo studio perché, per quante direzioni possa giustificare la sua coscienza, le rette per giungere al punto devono essere sempre rette, non curve.
Lui non ama Napoli perché chi persegue un briciolo di legge a Napoli, con la conseguenzialità degli articoli e i dogmi dei tribunali, scopre che c'è sempre un amico degli amici al di sopra del diritto. E non si può amare qualcosa che sfugge ad ogni regola.
Il salernitano come me, rincoglionito dalla grandeur di Salerno dei miracoli ad ogni pie' sospinto, costruisce il suo bel muro perché "noi non siamo Napoli" (salvo, poi, inorgoglirsi per la storia, gli artisti, le tradizioni di Napoli).
Lui non ama Napoli perché, a passeggio schifiltoso lungo via Roma o sulla panchina stanca vista Crescent, "io sono di Salerno e a Salerno non abbiamo problemi". E non si può amare una città dalla quale ci si difende.
Chi ama Napoli?
La camorra, il cemento selvaggio, la mala politica, il grasso che deve sempre ungere le stramaledettissime ruote.
Insomma, molti di loro ma anche molta parte di noi.