giovedì 12 marzo 2020

L'assunzione e l'esempio di Troisi


A volte basterebbe un nonnulla per trasformare una legittima aspirazione personale in una battaglia (sindacale, politica, generazionale) collettiva.
Come sappiamo, una delle tre ricercatrici che hanno isolato il coronavirus, Francesca Colavita, per la “vocazione per la ricerca” e per la “lodevole attività professionale”, è stata finalmente premiata: da vergognosa precaria a meritevole “effettiva” allo Spallanzani di Roma.
Tutto giusto, per carità. Immaginiamo però per un attimo, un attimo solo, che la ricercatrice Colavita avesse reagito diversamente all’assunzione propostale; qualcosa del tipo: “Sono lusingata, ma la mia coscienza m’impone, mio malgrado, di rifiutare. La ricerca è stata portata avanti da tre dottoresse rigorosamente precarie: o ci assumete tutte con contratto a tempo indeterminato oppure…”
Come dite? Una cosa del genere si vede solo nei film o si legge esclusivamente in qualche feuilleton d’infima categoria? Eppure io vi dico che vi sbagliate di grosso.
Nel 1978, un allampanato Massimo Troisi fu avvicinato da alcuni funzionari della Rai. Gli proposero di farlo debuttare in televisione, nello specifico all’interno del programma che avrebbe costituito la fucina per eccellenza della comicità italiana: “No Stop”. A una sola condizione, però: che fosse disposto, senza colpo ferire, ad abbandonare i suoi amici d’infanzia nonché colleghi Enzo De Caro e Lello Arena.
Un dirigente Rai presente alla scena ha sempre dichiarato che la reazione di Massimo fu di una naturalezza sconvolgente: “Cioè io solo senza i miei compagni? No, io vi ringrazio, ma…nun se n’parla proprio. O tutt’e tre, o nisciuno.”
Morale della favola, il trio “La Smorfia” è stata una delle novità più originali, belle e seguite mai apparse in televisione.
Tornando alla nostra vicenda d’attualità, c’è da rilevare anche un altro aspetto: probabilmente, se la dottoressa Colavita si fosse comportata come il rimpianto Massimino, in ogni caso ne sarebbe uscita vittoriosa: se fosse stata assunta insieme alle altre colleghe, infatti, avrebbe lottato e vinto per sé e per le altre, oltre a ricavarne una pubblicità (positiva) di enorme valore; se, viceversa, i dirigenti dello Spallanzani fossero rimasti fermi nel loro aut aut, al momento sarebbe ancora precaria ma il polverone (anche mediatico) che si sarebbe alzato, avrebbe indotto qualche altro prestigioso istituto di ricerca ad assumere lei e pure le altre tre colleghe.
A volte occorrerebbe prendere le distanze dal proprio “particulare” per riportare una vittoria che trasudi riscatto.

mercoledì 11 marzo 2020

Dalla Libia a Giovi



In Libia, ma potrebbe essere in qualsiasi altro posto del mondo. Io so che tu non dirai di più. Tu sai che io non chiederò altro.
Le missioni militari e la sensibilità dell’amico c’impongono la consegna del silenzio.
E nelle sporadiche dirette whatsapp, tra gli equilibrismi di Al Sarraj, l’invito a cena appena torni a Giovi, gli appetiti di Erdogan, il provino di calcio di tuo figlio, si arriva al consueto, divertito punto morto: “sei il solito comunista.”
Un altro paio di minuti in cui tu mi rinfacci di aver comunque fatto il militare e io che giustifico la mia naja con un improbabile soldato alla Thomas Sankara, che il tempo ci porta sottobraccio verso l’arrivederci.
Ormai ho imparato a riconoscere tutte le gradazioni dei tuoi silenzi. Ora, per esempio, ti sei zittito non appena hai accennato all’ultimo incontro con la popolazione locale. Io ho capito. La tua pausa trasuda rispetto per la dignità di quella povera gente martoriata. Taccio anch’io, ristabilendo quell’intesa atona che stupiva i nostri compagni delle elementari, tanto da farci guadagnare il soprannome di “yogurt alla banana”. Io banana, tu yogurt, questo me lo ricordo bene, ma fermati qui, non chiedermi l’aneddoto che ci avrà affibbiato questi strambi nomignoli. Mi costa troppa fatica ammettere di non rammentarlo più.
È proprio vero: la vita, a volte, è un fiume carsico. Si inabissa, segue vene così contorte e ramificate che ormai lo dai per perso, fino a che…puffete: te lo vedi ricomparire davanti, rigoglioso e rassicurante come se non avesse mai deviato di un millimetro dal tuo cammino.
La mia università, il tuo arruolamento. La tua famiglia, la mia instabilità. La tua parola inquadrata come recluta al C.A.R., le mie promesse infiacchite dalla professione. Poi, qualche anno fa, ci siamo ritrovati. Ci siamo riannusati per saggiare gli sconvolgimenti del tempo. Abbiamo abbozzato un sorriso soddisfatto: malgrado qualche inevitabile cambiamento, ‘sta vitaccia non ce l’ha fatta a stranirci. Tu il solito “tra due punti, c’è solo una e una retta”, io il consueto “la retta sissignore, ma una, due curve, no?”
Sorridi. Saluti.
E le folate del tuo ghibli riempiono i miei occhi di sabbia del deserto.
A presto, Augusto Parisi.   

giovedì 5 marzo 2020

Saramago ai tempi del Coronavirus


In “Cecità” dell’immaginifico José Saramago, si racconta dell’improvvisa e singolare cecità che colpisce un’intera cittadina. Gli amministratori locali, allora, per evitare oltremodo il diffondersi del contagio, pensano bene di internare i gruppi di ciechi in vari edifici.
Orbene, l’epidemia in atto serve al premio Nobel portoghese per evidenziare l’indifferenza e l’egoismo del genere umano con alcune, isolate eccezioni, come la moglie del medico: ella, infatti, perfettamente sana, pur di restare accanto al marito e di prendersene cura nell’edificio in cui questi è relegato, si finge cieca.
Fuor di metafora, anche l’impazzimento da Coronavirus paragonabile, almeno per ciò che riguarda l’isteria mediatica, alla cecità di Saramago, ci è utile per mettere in luce l’ingiustizia e l’inumanità di sistemi sanitarie e persone.
Osmel Martinez Azcue, un uomo di Miami appena ritornato dalla Cina con sintomi influenzali, ha avuto l’ardire di richiedere al Jackson Memorial Hospital un tampone per il Coronavirus. Ebbene, tornato a casa, l’amara sorpresa: si è visto recapitare una lettera a firma della sua compagnia di assicurazione che gli chiedeva di sborsare ben 3.270 dollari.
È la sanità americana, bellezza, un sistema, cioè, non universalistico, in gran parte in mano ai privati, a cui ha accesso solo chi dispone di coperture assicurative alte o chi può far fronte di per sé agli ingenti costi delle cure.
Poi ci sono le persone. Come l’autista di un bus di Napoli che, avendo visto una coppia cinese in attesa alla fermata, decide di tirare dritto e di lasciarli a terra tra l’ilarità generale dei passeggeri.
L’epidemia da Coronavirus, come nel romanzo “Cecità” di José Saramago, ci ha fornito anche esempi, pure qui di persone e sistemi, stavolta estremamente positivi.
Il giovane medico di Wuhan, Li Wenliang, che, dopo aver notato le analogie fra sette casi clinici, ha lanciato per primo l’allarme sul Covid-19, pagando con la vita il suo altruismo.
Per ciò che attiene al sistema sanitario, invece, l’esempio felice è fin troppo semplice, non foss’altro perché ce l’abbiamo proprio qui, sotto i nostri occhi: la sanità pubblica italiana che, malgrado alcune lacune, sprechi, inefficienze, nonostante la doppia velocità Nord-Sud, è ancora una delle più “giuste” del mondo.
Sta a noi vigilare per impedirne qualsiasi manomissione, soprattutto in chiave privatistica.
A proposito di “cecità”, quindi, teniamo gli occhi ben aperti sulla sanità pubblica.




sabato 14 dicembre 2019

Amazon, la vicina e la gatta

È la quarta, indebita citofonata di questa settimana. E sì perché la fretta dell’omino delle consegne è sempre troppa: due, tre secondi non si possono perdere per leggere il nominativo giusto cui citofonare.

Ci sono due pulsanti, uno sopra e l’altro sotto, e tanto vale schiacciarli entrambi contemporaneamente: il destinatario della consegna verrà comunque a ritirare il pacco.

Poco importa che quel destinatario non sarò mai io ma unicamente la mia vicina di casa.

Sempre lo stesso siparietto. La doppia citofonata imperiosa. Lo sguardo allarmato all’orologio da parte del corriere un secondo dopo il «c’è un pacco per la signora…». La sua mano libera che tamburella spazientita sulle grate del cancello. L’attimo di sollievo quando la cliente si appalesa. Il risolino tra il soddisfatto e il bramoso di possesso della vicina di casa. Il lancio del pacco con contestuale penna per firmare la ricevuta. Una smorfia di disapprovazione non appena la firma richiede più di due secondi per essere apposta. Il zompo dell’omino nel furgone vecchio quanto il crucco. La partenza a razzo. Il fumo zavorrato dalle particelle inquinanti.

Altro giro, altra corsa, necessariamente in ritardo sulla tabella di marcia del consumismo.

Stavolta, però, il rituale ha subito una spiacevole variante.

Nella foga di scappare via incontro all’ennesimo bisogno compulsivo d’acquisto, il furgone si è trovato a tu per tu con la colonia di gatti del condominio.

L’Inps (così soprannominato perché fin da piccolo ha sempre avuto qualche acciacco), Ipazia (gatta nera che richiama le fiamme del rogo sul quale fu immolata la brillante, omonima matematica) e gli altri felini della combriccola, hanno schivato il furgone alienato.

Amazzone, che poi è la micia preferita dalla mia vicina, pure, ma mentre si cimentava in un triplo avvitamento per scansare il copertone invasato, è finita contro una ringhiera, procurandosi qualche leggera ammaccatura.

Mi sono precipitato a prestarle soccorso.

Quando ho spiegato alla mia vicina che Amazzone era stata vittima di…Amazon, mi ha giurato che non avrebbe fatto più acquisti on-line.

Proprio oggi, però, a distanza di un paio di settimane dall’incidente che ha coinvolto la sua amata gattina, un altro omino delle consegne ha ripreso a schiacciare entrambi i pulsanti del citofono, ovviamente all’unisono.

Amazon ha sconfitto, nell’ordine: le imprecazioni del papà della mia vicina contro gli acquisti on-line che gli avrebbero fatto chiudere bottega; la sua partecipazione ai venerdì del Friday For Future che, tra l’altro, imporrebbero una limitazione negli spostamenti delle merci; la paura che, dopo la povera Amazzone, qualche altro gatto potesse essere asfaltato dalle ruote del cabinato delle consegne.

Amazon omnia vincit.