Mi cercavate, sono qui.
Sono io il Covid-19. Ma sono stato anche la peste nera, la spagnola, l’asiatica, l’influenza di Hong-Kong, la pandemica H1N1.
Sono la cattiva coscienza dell’uomo, il grumo nero che ne ammorba le frattaglie, la filigrana che si dispone a cappio alla giugulare dell’umanità.
Sono il profitto che pianta il vessillo sul sangue dell’ultimo, l’isola pedonale che vomita piastrine plastificate da discount, il superfluo che dissecca la vena del necessario.
Sono l’imprevedibile che interseca le parallele, l’imponderabile che confonde i torti e le ragioni, l’onnipresente che moltiplica laddove la medicina sottrae.
Sono generato e non creato, della sostanza dei vostri antibiotici, dei vostri “dovremmo”, dei vostri “ma c’è prima…”. E sì perché c’è sempre un “conveniente” prima di un “giusto”, un interesse prima di un obbligo, un cornicione prima del salto nel vuoto.
Sono nel vostro disgusto al solo scorgere un muso giallo mangiapipistrelli. Sono nelle vostre 100 mascherine acquistate a peso d’oro e nel “peggio per i poveri cristi che non ce l’hanno!”. Sono nelle vostre valigie che si accalcano febbricitanti lungo il corridoio del Milano-Salerno. Sono nei vostri strafottenti drink collettivi mentre la tazzina di caffè riflette sulla sua solitudine. Sono nel vecchio raggrinzito che sputa in faccia al camice bianco perché l’attesa si protrae troppo. Sono nella “immunità di gregge” dello scalcagnato Boris Johnson e nel “complotto democratico” dell’improponibile Donald Trump.
Non ci sono più, invece, in quell’infermiera estenuata che reclina il capo sulla tastiera del pc. Non ci sono più nello sforzo volontario che porta medicinali e generi di prima necessità agli anziani e agli immunodepressi. Non ci sono più nel siero e nelle attrezzature recanti la doppia bandiera cinese e italiana.
Nell’etere della mia inconsistenza, osservo il genere umano dall’alto. La cosa certa, in questo pomeriggio da centro cittadino finalmente respirabile, è che io andrò via. Tra venti giorni o tra un paio di mesi, tra diecimila o centomila morti, per me non fa alcuna differenza.
La cosa altrettanto certa è che quando ritornerò, sicuramente sotto altre spoglie, troverò ad attendermi gli stessi uomini, uguali sistemi, identici strabismi.
O no?
Sono io il Covid-19. Ma sono stato anche la peste nera, la spagnola, l’asiatica, l’influenza di Hong-Kong, la pandemica H1N1.
Sono la cattiva coscienza dell’uomo, il grumo nero che ne ammorba le frattaglie, la filigrana che si dispone a cappio alla giugulare dell’umanità.
Sono il profitto che pianta il vessillo sul sangue dell’ultimo, l’isola pedonale che vomita piastrine plastificate da discount, il superfluo che dissecca la vena del necessario.
Sono l’imprevedibile che interseca le parallele, l’imponderabile che confonde i torti e le ragioni, l’onnipresente che moltiplica laddove la medicina sottrae.
Sono generato e non creato, della sostanza dei vostri antibiotici, dei vostri “dovremmo”, dei vostri “ma c’è prima…”. E sì perché c’è sempre un “conveniente” prima di un “giusto”, un interesse prima di un obbligo, un cornicione prima del salto nel vuoto.
Sono nel vostro disgusto al solo scorgere un muso giallo mangiapipistrelli. Sono nelle vostre 100 mascherine acquistate a peso d’oro e nel “peggio per i poveri cristi che non ce l’hanno!”. Sono nelle vostre valigie che si accalcano febbricitanti lungo il corridoio del Milano-Salerno. Sono nei vostri strafottenti drink collettivi mentre la tazzina di caffè riflette sulla sua solitudine. Sono nel vecchio raggrinzito che sputa in faccia al camice bianco perché l’attesa si protrae troppo. Sono nella “immunità di gregge” dello scalcagnato Boris Johnson e nel “complotto democratico” dell’improponibile Donald Trump.
Non ci sono più, invece, in quell’infermiera estenuata che reclina il capo sulla tastiera del pc. Non ci sono più nello sforzo volontario che porta medicinali e generi di prima necessità agli anziani e agli immunodepressi. Non ci sono più nel siero e nelle attrezzature recanti la doppia bandiera cinese e italiana.
Nell’etere della mia inconsistenza, osservo il genere umano dall’alto. La cosa certa, in questo pomeriggio da centro cittadino finalmente respirabile, è che io andrò via. Tra venti giorni o tra un paio di mesi, tra diecimila o centomila morti, per me non fa alcuna differenza.
La cosa altrettanto certa è che quando ritornerò, sicuramente sotto altre spoglie, troverò ad attendermi gli stessi uomini, uguali sistemi, identici strabismi.
O no?