Il grado di
maturazione del frutto ha scelto il suo raccoglitore. Mi sarebbe bastato
accontentarmi di arance meno aspre per avere la comodità di riceverle a casa
senza pagar pegno. E invece, quest’anno, ho deciso di piantare i piedi per
terra. Voglio fare incetta di spremute e allora…«le vuoi “arraggiate”come il
fiele? E vai va’, vattele a raccogliere tu!».
È troppo
tardi per raggiungere un compromesso. Il guanto di sfida è stato lanciato.
Eccomi qui,
quindi, in precario equilibrio sullo scaletto, mentre riempio le due cassette
più che sufficienti a raccogliere la provvista di quest’anno.
Nonostante
il vento freddo che, a tratti, mi puntella i lembi del giubbotto sui rami con
cristalli acuminati di gelo, il lavoro è ormai giunto al termine: zac, e altre
due arance alla mia sinistra guadagnano il fondo della cassetta; zic, e pure il
frutto qui a destra collassa tramortito nel contenitore ben posizionato a
intercettarne la caduta.
Mi guardo
intorno. Porto, infine, lo sguardo in alto: lavoro concluso in poco tempo e in
maniera completa.
Sto scendendo
dalla scala quando, a un metro sopra la mia testa, in posizione defilata,
esplode uno spicchio d’arancio parzialmente occultato da un nugolo di
foglioline verdi.
Rimonto su,
tendo il braccio, impugno le forbici…niente, riprendo a discendere i pioli
dello scaletto.
Carico le
casse nel cofano della macchina. Prima di andare via, guardo l’albero di
arancio e qualcosa di ancestrale mi dice che è giusto così: un frutto bisogna
sempre lasciarlo sopra la pianta.
Più tardi
sono già in strada, diretto a Rufoli a far visita a un amico. Mentre passo
accanto a un appezzamento di terra, l’arancione custodito chissà fra quali rami
riempie il mio specchietto retrovisore. Inchiodo. Scendo dall’auto. Aguzzo la
vista ed eccolo lì, un unico mandarino, lasciato a far bella mostra di sé sul
ramo più alto della pianta.
Intento a
osservarlo, quasi non mi accorgo del vecchietto che mi passa accanto.
Decido di interrogare
la saggezza popolare: «Buongiorno. Scusate, n’informazione: ma secondo voi,
perché il proprietario là ha lasciato solo un mandarino sopra la pianta?»
Degli occhi
diffidenti spuntano sopra la sciarpa: «Chill è ‘o frutto da devozione. I frutti
– spiega il tizio – si raccolgono tutti, tranne uno: chill ca sta cchiu’ ‘ncopp
‘a pianta. È un omaggio che si fa alla Madonna, sperando che ci metta la mano Sua
e che l’anno prossimo, ‘e sti tiemp, ci doni un raccolto ancora più
abbondante.»
Il
vecchietto va via.
Io sorrido.
C’è qualcosa
negli uomini, che sia quest’ultimo mandarino della devozione o la mia ultima
arancia per la fame del prossimo, che ci rende immortali.
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