lunedì 16 marzo 2020

Il mandarino della devozione


Il grado di maturazione del frutto ha scelto il suo raccoglitore. Mi sarebbe bastato accontentarmi di arance meno aspre per avere la comodità di riceverle a casa senza pagar pegno. E invece, quest’anno, ho deciso di piantare i piedi per terra. Voglio fare incetta di spremute e allora…«le vuoi “arraggiate”come il fiele? E vai va’, vattele a raccogliere tu!».
È troppo tardi per raggiungere un compromesso. Il guanto di sfida è stato lanciato.
Eccomi qui, quindi, in precario equilibrio sullo scaletto, mentre riempio le due cassette più che sufficienti a raccogliere la provvista di quest’anno.
Nonostante il vento freddo che, a tratti, mi puntella i lembi del giubbotto sui rami con cristalli acuminati di gelo, il lavoro è ormai giunto al termine: zac, e altre due arance alla mia sinistra guadagnano il fondo della cassetta; zic, e pure il frutto qui a destra collassa tramortito nel contenitore ben posizionato a intercettarne la caduta.
Mi guardo intorno. Porto, infine, lo sguardo in alto: lavoro concluso in poco tempo e in maniera completa.
Sto scendendo dalla scala quando, a un metro sopra la mia testa, in posizione defilata, esplode uno spicchio d’arancio parzialmente occultato da un nugolo di foglioline verdi.
Rimonto su, tendo il braccio, impugno le forbici…niente, riprendo a discendere i pioli dello scaletto.
Carico le casse nel cofano della macchina. Prima di andare via, guardo l’albero di arancio e qualcosa di ancestrale mi dice che è giusto così: un frutto bisogna sempre lasciarlo sopra la pianta.
Più tardi sono già in strada, diretto a Rufoli a far visita a un amico. Mentre passo accanto a un appezzamento di terra, l’arancione custodito chissà fra quali rami riempie il mio specchietto retrovisore. Inchiodo. Scendo dall’auto. Aguzzo la vista ed eccolo lì, un unico mandarino, lasciato a far bella mostra di sé sul ramo più alto della pianta.
Intento a osservarlo, quasi non mi accorgo del vecchietto che mi passa accanto.
Decido di interrogare la saggezza popolare: «Buongiorno. Scusate, n’informazione: ma secondo voi, perché il proprietario là ha lasciato solo un mandarino sopra la pianta?»
Degli occhi diffidenti spuntano sopra la sciarpa: «Chill è ‘o frutto da devozione. I frutti – spiega il tizio – si raccolgono tutti, tranne uno: chill ca sta cchiu’ ‘ncopp ‘a pianta. È un omaggio che si fa alla Madonna, sperando che ci metta la mano Sua e che l’anno prossimo, ‘e sti tiemp, ci doni un raccolto ancora più abbondante.»
Il vecchietto va via.
Io sorrido.
C’è qualcosa negli uomini, che sia quest’ultimo mandarino della devozione o la mia ultima arancia per la fame del prossimo, che ci rende immortali.

sabato 14 marzo 2020

Il Ciliegio di don Ciccillo



Don Ciccillo, a novant’anni suonati, li aspetta.
Fosse stato per lui, si sarebbe fatto portare fuori al balcone fin dalle 6. Quell’intordonuto di Muhammad, però, se non si fanno le 7,30, col cavolo che si butta giù dal letto!
Poco male tanto, all’andata, prima delle 8,30, i ciclisti non passano.
Muhammad lo aiuta ad alzarsi, a lavarsi e a vestirsi; infine, gli prepara la sdraio sul balcone. Oddio, nei giorni ventosi come questo, dovrebbe impedirgli di piazzarsi lì ma…«i soldi te li do io, e tu fai quello che ti dico!».
Autoritario? Macché: don Ciccillo gli vuole, ricambiato, un bene dell’anima a Muhammad. Solo che il vecchio appartiene a una generazione di stenti poco incline ai sentimentalismi.
In ogni caso, come tutte le domeniche è lì, appollaiato sul trespolo della solita visuale: un angolo di tornante che sfocia in un tratto pianeggiante e il suo albero succoso di ciliegie.
Al primo passaggio, ancora freschi di gamba, i ciclisti ignorano la tentazione. Al ritorno, lo sforzo impone il compenso. Ogni ciclista, allora, si sporge appena appena dal muretto a secco, allunga la mano e la ritrae con l’ambita preda.
È un patto tacito: don Ciccillo lascia un albero intero di ciliegie a loro disposizione, i ciclisti ne prendono quel tanto che basta a ritemprare le forze.
Più volte i figli c’hanno provato a raccoglierne i frutti, ma don Ciccillo gliel’ha sempre impedito: «finché campo, le cerase su quell’albero non si toccano.”»
Che vuoi che ne sappiano, infatti, quei mammalucchi dei figli, della gioia che prova quando vede i ciclisti ristorarsi con le sue ciliegie? Solo lui, dall’alto delle mille salite domate, può saperlo.
Stamattina, però, appena sveglio, ha voluto che Muhammad gli aprisse l’armadio. Il giovane badante non si è meravigliato più di tanto della richiesta. Più di una volta, il vecchio don Ciccillo, gli aveva chiesto di portargli il vecchio fucile fuori al balcone.
Nemmeno da giovane aveva mai cacciato alcunché. Lo teneva in casa nell’eventualità che servisse a «sparare nelle cosce a qualche mariuolo».
L’unica novità, ma questo Muhammad non lo poteva sapere, è che stavolta l’aveva caricato.
12,30. Uno, due, cinque ciclisti. Le mani che si protendono verso le ciliegie, la soddisfazione che si dipinge sul volto di don Ciccillo.
All’improvviso, come nel suo delirio, un ciclista sconosciuto, con una pedalata rapace, si ferma. Scende dalla bici. Protende la mano. Coglie due ciliegie, poi otto. Infine, non appagato, salta giù dal muro, impugna il cesto della profezia, e si affretta a riempirlo.
È lui.
Don Ciccillo lo aspetta da almeno un decennio. Intravvede, nelle movenze scaltre, i fanghi tossici che la sua fabbrica scaricherà nel mare, le centinaia di operai che immolerà sull’altare della sua ingordigia.
Finisce di bersi l’ultimo sorso di caffè. Si alza dalla sedia con il vigore della missione da portare a termine. Impugna il fucile. Mira. Spara.
Un solo colpo.
Da quel momento, don Ciccillo, sa che può finalmente abbandonarsi alla morte.

venerdì 13 marzo 2020

4,15, 4 e 17 massimo


4 e 15, 4 e 17 massimo. Anche stanotte. Così è, «né cangia stile.»
C’avevo provato a sottopormi alla tortura cinese del «Porta a porta» con Salvini. Eppure, nonostante avessi collegato ogni neurone agli ondeggiamenti ossequiosi del Bruno nazionale, malgrado mi fossi predisposto a servirmi di tutte le scempiaggine del Matteo «ruspante» a mo’ di scarica elettrica, non c’è stato verso.
A dispetto dell’ora tarda in cui è finito il programma stanotte, come tutte le notti, mi sono svegliato alle 4 e 15, minuto più, minuto meno. Ormai non disturbo nemmeno più la sveglia.
A che serve, infatti, interrompere la sua fase rem azionando il led rosso, quando già so a che ora al mio cervello gli piglia lo sghiribizzo di accomodarsi sulla sedia del regista? Che poi, a dirla tutta, ci starebbe pure che la mente si mettesse ad analizzare la giornata appena trascorsa e quelle ancora da venire a un orario preciso, sia pure insolito. Il problema è un altro: il mio encefalo-regista, avendo una predilezione per il genere horror-apocalittico-distopico, prende spunto dai pensieri, dalle paure di quel cristiano che vorrebbe starsene a russare pancia in su beatamente, e ne crea proiezioni…ovviamente inquietanti.
Morale della favola, occhi sgranati manco avessero visto l’arcangelo Gabriele dell’Annunciazione, e via a un codazzo di pensieri tutti intruppati nel pessimismo cosmico: e il collega che ti tira fuori dal cilindro il cavillo che non solo ti fa perdere la causa, ma che ti fa appioppare anche la condanna alla spese, con conseguente sputtanamento da parte del cliente; e quel leggero bruciore di stomaco che sarebbe naturale conseguenza delle melenzane sott’olio a mezzanotte, ma che si trasforma in un incurabile tumore attecchito lungo le sue pareti come cozza sullo scoglio; e il block notes finito sotto le grinfie di un emulo di Snowden che estrapolerà da qualche appunto il pin pronto ad aprirgli i forzieri del vitale, salvifico centinaio di euro; e quella tenue crepa che, come d’incanto, si estende a tutta la casa, sgretolandone le pareti e facendoti trovare, nudo come un verme, in mezzo alla strada terremotata dell’Ottanta; e l’editore che, dopo aver letto il tuo manoscritto e aver deciso di pubblicarlo, non solo si tira indietro, ma ti spiattella che uno scrittore scialbo come te non l’ha mai incontrato.
Mi fermo qui, ma potrei benissimo continuare.
Più tardi, poi, mi riaddormento e faccio sogni normali, almeno fino alle 4 e 15, minuto più, minuto meno, della notte successiva.
Quando in un futuro lontano, mi deciderò a tirare le cuoia, già so che lo farò alle 4 e 15, 4 e 17 massimo. Poiché, però, mi ricorderò delle preferenze della mente-regista in ordine al genere prediletto, la ciurlerò nel manico: lascerò il mio zibaldone di scritti e speranze a quell’erede che il film delle 4 e 15, 4 e 17 massimo, mi indicherà come il meno adatto a riceverlo.
Sarà lui, certamente, il custode più degno.

giovedì 12 marzo 2020

L'assunzione e l'esempio di Troisi


A volte basterebbe un nonnulla per trasformare una legittima aspirazione personale in una battaglia (sindacale, politica, generazionale) collettiva.
Come sappiamo, una delle tre ricercatrici che hanno isolato il coronavirus, Francesca Colavita, per la “vocazione per la ricerca” e per la “lodevole attività professionale”, è stata finalmente premiata: da vergognosa precaria a meritevole “effettiva” allo Spallanzani di Roma.
Tutto giusto, per carità. Immaginiamo però per un attimo, un attimo solo, che la ricercatrice Colavita avesse reagito diversamente all’assunzione propostale; qualcosa del tipo: “Sono lusingata, ma la mia coscienza m’impone, mio malgrado, di rifiutare. La ricerca è stata portata avanti da tre dottoresse rigorosamente precarie: o ci assumete tutte con contratto a tempo indeterminato oppure…”
Come dite? Una cosa del genere si vede solo nei film o si legge esclusivamente in qualche feuilleton d’infima categoria? Eppure io vi dico che vi sbagliate di grosso.
Nel 1978, un allampanato Massimo Troisi fu avvicinato da alcuni funzionari della Rai. Gli proposero di farlo debuttare in televisione, nello specifico all’interno del programma che avrebbe costituito la fucina per eccellenza della comicità italiana: “No Stop”. A una sola condizione, però: che fosse disposto, senza colpo ferire, ad abbandonare i suoi amici d’infanzia nonché colleghi Enzo De Caro e Lello Arena.
Un dirigente Rai presente alla scena ha sempre dichiarato che la reazione di Massimo fu di una naturalezza sconvolgente: “Cioè io solo senza i miei compagni? No, io vi ringrazio, ma…nun se n’parla proprio. O tutt’e tre, o nisciuno.”
Morale della favola, il trio “La Smorfia” è stata una delle novità più originali, belle e seguite mai apparse in televisione.
Tornando alla nostra vicenda d’attualità, c’è da rilevare anche un altro aspetto: probabilmente, se la dottoressa Colavita si fosse comportata come il rimpianto Massimino, in ogni caso ne sarebbe uscita vittoriosa: se fosse stata assunta insieme alle altre colleghe, infatti, avrebbe lottato e vinto per sé e per le altre, oltre a ricavarne una pubblicità (positiva) di enorme valore; se, viceversa, i dirigenti dello Spallanzani fossero rimasti fermi nel loro aut aut, al momento sarebbe ancora precaria ma il polverone (anche mediatico) che si sarebbe alzato, avrebbe indotto qualche altro prestigioso istituto di ricerca ad assumere lei e pure le altre tre colleghe.
A volte occorrerebbe prendere le distanze dal proprio “particulare” per riportare una vittoria che trasudi riscatto.

mercoledì 11 marzo 2020

Dalla Libia a Giovi



In Libia, ma potrebbe essere in qualsiasi altro posto del mondo. Io so che tu non dirai di più. Tu sai che io non chiederò altro.
Le missioni militari e la sensibilità dell’amico c’impongono la consegna del silenzio.
E nelle sporadiche dirette whatsapp, tra gli equilibrismi di Al Sarraj, l’invito a cena appena torni a Giovi, gli appetiti di Erdogan, il provino di calcio di tuo figlio, si arriva al consueto, divertito punto morto: “sei il solito comunista.”
Un altro paio di minuti in cui tu mi rinfacci di aver comunque fatto il militare e io che giustifico la mia naja con un improbabile soldato alla Thomas Sankara, che il tempo ci porta sottobraccio verso l’arrivederci.
Ormai ho imparato a riconoscere tutte le gradazioni dei tuoi silenzi. Ora, per esempio, ti sei zittito non appena hai accennato all’ultimo incontro con la popolazione locale. Io ho capito. La tua pausa trasuda rispetto per la dignità di quella povera gente martoriata. Taccio anch’io, ristabilendo quell’intesa atona che stupiva i nostri compagni delle elementari, tanto da farci guadagnare il soprannome di “yogurt alla banana”. Io banana, tu yogurt, questo me lo ricordo bene, ma fermati qui, non chiedermi l’aneddoto che ci avrà affibbiato questi strambi nomignoli. Mi costa troppa fatica ammettere di non rammentarlo più.
È proprio vero: la vita, a volte, è un fiume carsico. Si inabissa, segue vene così contorte e ramificate che ormai lo dai per perso, fino a che…puffete: te lo vedi ricomparire davanti, rigoglioso e rassicurante come se non avesse mai deviato di un millimetro dal tuo cammino.
La mia università, il tuo arruolamento. La tua famiglia, la mia instabilità. La tua parola inquadrata come recluta al C.A.R., le mie promesse infiacchite dalla professione. Poi, qualche anno fa, ci siamo ritrovati. Ci siamo riannusati per saggiare gli sconvolgimenti del tempo. Abbiamo abbozzato un sorriso soddisfatto: malgrado qualche inevitabile cambiamento, ‘sta vitaccia non ce l’ha fatta a stranirci. Tu il solito “tra due punti, c’è solo una e una retta”, io il consueto “la retta sissignore, ma una, due curve, no?”
Sorridi. Saluti.
E le folate del tuo ghibli riempiono i miei occhi di sabbia del deserto.
A presto, Augusto Parisi.