lunedì 11 maggio 2020

"Canone inverso", di Paolo Maurensig

Un gentiluomo si vede recapitare un pacco all'albergo in cui alloggia. Sa già cosa contiene l'involucro: un preziosissimo violino di Jacob Stainer (uno dei più apprezzati liutai tirolesi del '600) che si è aggiudicato a un'asta di strumenti musicali per una cifra più bassa rispetto al suo valore intrinseco.
Piccolo particolare dello strumento: una testina antropomorfa intagliata sul cavigliere (...) Si sarebbe detto un mammelucco, dai lunghi baffi spioventi, l'espressione feroce, e la bocca spalancata come in un urlo di dolore o di maledizione.
"Dolore" e "maledizione" che ben presto, l'ospite venuto nella camera d'albergo (uno scrittore in cerca di una storia di musica da raccontare) a prendere atto di una sconfitta (avrebbe potuto e dovuto aggiudicarselo lui, il violino) intreccia in una trama puntellata da note musicali e solitudini acuminate come i freddi inverni del nord.
Una notte, in una taverna, un saltimbanco con violino vende la propria musica al miglior offerente. Dopo un po', si dichiara pronto a imbrigliare la melodia del suo strumento con la richiesta musicale che lo scrittore e musicologo vorrà avanzargli: la Ciaccona di Bach (pezzo difficilissimo) al prezzo di mille scellini.
Una provocazione, senza dubbio, che nessuno strimpellatore di strada avrebbe potuto soddisfare. A meno che sotto le mentite spoglie del musico ambulante non si nascondesse un musicista di indubbio talento. Già, proprio così.
E la impervia Ciaccona non solo viene eseguita, ma addirittura eternata da un violinista di prima grandezza.
Quali esperienze traumatiche, quali fallimenti si nascondono nell'animo di chi, per talento, avrebbe potuto calcare i palcoscenici dei teatri più celebri al mondo?
In un'altra notte, davanti a un altro tavolo di un bar, il musicista Jeno Varga si racconta: dall'infanzia povera dove il padre, che prima o poi tornerà con il colbacco ben calzato sulla fronte, la mantellina sulla spalla, in arcione a un baio nervoso, gli ha lasciato un violino in dote, al suo talento musicale che ben presto gli farà spalancare le porte dell'austero e snervante Collegium Musicum; dall'incontro con la travagliata Sophie Hirschbaum che gli ammalierà il cuore, a quello con l'altro da sè collega di studi, Kuno Blau, con la sua grandezza musicale che non può che essere tramandata da geni beffardi, loro sì, verso gli umilissimi natali di Jeno Varga.
Eppure, la posizione del violinista avrebbe dovuto mettere sulla buona strada il lettore un attimino più accorto. A che mi riferisco?
Avete mai riflettuto su quanto sia innaturale la posizione del violinista? Toglietegli lo strumento dalle mani mentre è intento a suonare e guardatelo: quegli arti irrigiditi, quegli occhi semichiusi, quella pronazione dell'avambraccio sinistro e la testa riversa da un lato, non vi ricordano la deposizione dalla croce del Cristo?
E come per ogni croce c'è una testa, così, per ogni melodia, vi è un'imitazione che le si sovrappone progressivamente e fa muovere la voce conseguente in moto contrario alla voce antecedente: il canone inverso, per l'appunto, che viene a unire indissolubilmente le sorti di Jeno Varga a quelle di Kuno Blau.
Sullo sfondo, per tutto l'accattivante romanzo, il filo conduttore della musica ragione di vita che può condurre, in determinati ed estremi casi, anche alla morte. E ciò accade quando il tempo delle marce che apparecchiano l'olocausto mondiale mal si accorda con le atmosfere trasognate del violino.

giovedì 7 maggio 2020

Salerno non è una città per pianoforte

Salerno non è una città per pianoforte. Certo, le iniziative musicali, soprattutto messe in campo dal Conservatorio “Giuseppe Martucci”, non mancano. Ma la mia asserzione , più che ai vari, meritori eventi organizzati anche con il patrocinio del Comune di Salerno, riguarda due parametri essenziali per chi voglia capire quanta cultura pianistica ci sia nella nostra città: le scuole di formazione e i negozi di vendita del pianoforte.
Procediamo per gradi: fino a tre-quattro anni fa, quando mi trovavo in zona, passavo sul trincerone, all’altezza di via Pietro da Eboli, solo per respirare l’aria di solfeggio e per ascoltare le “scale metodiche, tenaci, scorate” della scuola di musica (non ne ricordo manco più il nome) ubicata sopra una filiale di banca.
Più di una volta, quando qualche impegno non era troppo esigente con i miei minuti a disposizione, ho gironzolato sotto il balcone, arricchendo l’animo di ogni nota che l’allievo di turno decideva di regalarmi.
Da qualche anno, via Pietro da Eboli piange una scomparsa. Ovviamente, non della banca che è rimasta lì più indispensabile che mai, ma proprio della scuola di musica a cui mi aggrappavo per disegnare ghirigori di diesis e bemolle che addolcivano le mie pause.
Veniamo al secondo parametro, quello dei negozi di vendita del pianoforte. Alzi la mano il lettore, anche il più distratto, che non abbia notato come all’intersezione tra via Diaz e via Manzo, da qualche anno, l’idra dalle innumerevoli teste del profitto abbia cancellato la presenza di “Napolitano Pianoforti.”
Questo negozio non si limitava solo a vendere pianoforti. Forniva anche personale qualificato per accordare lo strumento oltre che vendere libri di musica.
Uno dei miei primi spartiti che mi fece finalmente mettere le mani sulla tastiera, l’ “Ave Maria” di Schubert, ovviamente in versione semplificata, lo acquistai proprio da “Napolitano Pianoforti.”
Un pomeriggio d’inverno, nonostante la mia arte pianistica sia tuttora appena mediocre, ricordo di aver trascorso in questo negozio più di tre ore a strimpellare il Petrof  marrone e lo Steinway & Sons nero. Allorché scorgevo un smorfia d’impazienza sul titolare del negozio, me ne uscivo con la scusa che stavo cercando la sfumatura di suono che mi avrebbe finalmente convinto ad acquistare un modello piuttosto che l’altro.
Ebbene, quando passo di lì, non posso che considerare la chiusura di “Napolitano Pianoforti” non già come qualcosa che riguarda le vicissitudini di un singolo commerciante, ma, come per la chiusura della “Libreria Internazionale” per ciò che attiene ai libri, un abbrutimento dell’intera città.
Per la cronaca, al posto della storica “Napolitano Pianoforti”, si è aperta un’agenzia immobiliare. Ora, se avete bisogno di acquistare e/o cambiare abitazione, vi basta fare una puntatina qui, in via Diaz, non prima, ovviamente, di aver acceso un mutuo allo sportello in via Pietro da Eboli: nell’altro tempio, quindi, che è sorto sulle rovine di un incommensurabile universo bianco e nero.
Salerno, decisamente, non è una città per pianoforte.

La mascherina di Robertino

Diciamocela tutta: larga parte di noi, a Salerno, in Campania, non ha avuto esatta percezione della pandemia. Al netto delle 360 e passa vittime e dei familiari che quelle morti hanno dovuto piangere (in solitaria), infatti, abbiamo vissuto un po’ il covid-19 nelle retrovie, in trincea; e questo mentre regioni e città del nord hanno visto sfilare nelle proprie strade carovane di camion militari trasformati in urne cinerarie. Io, per esempio, pur attenendomi più o meno scrupolosamente alle disposizioni anti covid, ho avvertito il pericolo di morte da pandemia come Montalbano il rischio di vedersi servire da Enzo il luccio anziché la consueta triglia di giornata: un’eventualità, cioè, alquanto remota.
Tutto questo, fino al 2 maggio scorso. Nello specifico, fino a quando il commissario straordinario all'emergenza coronavirus, dottor Domenico Arcuri, non ha sbandierato in diretta tv le mascherine per i bambini: piccole fibre di poliestere su cui, probabilmente per anestetizzare il senso di costrizione dei pargoletti, sono stati impresse le immagini colorate di eroi ed eroine, animali e fiori.
Nel momento stesso in cui il sorridente commissario mostrava quelle mascherine a favor di telecamera, ho acquisito piena contezza dei disastri causati dal covid-19. La mia mente è andata subito alle mille intemperanze di un bambino nel suo lungo e scostumato approccio con il mondo e con l’altro da sé.
Il toccare, l’annusare, il capitombolare, l’infrattarsi in corpi, selve e straducce. Attività indispensabili, queste ultime, costrette a essere mediate da un ostacolo fisico, la mascherina per l’appunto, e da un altro, non meno invalidante ed estraniante, come il peso dell’apprensione dei genitori.
Al pensare ciò, allora, scaglie di freddo hanno preso in ostaggio la mia spina dorsale. Per un attimo, mi è mancato il respiro. E immediatamente, dalle risacche della mia memoria, è riaffiorato lo sketch di Massimo Troisi in Ricomincio da tre, quando il Gaetano del compianto artista spinge l’impacciatissimo Robertino ad aprirsi alla vita, se vuole evitare che i complessi mentali diagnosticatigli da “mammina” si trasformino in un’orchestra intera che troneggia nel cervello.
Ecco, a immaginarmi come la mamma iperapprensiva di Robertino al cospetto di un mio figlio per evitargli un possibile contagio, proprio non mi ci vedo.
Da figlio, parimenti, al solo pensiero di essere confinato nella torre eburnea del distanziamento sociale, sia pure a difesa dalla pandemia, mi provocherebbe una crisi di rigetto spropositata.
Da padre o da figlio, quindi, implorerei il vaccino con la stessa veemenza con cui il cieco impetra la vista.
Nell’attesa, che tu sia genitore o figlio, non ti resta che accettare le limitazioni a tutela della salute, nostra e degli altri.

venerdì 1 maggio 2020

Giovi all'acqua pazza


Probabilmente sarebbe bastato che l’automedica si fosse parcheggiata di fronte al civico 88 un minuto dopo il passaggio del pullman. E invece, proprio in contemporanea, l’automedica inchioda e il funzionario dell’Asl in tuta lunare è già col dito sul citofono.
Dai finestroni del bus, quindici paia di occhi sgranati intessono collegamenti ostinati tra la croce rossa sullo sportello dell’automedica e il civico 88, tra il civico 88 e la croce rossa. Finché la voce occupante il sedile in fondo a destra non sentenzia: “È la figlia di Cosimo ‘o tratturista. Il virus l’ha presa.”
Il tempo per l’autobus di arrivare all’ultima fermata di Giovi, che sono stati allertati proprio tutti: dal conestabile Bentivoglia “senza il qual non si move foglia”, al monumentale Cicciotto, il mastino di Ciccillo ‘o bllillo.
Qualche bene informato racconterà poi che l’abnorme e contestuale traffico telefonico tra l’avvistamento dell’automedica e il fine corsa del bus, abbia shakerato la mente dei mosconi a tal punto da provocarne il suicidio di massa giù dal Piesco.
Sta di fatto che in men che non si dica, tutto l’albero genealogico di Cosimo ‘o tratturista compresa la fronda occupata nei peggiori bar di Caracas, viene concentrato nel girone dell’isolamento e sorvegliato a vista.
La gente, pur di non transitare nei paraggi del civico 88, ha aggiunto una dicitura in più sull’autocertificazione anti covid-19: necessità di giro largo per “focolare” (sigh!) civico 88.
Si vocifera che una pattuglia avrebbe fermato un autoctono il quale, per baipassare il civico 88, sarebbe sceso a Pastena per poi salirsene per sant’Eustachio, fino a rispuntare a Giovi, giusto 10 metri più in là del luogo incriminato. Ebbene, la fonte compulsata giurerebbe e spergiurerebbe che nessuna multa sarebbe stata elevata all’ambizioso compaesano “per intercessione dell’eccellentissimo Bentivoglia”.
È giunta, altresì, voce che un anonimo studente, in una chat collettiva, abbia avuto l’ardire di obiettare: “Vabbè, ma la figlia di Cosimo ‘o tratturista se l’è buscata perché ha lavorato in farmacia, e quindi anche per noi, mica perché se n’è andata a ballare la lap dance?”. È bastato questo: l’adolescente provocatore s’è trovato subito espulso dalla chat del paese e tacciato di aver contagiato, lui sicuramente paziente zero, la malaccorta fanciulla.
E mentre il conestabile Bentivoglia si mostra preoccupato per il “focolare” (e dagli!) che prende sempre più piede nelle nostre contrade, Margherita ‘a Guasta scuote la testa contrariata: “I giovinastri non credono più a niente, spostano la nervatura del Padreterno, e quello che fa? Dà fuoco alle ossa dei vecchi, più credenti e quindi maggiormente attaccabili dal virùs, per appicciare (nel focolare, ndr) la superbia dei guaglioni”.
Così è se vi pare.

martedì 28 aprile 2020

Rino e la ballata di Renzo


Immaginate di essere un cantautore. Di quelli del sud che, grazie a canzoni apparentemente disimpegnate, in realtà denunciano le malefatte e il nonsense dell’agire dei mammasantissima. Immaginate, vieppiù, di avere trentuno anni nel lontano 1981, quando ripetere «DC/DC/DC…Cazzaniga» ha assonanze troppo allusive per non urtare qualche suscettibilità.
Ecco, dopo aver immaginato tutto ciò, calatevi nei panni del cantautore di cui sopra che si trova all’acme della popolarità.
Prendete questo artista e mettetelo alla guida di una Volvo, sulla via Nomentana, all’incirca alle tre di notte, dopo una serata passata a fare bisboccia con gli amici.
La velocità sostenuta, un malore (?), un camion sull’altra corsia, l’invasione della corsia opposta non si sa bene se da parte del camionista o dell’automobilista, l’incidente.
Immaginate sempre di essere il cantautore che viaggia sulla Volvo. Immaginate ancora di essere soccorso da un’autoambulanza che avrebbe il dovere di condurvi all’ospedale più vicino. Pensate che, per una singolare ipotesi di scuola, su cinque ospedali interpellati (tra cui il San Camillo, il San Giovanni e il Policlinico), tutti e 5 rifiutino, per diversi motivi, di ricoverarvi.
Voi, cantautore di successo, all’alba morite. Immaginate, infine, che nemmeno le vostre spoglie trovano ricetto nel cimitero cittadino.
Fine dell’esercizio di immedesimazione.
C’è una canzone del cantautore di cui sopra, mai pubblicata in alcun album. La canzone è La ballata di Renzo. In questo pezzo, ovviamente scritto prima della morte del suo autore, Renzo fa un incidente sulla via Nomentana. Lo soccorre un’ambulanza. Tre sono gli ospedali contattati. Nella fattispecie, il San Camillo, il San Giovanni e il Policlinico. Manco a dirlo, nessuno dei tre nosocomi accetterà di prestare le cure a Renzo. Renzo muore. Il suo corpo, canterà la voce graffiante del cantautore in cui avrete avuto la pazienza di immedesimarvi, non troverà posto nel cimitero di Roma.
Il cantautore in questione è Rino Gaetano.
Possibile che l’artista irriverente avesse previsto, con una coincidenza a tratti imbarazzante con il Renzo della sua ballata, la propria morte?
Da quasi trentotto anni, qualcuno pensa che tante convergenze tra la realtà e l’arte concentrate in una sola notte, quella della morte di Rino Gaetano/Renzo, siano troppa roba. Anche per chi rifugge dagli odiati complottismi.
«Vedo già la mia salma portata a spalle da gente che bestemmia che ce l'ha con me.»

sabato 25 aprile 2020

L'editing e la grammatica


Mi sono occupato di editing per una piccola casa editrice. Per chi non lo sapesse, l’editing consiste nella revisione contenutistico-formale di un testo prima della sua pubblicazione.
Non vi nascondo che, dilettandomi anch’io di scrittura, fin dal primo momento mi sono imposto di svolgere questa attività in punta di piedi, in maniera, cioè, quanto meno invasiva possibile. So per certo, infatti, che non è mai piacevole, per uno scrittore, assistere alla «manomissione» del proprio libro da parte di uno sconosciuto. È come presenziare alla violazione del proprio microcosmo letterario.
Consapevole di ciò, ho iniziato umilmente la mia attività. Non che non mi siano pervenuti manoscritti validi, beninteso. Molte storie avevano una trama avvincente, anche un taglio «cinematografico» apprezzabile. Laddove, invece, le braccia ben presto si sono stancate di cadere, è sulla grammatica.
Credetemi, e lo dico davvero preoccupato, ci troviamo di fronte a un’emergenza nazionale: abbiamo disimparato a scrivere, questa è la verità. Sarà l’abuso dei social dove ognuno scrive un po’ come crede, l’aver rimpiazzato quasi del tutto la lettura con le serie televisive, l’aver introiettato il mantra becero-capitalistico del «con la cultura non si mangia»; sarà quel che sarà, ma la nostra grammatica viene vilipesa e violentata a ogni piè sospinto anche da chi dovrebbe avere una conoscenza sintattico-grammaticale un filino più strutturata degli altri. Niente da fare. Tanto che, a un certo punto, quando dalla lettura in ordine sparso di una decina di pagine mi rendevo conto che i cedimenti grammaticali erano costanti e rovinosi, passavo direttamente alla bocciatura del testo; con la morte nel cuore, sia chiaro, perché conosco il sacrificio e le aspettative che si condensano nel manoscritto sottoposto all’attenzione di chi fa editing, ma non potevo fare altrimenti. Sovente, infine, mi sono imbattuto in un’altra degenerazione dei tempi moderni: il cedimento alla paratassi; in altri termini, all’abitudine di scrivere senza le subordinate. Ebbene sì, il presente televisivo, e più ancora quello social, hanno bandito le subordinate. Errore gravissimo «perché se includi una subordinata nel discorso, vuol dire che esiste la causalità, la temporalità e la modalità delle azioni. Che esiste la responsabilità.» (Chiara Valerio) Estrometterle, in buona sostanza, significa sottacere la complessità della natura umana.
In conclusione, grazie a questa mia esperienza, ho capito quanto importante sia impegnarci, ognuno per la parte che gli compete, in una lotta senza quartiere a tutela dell’impalcatura della nostra lingua; con la convinzione che scrivere senza una grammatica accettabile, è come danzare Il lago dei cigni con un braccio legato dietro la schiena e gli scarponi militari ai piedi. Semplicemente, non si può.