giovedì 19 marzo 2020

Sono io il Covid-19


Mi cercavate, sono qui.
Sono io il Covid-19. Ma sono stato anche la peste nera, la spagnola, l’asiatica, l’influenza di Hong-Kong, la pandemica H1N1.
Sono la cattiva coscienza dell’uomo, il grumo nero che ne ammorba le frattaglie, la filigrana che si dispone a cappio alla giugulare dell’umanità.
Sono il profitto che pianta il vessillo sul sangue dell’ultimo, l’isola pedonale che vomita piastrine plastificate da discount, il superfluo che dissecca la vena del necessario.
Sono l’imprevedibile che interseca le parallele, l’imponderabile che confonde i torti e le ragioni, l’onnipresente che moltiplica laddove la medicina sottrae.
Sono generato e non creato, della sostanza dei vostri antibiotici, dei vostri “dovremmo”, dei vostri “ma c’è prima…”. E sì perché c’è sempre un “conveniente” prima di un “giusto”, un interesse prima di un obbligo, un cornicione prima del salto nel vuoto.
Sono nel vostro disgusto al solo scorgere un muso giallo mangiapipistrelli. Sono nelle vostre 100 mascherine acquistate a peso d’oro e nel “peggio per i poveri cristi che non ce l’hanno!”. Sono nelle vostre valigie che si accalcano febbricitanti lungo il corridoio del Milano-Salerno. Sono nei vostri strafottenti drink collettivi mentre la tazzina di caffè riflette sulla sua solitudine. Sono nel vecchio raggrinzito che sputa in faccia al camice bianco perché l’attesa si protrae troppo. Sono nella “immunità di gregge” dello scalcagnato Boris Johnson e nel “complotto democratico” dell’improponibile Donald Trump.
Non ci sono più, invece, in quell’infermiera estenuata che reclina il capo sulla tastiera del pc. Non ci sono più nello sforzo volontario che porta medicinali e generi di prima necessità agli anziani e agli immunodepressi. Non ci sono più nel siero e nelle attrezzature recanti la doppia bandiera cinese e italiana.
Nell’etere della mia inconsistenza, osservo il genere umano dall’alto. La cosa certa, in questo pomeriggio da centro cittadino finalmente respirabile, è che io andrò via. Tra venti giorni o tra un paio di mesi, tra diecimila o centomila morti, per me non fa alcuna differenza.
La cosa altrettanto certa è che quando ritornerò, sicuramente sotto altre spoglie, troverò ad attendermi gli stessi uomini, uguali sistemi, identici strabismi.
O no?

mercoledì 18 marzo 2020

Piccolo spazio, pubblicità


«Piccolo spazio pubblicità» è l’intro dell’allusiva «Bollicine» di Vasco Rossi. E proprio il Blasco, dopo aver permesso che le sue «Senza parole» prima, e «Rewind» poi, facessero da colonna sonora allo spot dell’auto del momento targata Fiat, avrà pensato che le canzoni nascono per veicolare sogni e non per pubblicizzare veicoli. E così il cantautore di Zocca non ha più “venduto” alla pubblicità le sue melodie. Gesto, questo del Komandante, sicuramente non scontato, visto che al fascino (soprattutto economico) della réclame hanno ceduto un po’ tutti i cantanti, sia stranieri (i Rolling Stones, Madonna, Bob Dylan, etc.) sia nostrani (tra gli altri, Zucchero, Lucio Dalla, Claudio Baglioni, Giorgia, Ennio Morricone, Ligabue).
Eppure, forse per non dipingere in maniera troppo edificante chi ha fatto di tutto per non volerlo essere nella vita così come nella musica, mi piace pensare altro in ordine al ripensamento della rockstar italiana sulla pubblicità. Mi stuzzica, cioè, l’idea che, oltre alla nobilissima ragione ufficiale del Blasco (la canzone deve vendere sogni e non prodotti), ci sia anche una motivazione più furba e meno romantica.
Mi spiego. Ipotizziamo, solo per un momento, che la Fiat Punto entrata nell’immaginario collettivo del consumatore medio anche grazie alla «Senza parole» del rocker emiliano, si fosse rivelata da subito una ciofeca. Immaginiamo, cioè, che fosse stata l’auto più difettosa della lunga e gloriosa tradizione della casa torinese. Ebbene, potete giurarci, non sarebbe mancato l’automobilista incazzato verso il Blasco che ha contribuito con la sua canzone a indurlo all’acquisto di quella bagnarola.
Se invece l’acquirente della Punto fosse stato un fan dell’artista, sicuramente non ce l’avrebbe fatta a maledirlo, ma comunque si sarebbe risentito verso il suo idolo che ha sponsorizzato un prodotto scadente. Perché, questo è il punto, chi veicola la pubblicità (con la sua immagine, con la voce, attraverso le sue canzoni, etc.) avalla quel prodotto. È come se dicesse: «Garantisco io.»
E mentre in passato, in termini di credibilità, poteva anche convenire al «volto famoso» fare pubblicità, adesso ci andrei un po’ più cauto. Perché? Per un motivo molto semplice. Qualche decennio fa, il prodotto si affermava prima sul mercato grazie alle sue qualità e poi, quando si avvertiva il richiamo della ribalta nazionale, si faceva la pubblicità. Oggi, al contrario, si punta direttamente a conquistare la visibilità con lo spot, troppo spesso anche a prescindere dalla bontà del prodotto. L’ovvia conseguenza, quindi, è che può capitare al volto più o meno noto di fare da garante a un bene intrinsecamente scadente.
Una vocina, da qualche parte: «T”o vvuo’ mettere ‘ncapo…‘int’a cervella che staje malato ancora e’ fantasia? Al tempo d’oggi dove un politico si vota perché è simpatico, la parola data si dispensa come un saluto, tu cianci ancora di “garanzia”, “responsabilità”, etc.?»
Mi rattristo. Penso a Baumann e alla sua «società liquida», e mi faccio un caffè. Forte. Consolatorio.

martedì 17 marzo 2020

Melissa e Vinicio



Non c’è un modo giusto di reagire alle disgrazie. Ancora di più quando il dolore che ci colpisce trancia di netto le nervature della nostra umanità. Eppure ci sono delle persone che trasudano dignità pure nella disperazione più cupa.
Questa riflessione l’ho maturata appena dopo la morte di Melissa. Avrei voluto scrivere di lei subito, sull’onda della commozione per la sua tragica fine. Poi, però, mi sono detto: «Non puoi parlare di Melissa. Non l’hai mai conosciuta.» Ho desistito quindi, ma una parte della mia mente è rimasta vigile sulla vicenda, come se avessi un inspiegabile debito nei confronti della giovane salernitana. Ho letto gli articoli sui giornali. Ho seguito i post degli amici colmi di rabbia e disperazione. Ho assistito al cordoglio di una città afflitta per l’assurda morte di Melissa.
A un certo punto, del tutto involontariamente, ho iniziato a focalizzare la mia attenzione sul padre della ragazza.
Premetto: conosco Vinicio da molto tempo. Abbiamo giocato qualche partita di calcetto assieme e mi ha sistemato, un po’ di tempo fa, un dente ballerino.
Eppure mi sono ben presto convinto di non conoscerlo affatto, nemmeno superficialmente.
E così ho letto i suoi post su facebook. Ho raccolto le sue dichiarazioni sui giornali. Poi, il giorno dei funerali di Melissa, malgrado normalmente accampi mille scuse per non partecipare a simili celebrazioni, qualcosa mi ha obbligato a essere presente lì, in una San Mango gremita, per tributare l’ultimo saluto a Melissa.
Vinicio ha ricordato dal pulpito sua figlia con una sensibilità che mi ha toccato da subito le corde dell’anima. Ci ha reso partecipi del sorriso dei «tutto a posto!» con cui Melissa era solita stigmatizzare le piccole e grandi inquietudini della nostra quotidianità. Ci ha fatto vedere le sue dita emozionate che stringevano i biglietti per la partita dell’amata Juventus. Ci ha svelato la bramosia di una figlia che non può essere incanalata nella palude stagnante della morte. Ecco, a questo proposito, seguendo le suggestioni delle parole del padre, ho soppiantato immediatamente l’immagine statica della palude con quella di un oceano sferzato dai flutti. Già, proprio cosi: l’unico aldilà in grado di incamerare l’energia coinvolgente di Melissa, probabilmente è proprio un guazzabuglio di onde che s’impennano al ritmo delle sue esplosioni di vita.
Il feretro è scivolato via come una nave su un mare di teste fluttuanti. A un certo punto, Vinicio è stato assalito da un nugolo di persone che gli si stringevano attorno, lo baciavano, gli manifestavano in ogni modo il loro cordoglio.
Io non ho avuto il coraggio di avvicinarmi a lui. Non ho avuto la forza di affrontare quel padre che, pur annientato dal dolore, rincuorava lui chi era venuto lì per rincuorarlo ma che non era stato forte abbastanza da portare a termine il suo compito.
Il mio debito verso Melissa è saldato. Oggi posso scrivere di lei perché oggi finalmente la conosco. E conosco Melissa proprio attraverso la dignità e la compostezza di Vinicio, un padre e un uomo di cui la figlia sarebbe stata, ancora una volta, orgogliosa.

lunedì 16 marzo 2020

Il mandarino della devozione


Il grado di maturazione del frutto ha scelto il suo raccoglitore. Mi sarebbe bastato accontentarmi di arance meno aspre per avere la comodità di riceverle a casa senza pagar pegno. E invece, quest’anno, ho deciso di piantare i piedi per terra. Voglio fare incetta di spremute e allora…«le vuoi “arraggiate”come il fiele? E vai va’, vattele a raccogliere tu!».
È troppo tardi per raggiungere un compromesso. Il guanto di sfida è stato lanciato.
Eccomi qui, quindi, in precario equilibrio sullo scaletto, mentre riempio le due cassette più che sufficienti a raccogliere la provvista di quest’anno.
Nonostante il vento freddo che, a tratti, mi puntella i lembi del giubbotto sui rami con cristalli acuminati di gelo, il lavoro è ormai giunto al termine: zac, e altre due arance alla mia sinistra guadagnano il fondo della cassetta; zic, e pure il frutto qui a destra collassa tramortito nel contenitore ben posizionato a intercettarne la caduta.
Mi guardo intorno. Porto, infine, lo sguardo in alto: lavoro concluso in poco tempo e in maniera completa.
Sto scendendo dalla scala quando, a un metro sopra la mia testa, in posizione defilata, esplode uno spicchio d’arancio parzialmente occultato da un nugolo di foglioline verdi.
Rimonto su, tendo il braccio, impugno le forbici…niente, riprendo a discendere i pioli dello scaletto.
Carico le casse nel cofano della macchina. Prima di andare via, guardo l’albero di arancio e qualcosa di ancestrale mi dice che è giusto così: un frutto bisogna sempre lasciarlo sopra la pianta.
Più tardi sono già in strada, diretto a Rufoli a far visita a un amico. Mentre passo accanto a un appezzamento di terra, l’arancione custodito chissà fra quali rami riempie il mio specchietto retrovisore. Inchiodo. Scendo dall’auto. Aguzzo la vista ed eccolo lì, un unico mandarino, lasciato a far bella mostra di sé sul ramo più alto della pianta.
Intento a osservarlo, quasi non mi accorgo del vecchietto che mi passa accanto.
Decido di interrogare la saggezza popolare: «Buongiorno. Scusate, n’informazione: ma secondo voi, perché il proprietario là ha lasciato solo un mandarino sopra la pianta?»
Degli occhi diffidenti spuntano sopra la sciarpa: «Chill è ‘o frutto da devozione. I frutti – spiega il tizio – si raccolgono tutti, tranne uno: chill ca sta cchiu’ ‘ncopp ‘a pianta. È un omaggio che si fa alla Madonna, sperando che ci metta la mano Sua e che l’anno prossimo, ‘e sti tiemp, ci doni un raccolto ancora più abbondante.»
Il vecchietto va via.
Io sorrido.
C’è qualcosa negli uomini, che sia quest’ultimo mandarino della devozione o la mia ultima arancia per la fame del prossimo, che ci rende immortali.

sabato 14 marzo 2020

Il Ciliegio di don Ciccillo



Don Ciccillo, a novant’anni suonati, li aspetta.
Fosse stato per lui, si sarebbe fatto portare fuori al balcone fin dalle 6. Quell’intordonuto di Muhammad, però, se non si fanno le 7,30, col cavolo che si butta giù dal letto!
Poco male tanto, all’andata, prima delle 8,30, i ciclisti non passano.
Muhammad lo aiuta ad alzarsi, a lavarsi e a vestirsi; infine, gli prepara la sdraio sul balcone. Oddio, nei giorni ventosi come questo, dovrebbe impedirgli di piazzarsi lì ma…«i soldi te li do io, e tu fai quello che ti dico!».
Autoritario? Macché: don Ciccillo gli vuole, ricambiato, un bene dell’anima a Muhammad. Solo che il vecchio appartiene a una generazione di stenti poco incline ai sentimentalismi.
In ogni caso, come tutte le domeniche è lì, appollaiato sul trespolo della solita visuale: un angolo di tornante che sfocia in un tratto pianeggiante e il suo albero succoso di ciliegie.
Al primo passaggio, ancora freschi di gamba, i ciclisti ignorano la tentazione. Al ritorno, lo sforzo impone il compenso. Ogni ciclista, allora, si sporge appena appena dal muretto a secco, allunga la mano e la ritrae con l’ambita preda.
È un patto tacito: don Ciccillo lascia un albero intero di ciliegie a loro disposizione, i ciclisti ne prendono quel tanto che basta a ritemprare le forze.
Più volte i figli c’hanno provato a raccoglierne i frutti, ma don Ciccillo gliel’ha sempre impedito: «finché campo, le cerase su quell’albero non si toccano.”»
Che vuoi che ne sappiano, infatti, quei mammalucchi dei figli, della gioia che prova quando vede i ciclisti ristorarsi con le sue ciliegie? Solo lui, dall’alto delle mille salite domate, può saperlo.
Stamattina, però, appena sveglio, ha voluto che Muhammad gli aprisse l’armadio. Il giovane badante non si è meravigliato più di tanto della richiesta. Più di una volta, il vecchio don Ciccillo, gli aveva chiesto di portargli il vecchio fucile fuori al balcone.
Nemmeno da giovane aveva mai cacciato alcunché. Lo teneva in casa nell’eventualità che servisse a «sparare nelle cosce a qualche mariuolo».
L’unica novità, ma questo Muhammad non lo poteva sapere, è che stavolta l’aveva caricato.
12,30. Uno, due, cinque ciclisti. Le mani che si protendono verso le ciliegie, la soddisfazione che si dipinge sul volto di don Ciccillo.
All’improvviso, come nel suo delirio, un ciclista sconosciuto, con una pedalata rapace, si ferma. Scende dalla bici. Protende la mano. Coglie due ciliegie, poi otto. Infine, non appagato, salta giù dal muro, impugna il cesto della profezia, e si affretta a riempirlo.
È lui.
Don Ciccillo lo aspetta da almeno un decennio. Intravvede, nelle movenze scaltre, i fanghi tossici che la sua fabbrica scaricherà nel mare, le centinaia di operai che immolerà sull’altare della sua ingordigia.
Finisce di bersi l’ultimo sorso di caffè. Si alza dalla sedia con il vigore della missione da portare a termine. Impugna il fucile. Mira. Spara.
Un solo colpo.
Da quel momento, don Ciccillo, sa che può finalmente abbandonarsi alla morte.