Tra i Sette Sapienti dell’antichità, ecco che ci si
presenta, con l’immancabile barba rigogliosa e l’altrettanto indefettibile
cipiglio severo, Biante.
Perché mi sia venuto lo schiribizzo di parlarne, è
presto detto.
Biante, il buon Biante, aveva capito
tutto, con circa 2600 anni d’anticipo, della politica, della storia, della fiumana del progresso. Quando, infatti,
gli venne chiesto di dar sfoggio di sapienza con l’incidere, sul frontone del
tempio dell’oracolo a Delfi, un motto, la frase più importante del suo pensiero
lui, senza esitazione alcuna, così scrisse: OI PLESTOI KAKOI (la maggioranza è cattiva).
Una frase che probabilmente lasciò
di stucco gli stessi Sapienti.
<Ma come, – avrà pensato Chilone
(o Talete, a seconda delle versioni), un altro dei Sette Savi che già aveva
provveduto all’incisione della sua, di frase – io scrivo un motto di una
profondità esagerata (“Conosci te stesso”), e questo se ne viene con un’affermazione
che più scontata non si può?>
Ebbene, nessuno dei contemporanei
(alla faccia dei Sapienti!) né, v’è da giurarlo, alcuno di noi ha capito fino
in fondo la portata rivoluzionaria dell’ OI PLESTOI KAKOI.
Io, dal basso della mia mediocrità,
c’ho pensato l’altro giorno e sono giunto a siffatta conclusione.
Campo dell’esperimento: la politica.
Fateci caso: ogni movimento, ogni
partito, ogni moto rivoluzionario, appena sorge e per un certo periodo di tempo
(quando è ancora “a base ristretta” e
fino a quando non diventa “di massa”), il più delle volte, contiene la parte
migliore di quell’idea, di quel cambiamento che si vuole portare nel consesso
sociale. Non appena, però, ci si ingrandisce, allorquando il vertice originario incomincia
necessariamente a lievitare, ecco che gli ideali di partenza iniziano ad
annacquarsi, la dirittura morale ad allentarsi, il credo politico a subire il
fascino del compromesso.
Esempio pratico.
Con la “svolta della Bolognina” del
1989 che diede il via allo scioglimento del P.C.I., ad esempio, il segretario
Occhetto, e più tardi il suo sostituto Massimo D’Alema, giustificarono la
trasmigrazione nel P.D.S. con la necessità di acquisire una “vocazione
maggioritaria”, di abbandonare, insomma, quell’ “angolino (sterile) da perfettini”
che era stato il Partito per buona parte della sua storia (anche nei momenti di
massimo splendore, infatti, c’era sempre la D.C. ad essere primo partito nel Paese).
Tutto vero, tutto giusto. Come
infatti andare contro l’ovvietà che in un Paese democratico, per vincere e
quindi per imporre la propria visione delle cose, è necessario diventare
maggioranza?
Ecco, la maggioranza. E siamo di
nuovo al punto di partenza.
Sulla scorta di questa ossessione
maggioritaria, si è passati, nell’arco di quasi trent’anni, al P.D.S., poi al
P.D., ancora ai D.S., e infine al P.D..
In questa lunga, e per certi aspetti
deprimente cavalcata, si è conquistata la fatidica vocazione maggioritaria. Su
questo, non ci piove. Peccato, però, che si sono a tal punto intorbidati gli
ideali di partenza, così annichilite le
magnifiche sorti e progressive, che il P.D. altro non è, ormai, che un
partito similare della vecchia Democrazia Cristiana.
E che significa questo (qualcuno
potrebbe saggiamente obiettare), che per conservare la purezza dei propri
ideali ci si deve condannare ad essere insignificanti? Che, per restare
coerenti con le proprie idee, non si potrà mai raggiungere quella maggioranza
che sola consente di governare?
Bella obiezione! Il Sapiente Biante,
tetragono alle sirene del potere, direbbe di sì, che è proprio così perchè nel
momento in cui si diventa maggioranza, la negatività inizia ad insinuarsi non solo nel corpo del movimento ma, probabilmente, anche nel suo modus operandi.
E fin qui, ci siamo.