Il nome di Michela Fragolina è stato sicuramente l’argomento
più convincente che avessi mai potuto utilizzare per spingere Dante all’azione.
Quella vicenda ci ha fatto capire, a noi poco più che
sbarbatelli, le difficoltà che avremmo incontrato nei rapporti con il gentil
sesso.
C’è stato un tempo, quantitativamente non troppo lontano
(sette, otto anni prima) ma “ormonicamente” distante anni luce in cui io, Dante
e Totò frequentavamo la parrocchia.
Detta così, non ci sarebbe nulla di strano.
Il fatto è che noi però, non ci limitavamo ad andare a
messa la domenica, a partecipare alle riunioni dell’Azione Cattolica e della Legio
Mariae o a prestare servigi di chierichetto (attività queste, già di per sè
più che sufficienti ad assicurarci la beatitudine). Nossignore. Noi, in
pratica, abitavamo in chiesa. Eravamo le Perpetue onnipresenti di don Esposito.
Assistevamo a tutte le cerimonie liturgiche, timbravamo il cartellino a ogni
processione, sotto il sole e sotto la pioggia; addirittura prendevamo parte ai
ritiri spirituali nei luoghi più impervi e remoti dove l’unica traccia di
civiltà era rappresentata dalla segnaletica stradale.
E tutto questo, manco a dirlo, con somma goduria del prete
e delle fimmine chiesastre, orgogliosi della nostra fervida e
disinteressata vocazione.
Fu una delusione tremenda quindi, tranne che per il mio e
per il padre di Dante, mangiapreti incalliti, venire a conoscenza che la nostra
fede non era né fervida né tantomeno disinteressata.
La verità era che noi tre non perseguivamo il credo religioso,
ma la fede sviscerata in questa Michela Fragolina.
Che Dio, o chi per Lui, ci possa perdonare!
Durante le innumerevoli messe, ci posizionavamo, in base
ad un accordo tacito, in questo modo: uno a destra ( per una sorta di segno
premonitore, il Che non ci era mai capitato, a destra) uno al centro e uno a
sinistra della navata principale.
Lo scopo non troppo celato di questo schieramento, era
quello di verificare, addirittura contare, quante volte la bella Michela,
appollaiata sull’altare nell’intento di nobilitare, con la sua, le voci
sgraziate del coro, avesse guardato a destra, al centro o a sinistra.
Ovviamente, alla fine della funzione, tutti eravamo
convinti che il punto più frequentemente messo a fuoco da Michela fosse, guarda
caso, proprio quello in cui era posizionato il diretto interessato.
Come all’indomani delle elezioni, tutti e tre ci sentivamo
in qualche modo vincitori. E ne avevamo ben ragione. Il fatto è che i criteri
presi in considerazione per attribuire l’ambito primato, erano talmente tanti e
diversi (oltre ai movimenti del capo e degli occhi, degni di considerazione
erano pure l’intensità dello sguardo, il fluttuare sinuoso del corpo in una
direzione piuttosto che in un’altra, etc.), da infondere in ciascuno di noi la
convinzione assoluta di essere finalmente entrati nelle grazie della nostra
musa ispiratrice.
Morale della favola? Noi ci facevamo tutte le celebrazioni
liturgiche, ci scambiavamo accuse di brogli nello spoglio degli sguardi e la
nostra bella (che poi a dirla tutta, tanto bella non era…chissà perché però, ci
se n’accorge sempre dopo!), si mise con un tal Alberto che la chiesa l’aveva
vista solo al battesimo e alla comunione.
Costui, manco a dirlo, spendeva il suo tempo a giocare a
pallone ed a spassarsela con le ragazzine; lo stesso tempo che noi, sepolcri
imbiancati abusivamente ammantati di Ave Maria e Padre Nostro, consacravamo
alla beltà di Michela Fragolina.
Che Dio, o chi per Lui, ci possa perdonare!
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