sabato 18 ottobre 2014

“Il dottor Zivago”, di Boris Pasternak

Mai nessun romanzo come Il dottor Zivago ha avuto, suo malgrado, un’importanza esogena, “esterna” almeno pari a quella più propriamente letteraria.

Brevemente: questo libro è stato scritto da Pasternak immediatamente dopo la Seconda Guerra Mondiale e subito rifiutato dall’Unione degli Scrittori Russi.

Pur bandito dal Governo, miracolosamente Il dottor Zivago riesce a oltrepassare i confini sovietici. Viene pubblicato, allora, dalla nostra Feltrinelli (!) in un’edizione diventata giustamente famosa.

Nel 1958 ecco arrivare il premio Nobel per Pasternak. I retroscena di questa assegnazione, però, sono degni della migliore spy story: vengono coinvolti, infatti, servizi segreti pronti a dirottare aerei e a compiere eclatanti operazioni di contraffazione.

In estrema sintesi: il regolamento dell’Accademia svedese prevede, per l’assegnazione del Nobel per la letteratura, che l’opera sia pubblicata nella lingua madre dell’autore. Ora abbiamo appena scritto che la prima pubblicazione del Dottor Zivago si è avuta in Italia. Ergo, il romanzo difetta di un requisito fondamentale.

Come sopperire alla, in altri casi, insanabile mancanza?

Grazie all’aiuto della CIA e dell’Intelligence britannica (!) che riescono ad intercettare la presenza di un manoscritto in lingua russa a bordo di un aereo. Dopodiché, far deviare l’aereo e impossessarsi dell’opera letteraria, è tutt’uno.

A questo punto, non resta che mettere in atto la messinscena con la stessa abilità con cui il Baudolino di Umberto Eco inventa di sana pianta le missive del Prete Giovanni.

Impossessatisi del manoscritto, infatti, i servizi segreti provvedono a fotografarlo pagina per pagina e a pubblicarlo su carta con intestazione russa. Ma vi è di più: addirittura ci si spinge fino a utilizzare le tecniche tipografiche tipiche delle edizioni sovietiche per rendere più verosimile l’opera di mistificazione.

Dopo tutto ciò c’è l’assegnazione, come dicevamo, del Premio Nobel per la letteratura che Pasternak non ritirerà per le minacce, anche di morte oltre che di espulsione dall’amata patria, del KGB.

Ora la domanda sorge spontanea: perché, da un lato, i servizi segreti occidentali si dannano l’anima per favorire l’assegnazione del Nobel a Pasternak mentre, dall’altro, il KGB minaccia addirittura di morte lo scrittore se si presenterà a ritirare l’ambito premio?

Il marxismo è troppo poco padrone di sé stesso per essere una scienza. Le scienze hanno più equilibrio. Il marxismo e l’obiettività? Non conosco corrente che non sia più chiusa in sé stessa e più lontana dai fatti del marxismo (…) Gli uomini di governo (…) fanno di tutto per voltare le spalle alla verità.

Ecco, proprio un brano come questo ci fornisce la spiegazione del perché: da una parte e dall’altra della Cortina di Ferro, si è interessati dal Nobel a Pasternak; comprensibilmente, gli uni per facilitarne l’assegnazione, gli altri per impedirla. Entrambe la parti della commedia comunque, pronte ad utilizzare qualsiasi mezzo per raggiungere lo scopo.

Eppure è lo stesso scrittore che, per chi volesse guardare al di là degli obnubilamenti ideologici, ci dà la linea interpretativa de Il dottor Zivago.

Qui di seguito, ad esempio, uno dei personaggi ne rimprovera aspramente un altro:

Siete un bambino o ci fate? Da dove venite, dalla luna? Avidi parassiti sfruttavano i lavoratori affamati, li facevano faticare a morte, e doveva durare sempre così? E tutte le altre offese, tutte le altre forme di sopraffazione? Possibile che non comprendiate la legittimità della collera popolare, il desiderio di vivere secondo giustizia, la ricerca della verità? O vi sembra che un capovolgimento radicale possa ottenersi attraverso la Duma, per via parlamentare, e che si potesse fare a meno della dittatura?

Per concludere quindi, trattasi di un romanzo che più che criticare la rivoluzione d’Ottobre e il marxismo, ne condanna le degenerazioni e gli eccessi.

Per intenderci, l’annosa querelle tra comunismo reale e comunismo filosofico.

Dopo questa lunga, doverosa premessa “esterna” al romanzo, passiamo alla sua analisi più propriamente contenutistica.

Diciamo subito che se Il dottor Zivago fosse stato valutato unicamente secondo i parametri letterari, probabilmente non avrebbe ottenuto l’insigne riconoscimento. Anche perché Pasternak ha scritto un solo libro e, almeno per quello che mi sembra di ricordare, è difficile che ad uno scrittore, per quanto capace, venga assegnato il Nobel per una sola opera.

Ma qual è la cifra letteraria di questo manoscritto? È un romanzo che, degno figlio della letteratura russa, richiede una lettura costante, giornaliera, tanto è numeroso l’intreccio di storie e personaggi, anche di secondaria importanza, che fanno capolino tra le sue pagine.

Il protagonista, Jurij Zivago, è ottimamente cesellato nella sua “complessità semplice”. Animo complesso perché “diverso” dagli altri personaggi, un uomo nell’astuccio (Cechov) di una profondità di pensiero fuori dal comune; purtuttavia, però, un animo semplice, capace di stanare le esagerazioni deprecabili e le cervellotiche esasperazioni della Rivoluzione e, successivamente, del N.E.P. (Nuova Politica Economica inaugurata da Lenin nel 1921 con parziale ripristino della proprietà privata e del libero commercio).

Il suo controcanto letterario è Larisa Fedorovna (Lara), una ragazza costretta a crescere troppo in fretta a causa delle attenzioni deprecabili dell’avvocato Komarovskij.

Uno scrigno di equilibrio, misura e femminilità che riesce ad aprirsi solo durante la guerra, al cospetto di Jurij Zivago con il quale collaborerà in veste di infermiera.

Ed è proprio la guerra, con la sua dispersione di uomini (il marito di Lara, Pavel Pavlovic, andrà a combattere come partigiano mentre Tonija, la moglie di Zivago si troverà, per diversi motivi, lontana dal suo compagno per buona parte del romanzo)…; dicevo, proprio la guerra con le sue giornate gelide di corpi straziati, attraversata com’è, nella sua dimensione reale oltreché immaginaria, dallo squittio incessante dei topi, a presentarsi come il palcoscenico, tragico e pur ideale, per l’unione di due anime (Zivago e Lara) del tutto complementari.

E poi, come accennavamo, Pavel Pavlovic che, desideroso di diventare finalmente degno della grandezza di Lara, si dedica anima e corpo, anche sacrificando i suoi affetti più cari, all’ideale della guerra; ancora, l’avvocato Komarovskij, la stereotipata figura dell’uomo arrivista e privo di scrupoli; infine la rassicurante normalità di Tonija e le tante, profonde donne che costellano questo romanzo.

A costo di essere prolissi, non si può esimersi dal riportare un altro (l’ultimo) passo del libro, in cui Zivago, rivolgendosi a Lara, dà una definizione originale e illuminante della gelosia:

È strano, mi sembra di poter essere mortalmente geloso soltanto di una persona ignobile, del tutto estranea a me (…). Se un uomo spiritualmente vicino a me, per il quale avessi dell’affetto, amasse la stessa donna che amo io, proverei un sentimento di dolente fraternità con lui, non di contrasto e di avversione. Certo, non potrei dividere con lui, neppure per un istante l’oggetto della mia adorazione, ma sarebbe una sofferenza completamente diversa dalla gelosia, non così accesa e sanguinosa. Lo stesso mi accadrebbe se mi imbattessi in un artista che mi soggiogasse con la superiorità del suo ingegno in opere similari alle mie. (…). Credo che non ti amerei tanto se in te non ci fosse nulla da lamentare, nulla da rimpiangere. Io non amo la gente perfetta, quelli che non sono mai caduti, non hanno inciampato. La loro è una virtù spenta, di poco valore. A loro non si è svelata la bellezza della vita.

Per ciò che attiene allo stile, Pasternak adotta una scrittura che troppo spesso strizza l’occhio alla poesia (non a caso, alla fine del libro, vi sono proprio alcuni componimenti poetici attribuiti dall’autore a Jurij Zivago), e che, in alcuni frangenti, sembra compiacersi oltremodo di sé stessa.

In conclusione, Il dottor Zivago rimane comunque un’opera di capitale importanza per intercettare lo spirito russo del primo Novecento; un romanzo di spessore, con una introspezione psicologica di molti personaggi davvero notevole.

Detto questo, non pensiamo di peccare di lesa maestà quando diciamo che, al cospetto dei “tumultuosi moti interiori” del Guerra e Pace di Tolstoj o della “sfiancante ricerca della propria dimensione” di Delitto e Castigo di Dostoevskij, quest’opera ne esce inevitabilmente ridimensionata.

Ma forse il paragone non è nemmeno giusto. Parliamo, tra l’altro, di due secoli diversi oltreché, ovviamente, di un confronto (ingrato) con due mostri sacri della letteratura mondiale.

giovedì 2 ottobre 2014

"Senza perdere la tenerezza", di Paco Ignacio Taibo II

Pensieri su ‘Senza perdere la tenerezza’ che stava lì, con le pagine ammiccanti, giocando sporco

E già, come diversamente definire un libro che si presenta con un’immagine del Che depotenziata nelle dimensioni (quasi un terzo della copertina) prima di naufragare in un anonimo bianco, così come nella retorica magniloquente dell’abusato Che con Fidel, o, festival del luogo comune, del Guerrillero Heroico di Alberto Korda?

Stava lì, dicevo, quasi timido, sopra lo scaffale del mio “spacciatore di libri ambulante.

“Oddio, l’ennesimo libro sul Che! No, Vincenzo caro, ormai sei adulto, troppo grande per le reminiscenze ginnasiali. E, soprattutto, troppo inserito (e l’iva arretrata sta lì a ricordartelo) per farti ammaliare dal basco del Comandante!”.
Giro, rigiro nella Sierra Maestra di titoli vari. Me lo ritrovo in mano.
Assolutamente contrariato per un altro libro sicuramente “pompato” sul Che, pago e vado via.

Lo porto allo studio. Inizio col dargli qualche scorsa, tra una messa in mora e un atto di citazione.

Quando partecipa come testimone alle nozze di Fernandez Mell (…), lo fa vestito con un’uniforme da battaglia logora e piena di piccoli buchi. <Com’è che sei venuto con quell’uniforme?> gli domanda qualcuno. <È la mia uniforme estiva.>

Poi gli dedico il tempo prima del lavoro e dopo l’ultima pratica.

Durante una riunione della Direzione rivoluzionaria cubana, il Primo ministro aveva domandato (…) se fosse presente qualche “economista” e il Che, che stava dormicchiando, aveva capito “qualche comunista” e aveva alzato la mano.

Ora il lavoro riempie le parentesi della lettura. A tal punto che, nonostante (uno) la mole (ragguardevole), lo finisco in 20 gg.; nonostante (due) le frenetiche fatiche dell’avvocato, la stanchezza se ne va a ramingo su una delle sue tante, amate, mule.

Biografia finalmente “depurata” di un’icona che prima di rifulgere del suo mito si sofferma sull’uomo Ernesto Guevara. E allora scopro, oltre a tutte le qualità già conosciute e apprezzate (l’ossessione per la scolarità dei suoi uomini, il suo impegno a curare anche i nemici, etc.) , che era un tipo “poco igienico”, che la sua eloquenza non era proprio da urlo. Depotenziamento della sua grandezza? No, finalmente resoconto di piccole intemperanze che lo rendono ancora più apprezzabile proprio perché umanizzanti.

Anche lo stile e la grammatica del romanzo, coerenti con quest’impostazione “piana”, che nulla concede all’autoreferenzialità, vuole essere coinvolgente per il contenuto affrancandosi, così, definitivamente dall’epos celebrativo.

Traspare, soprattutto verso la fine del libro, il credo in un comunismo comunque diverso, “altro” da quello russo (che, tra l’altro, dota Cuba di trebbiatrici e macchine agricole di pessima qualità) e un’accettazione mai rassegnata del proprio destino di morte. E comunque, pur nella corruttibilità di qualsiasi organismo umano Ernesto Guevara, ci rivela l’ottimo autore del libro, continua a imperversare nella sua “maledizione”.

“La maledizione del Che”. In che consiste? Semplicemente nella convinzione, radicata soprattutto in Bolivia e corredata da una casistica a dir poco inquietante per la sua frequenza, che le numerose morti, uccisioni e disgrazie cui sono rimasti vittima i nemici di Che Guevara, siano attribuibili proprio alla colpa di quest’ultimi di essersi messi di traverso al suo messaggio di redenzione (laica, ma pur sempre redenzione).

Che aggiungere, al proposito? Sarebbe opportuno che qualche politico salernitano “piagnone” non definisca più il Che “macellaio”, se vuole evitare  di incappare nella tremenda, annichilente “maledizione del Che”.

Com’è che si dice? Non è vero ma ci credo!

Infine, passando dal faceto al serio, leggendo quest’opera egregia di Paco Ignacio Taibo II, si insinua, anche in noi, il dubbio e la speranza che forse, se le mani di Ernesto Guevara de la Serna non fossero state amputate e fossero sopravvissute alla sua leggenda, la storia universale del comunismo avrebbe potuto seguire dinamiche diverse; uno sviluppo differente, proiezione sì del suo carattere difficile, tremendamente esigente con sé stesso e con gli altri, ma anche di una sconfinata umanità, tenerezza per l’appunto.

Confesso che era da un po’ di tempo che, pur professandomi un buon lettore, non tornavo a casa di sabato sera, alle 3, con la voglia di rinchiudermi in bagno per leggere ancora un’altra pagina. Penso che questo significhi qualcosa. Almeno per me.

lunedì 15 settembre 2014

A Salerno, sostiene una fontana

Questa è la testimonianza di…una fontana! Sì, proprio così, di una fontana. C’è qualche problema? No perché pontificano i ciucci, declamano i volponi, parlano i muri, e quindi non vedo il motivo per cui una fontana, perlopiù di un certo lignaggio vista la sua stretta parentela con il Grand Hotel Salerno, non sarebbe legittimata a parlare.

Basta. Parlano pure le fontane, lo decido io. Lo stesso io che, da cronista democratico (quel che fingo d’essere e non sono), l’ascolta. E raccogliendo la sua esperienza, ve la trasmetto.

La fontana in questione è, dicevo, quella allocata nei pressi del Grand Hotel Salerno, nel piazzale Salerno Capitale.

Orbene, dovendo intervistare una fontana, mi sono abbigliato di conseguenza. Per la precisione, stivali fino al ginocchio e impermeabile a sette strati con cappuccio.

Grande è la mia sorpresa allorché, così “concertato”, ho assistito alla materializzazione di un controsenso: una fontana che non scorre.

<Eh,  per l’appunto. – si lamenta l’intervistata con l’ultimo rantolo di voce che le resta prima di tramutarsi in stagno d’infima specie (acque melmose costellate da barattoli di coca cola, cartoni di pizza, confezioni di preservativi ritardanti , etc., etc..) – E pensare che quando mi hanno comunicato che sarei stata costruita a Salerno, sono zampillata fino all’iperuranio per la felicità.>

<E perché mai, di grazia?>

<Perché? Beh, semplicemente perché è opinione comune che Salerno è la Città Turistica. Ma vi è di più. Fedele al mio scetticismo inveterato, all’epoca, presi pure le dovute informazioni da altri attori del risorgimento architettonico della città. Nella fattispecie concreta, dal Parco Mercatello e dalla Villa Comunale. Ebbene, non ci crederà, ma mi diedero, al proposito, delle rassicurazioni a prova di bomba. A sentir loro Salerno è la manna dal cielo per parchi, ville, rotonde e, soprattutto (sigh!), per le fontane pubbliche. “Pensa che addirittura – ebbe a confidarmi il Parco Mercatello (e ben gli sta che gli hanno prosciugato il corso d’acqua interno, a quell’infame!) – il nostro massimo esponente cittadino lo chiamano ‘A Funtana!”

<Beh, - provo a capire – almeno all’inizio andava tutto bene, no?>

<Benissimo, direi. Sentivo fin nelle particelle d’ossigeno di essere una fontana monumentale, a cascata, disegnata nientepopodimeno che da Bohigas! E quindi, per il periodo immediatamente successivo all’inaugurazione del 2007, piena soddisfazione mia e dei tanto decantati turisti. Fino ad arrivare allo stato in cui sono ridotta adesso. – e qui non può fare a meno di guardarsi abbrutita dal proprio abbandono - Ma io, ormai giunta alla fine dei miei rivoli, mi sono sentita in dovere di fare qualcosa per il prossimo affinché non si ripeta quello che è successo a me. Ho avvertito, infatti, un’opera pubblica che dovrà essere costruita per l’imminente festa di San Matteo…a proposito, - mi guarda tristemente allusiva - sa che anch’io sono stata inaugurata per quell’evento?>

Un brivido di freddo mi corre lungo la schiena. Mi sforzo di non “cogliere”. E, per fortuna, non mi devo impegnare troppo perché lei, da vera signora, non infierisce: <Le dicevo che ho provato a mettere in guardia una struttura in procinto di essere inaugurata, e sa cosa si è permessa di dirmi?>

<Cosa?>

<Non ha trovato di meglio che spiattellarmi sul grugno che sono un’invidiosa e che dico solo bugie. “Non l’hai letta – mi fa con la sua vocina stridula – il sondaggio di Artribune, rivista culturale tra le più importanti d’Italia, in cui Salerno risulta essere la city europea più vivace nel campo dell’architettura?>

<E lei?>

<E che potevo ribatterle? Avrei voluto consigliarle di chiedere informazione, chessoio, alla Fontana di Falcone e Borsellino, alle spiagge imbrattate di rifiuti di Torrione. Ma, probabilmente, sarebbe stato tutto inutile. Il fatto è che…, - e tra la fatica delle sue parole si acquatta l’Eguagliatrice che numera le fosse che reclama la quota d’acqua per rimpolpare l’Acheronte – finché non si capirà che è inutile, se non per la propaganda, inaugurare cinque nuove opere (meglio, parti di opere pronte ad essere interessate da una nuova inaugurazione, e da un’altra ancora) quando non si manutengano dieci di quelle vecchie, ebbene, fino a questo momento, dicevo, Salerno non diventerà mai definitivamente una città turistica. Il saldo, infatti, sarà sempre negativo di cinque unità perché un’opera lasciata all’incuria vale almeno, se non addirittura di meno per il senso di sciatteria civica che s’insinua nel turista, quanto un’opera non realizzata. E poi…>.

A questo punto, da un’auto in corsa, viene lanciato un pacchetto di sigarette che viene a cadere, ironia della sorte, proprio sull’ultimo sbuffo d’acqua, affogandolo del tutto.

Intristito e consapevole di non poter far nulla per rianimare la mia fontana annegata nel sudiciume, me ne vado con la curiosità di quell’ “e poi” che mi rimbomba in testa, suggerendomi suggestivi rimandi; comunque soddisfatto, in fin dei conti, per aver dato voce a quella disgraziata fontana dai natali illustri, nobilissimi e perfetti.
 

 

sabato 6 settembre 2014

Chi ama Napoli?


Il carabiniere al posto di blocco, di qualsiasi regione d'Italia ma anche di Napoli, avverte il freddo del grilletto che gli s'ingigantisce nell'animo.
Lui non ama Napoli perché chi è in servizio a Napoli, con i nervi tesi come lame di rasoio e i sensi pronti a deflagrare al primo barrito di marmitta, si convince che è lì per una colpa da scontare. E non si può amare una città che ti fa sentire colpevole.
Il ragazzo con lo zaino in spalla, asfissiato dalla rassegnazione di persone e strutture, cerca il senso del libro per le vie di fuga dei vicoli bui.
Lui non ama Napoli perché chi studia a Napoli, tra guadagni facili di vie diverse e difficoltà nel declinare la propria dignità, capisce che dovrà cullare i suoi sogni lontano da Napoli. E non si può amare una città che sai già che non avrà scrupoli ad espellerti dal suo seno.
Il disoccupato onesto, che non vuole seppellire la sua intelligenza sotto la coltre di mitra e di morti frantumati in polvere, forza le sue esigenze a pretendere sempre meno.
Lui non ama Napoli perché chi non ha lavoro a Napoli sa che potrebbe trovarlo da qualche altra parte. E non si può amare una città che pretende di tenerti senza lavoro per poi buttarti nel tritacarne dell'espediente.
L'avvocato non calcificato ancora dalla rassegnazione, laureatosi in legge per contribuire ad una società migliore, si scopre a dover chiudere lo studio perché, per quante direzioni possa giustificare la sua coscienza, le rette per giungere al punto devono essere sempre rette, non curve.
Lui non ama Napoli perché chi persegue un briciolo di legge a Napoli, con la conseguenzialità degli articoli e i dogmi dei tribunali, scopre che c'è sempre un amico degli amici al di sopra del diritto. E non si può amare qualcosa che sfugge ad ogni regola.
Il salernitano come me, rincoglionito dalla grandeur di Salerno dei miracoli ad ogni pie' sospinto, costruisce il suo bel muro perché "noi non siamo Napoli" (salvo, poi, inorgoglirsi per la storia, gli artisti, le tradizioni di Napoli).
Lui non ama Napoli perché, a passeggio schifiltoso lungo via Roma o sulla panchina stanca vista Crescent, "io sono di Salerno e a Salerno non abbiamo problemi". E non si può amare una città dalla quale ci si difende.
Chi ama Napoli?
La camorra, il cemento selvaggio, la mala politica, il grasso che deve sempre ungere le stramaledettissime ruote.
Insomma, molti di loro ma anche molta parte di noi.
 

 

venerdì 5 settembre 2014

"Vivere per raccontarla" di G.G.Marquez

Compri un libro del genere, e ti aspetti la genesi e il disvelamento di un talento letterario puro.
C'è anche questo, beninteso, nel romanzo Vivere per raccontarla, ma solo come tassello di uno stupendo in quanto magico mosaico; ancora più magico perché, questa volta, reale. E vieni a scoprire, così, che è reale proprio perché magico, il sacco di ossa dell'antenata che segue gli spostamenti della famiglia; magico perché reale, il quartiere di filo spinato della zona bananiera che in Cent'anni di solitudine "proclamò con bandi solenni l'inesistenza dei lavoratori"; e ancora magico e allo stesso tempo reale il colonnello Marquez che assumerà il nome di Buendia dal personaggio della copertina di un libro.
Poi la povertà, vissuta come un'opportunità, che sembra cullare il talento di Marquez che solo relativamente tardi riesce a conservare qualche "barca a remi" oltre che per la famiglia, anche per sé; e ancora il viaggio sul fiume Magdalena per recarsi al Liceo che, se tutto filava liscio, durava tre settimane ma che non appena iniziavano le piogge torrenziali, poteva prolungarsi anche mesi, tra alligatori sbadiglianti e avvoltoi con occhi di brace.
Gli amici di una vita, la musica al suono del tiple, i reportages giornalistici, i primi racconti.
Gli amori a rischio della vita, i vestiti improbabili che riconquistano la primigenia funzione di stoffe anonime per coprirsi
Il tutto sullo sfondo di una Colombia universo-mondo troppo complessa per esaurirsi in una guerra seguita da una pace; uno stato nello stato che deve nutrirsi del conflitto perenne per far sbocciare la rosa delle proprie contraddizioni.
È questo l'universo di Gabito in cui può orientarsi solo l'anima semplice di un genio della letteratura appesa all'amaca di dieci fratelli e all'ombra di una madre espressione della "grandeur" di tutte le donne.
Questo e tantissimo altro ancora, fino a una lettera spedita che avrebbe dovuto essere il lasciapassare di una nuova vita ma a cui c'è stata la risposta della vita, lì e già.
Un difetto? Paragrafi un po' troppo lunghi.
Da leggere.

 

martedì 26 agosto 2014

La secchiata virale

Eccoci dal ritorno dalle ferie.
<Parla per te, testa di mammalucco, che io sto ancora qui a sollazzarmi l'ombelico in riva al mare!>
<Mmh...> deglutizione di conato di rabbia.
A uno così vorrei far notare (Calma e gesso): a) che anche se ancora in ferie, la mente, ammesso ne abbia in dotazione una, anche di bradipo aterosclerotico, non dovrebbe sforzarsi troppo a riandare al lavoro col vedere la faccia via via più incazzata del gestore del lido; b) che "Verrà un giorno..." - mi sorprendo a profetizzare con l'indice ammonitorio.
Ebbene, dicevo, rieccoci di nuovo saldamente ancorati sulla nave ormai in preda al cuoco di bordo.
La lista delle vivande che ha soppiantato bellamente la rotta prevede, al primo posto, l'ice bucket challenge.
Dopo essermi atteggiato a fine dicitore anglofono (quello che fingo d'essere e non sono), osservo sul punto: le secchiate d'acqua per beneficenza...eh, di questo si tratta. Chest'è, né più né meno.
Quando capirò dove nasce il bisogno di complicarci terminologicamente la vita con l'aggravante, per il caso specifico, dell'ennesima prova di sottomissione alla perfida Albione (oddio, mi scopro sciovinista!), capirò forse anche le mode del momento. Già, proprio di moda si tratta, per quanto riguarda l'ice etc. etc (ah, il latino!).
Dicevo che questa voglia irrefrenabile di buttarsi secchi di acqua gelata in testa (a condizione imprescindibile  di essere rigorosamente ripresi, fotografati, postati...insomma, eternati tecnologicamente) nasce ad inizio agosto. Il primo a sottoporvisi è stato una ex promessa del baseball americano, tale Pete Frates, 29 anni, malato di Sla. L'obiettivo, assolutamente meritorio, è quello, per l'appunto, di raccogliere fondi per la ricerca su questa terribile malattia.
Bene. Quando lo scopo è cosa buona e giusta...! Certo, qualcuno potrebbe obiettare che anche il fine degli americani (quello di avviare a conclusione la Seconda Guerra Mondiale) era cosa buona e giusta quando armarono l'Enola Gay con la bomba atomica ma...non stiamo qui a sottilizzare!
Dunque iniziativa bella, costruttiva, edificante
All'inizio circoscritta a qualcosa come i proverbiali venticinque lettori del Manzoni, poi estesasi anche ai volti noti. E più l'iniziativa cresceva, più i soldi donati aumentavano.
Cosa fatta, capo ha.
Niente di tutto questo (sigh!).
Dopo la partecipazione sincera di chi non aveva bisogno di farsi pubblicità, ecco la disperata salita sul carro mediatico di giocolieri, saltimbanchi, prestidigitatori di cui manco l'archivio di YouTube conserva più memoria.  E ognuno di loro eccolo nominare, in ossequio ad una strategia mediatica pianificata fin nei minimi dettagli, un'altra selva di malati cronici di popolarità. Con l'aggravante che molti di questi, ormai lontani da ere geologiche dal Jet Set catodico, non hanno nemmeno un euro da poter donare (gli ultimi li hanno spesi in qualche clinica psichiatrica alla ricerca disperata del proprio io).
Poco male. Almeno abbiamo concesso l'oro un'altra, forse l'ultima occasione (fino a nuovo tormentone virale) di riaffacciarsi alla ribalta.
Infine c'è il personaggio colto, refrattario ad ogni tendenza modaiola, che fa un video (!) per spiegare che lui no, lui non si sottoporrà al gioco puerile delle secchiate ma che, comunque sensibile come e più degli altri al problema Sla, provvederà a vergare di suo pugno un assegno per la nobile causa.
"Fermati qui".
Lo vedo, sempre nel video, far cenno a qualcuno.
"Fermati qui, ti dico!"
Il qualcuno di cui sopra gli porta un assegno ("Te l'avevo detto di fermarti, bestia che non sei altro!") che lui firma a beneficio di telecamera e di cui, non appena il primo piano è assicurato, mostra orgoglioso l'importo.
Quando dunque fai l'elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade per essere lodati dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Quando invece tu fai l'elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua elemosina resti segreta; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà. (Dal Vangelo secondo Matteo 6,1-6.16-18).
E questa è la storia della degenerazione di un fenomeno ab origine edificante.
E pensare che c'è chi non sceglie di buttarsi l'acqua gelata in testa e pur tuttavia ci cade, con tutto il corpo quindi, nell'acqua...salata, stavolta.
Non c'è, in questo caso, nessun fine meritorio da poter immortalare, postare, riprendere. C'è solo l'ennesima morte da documentare con fastidio.
Ma questa...è un'altra storia.
Buon rientro.
 

 

 
da PensieriParole <http://www.pensieriparole.it/aforismi/politica/frase-24554>

sabato 23 agosto 2014

"L'isola di Arturo" di E. Morante

A distanza quasi di vent'anni, ho voluto riprendere in mano un libro che mi aveva lasciato, in prima lettura, delle sensazioni acerbe.
Inizio a rileggerlo, e le prime pagine sembrano premiare la mia scelta; e ciò sebbene fin dall'inizio ci si imbatta in errori (cosa che non riesco a spiegarmi in una scrittrice inspirata come la Morante) che appaiono essere troppi e troppo gravi per giustificarli con l'assolutoria perifrasi "errori di stampa".
In un primo momento, mi riesco a immedesimare con Arturo Gerace, padrone dell'Isola e purtuttavia anima sola.
Salpato, ormai, oltre le promettenti acque della riva, la disillusione: l'annichilente déjà-vu.
Mi figuro, da qui in avanti, il solito romanzo sdolcinato del figliuol incompreso. Genere, quest'ultimo, ovviamente a me inviso.
Contrariato ("ho riletto un libro per il quale una prima lettura era più che sufficiente!"), continuo, imperterrito e in ogni caso speranzoso, a leggere.
Quando la navigazione è ormai in mare aperto, ecco apparire l'amico del padre di Arturo e, d'incanto, i germi di una prolissa noia si mutano in un accattivante inizio della fine.
La mia adolescenza, per fortuna mai del tutto abbandonatami, l'avverto (ri)prendere il largo da me nel momento stesso in cui Arturo, ormai sul vapore che lo porterà sulle rive di una maturità piena, prega il balio Silvestro di avvisarlo quando finalmente il ventre caldo delle sue estati interminabili sarà inghiottito definitivamente dal mare. Solo in presenza di quell'assenza, infatti, potrà bagnarsi nelle acque di una maturità necessariamente lontana (per sempre?) dall'isola, la sua isola: quella, per l'appunto, di Arturo Gerace.
"Non si descrivono situazioni ma solo passaggi" (Montaigne).