giovedì 24 aprile 2025

10 e non più di 10 #36

     


    La scarpetta le calzava a pennello (...). Era evidente che la scarpetta apparteneva a Cenerentola...

    "...e che avrà avuto un numero di piede 45 o, per converso, 25, per essere attribuita senza tema di smentita a Cenerentola?"

    Seguendo l'istinto, si chinò sulla principessa e le diede un bacio sulle labbra. (...) - Chi siete? Come avete fatto a trovarmi?

    "Certo, dopo aver schiacciato un pisolino lungo un secolo, l'alito della principessa avrà odorato di roselline fresche!"

    Basta: gli anni scontano un inacidito disincanto.

    E allora i ciucci riprendono a volare, le fate a districarsi tra mille incantesimi, la zucca ad acconciarsi a carrozza "de luxe". 



giovedì 17 aprile 2025

"Il Congresso di Vienna 1814-1815" di Guglielmo Ferrero (ed. Corbaccio)

    


     Il Congresso di Vienna viene visto, dall'insigne storico antifascista Guglielmo Ferrero, come la ricostruzione dell'ordine prestabilito dopo l'ubriacatura rivoluzionaria che ha sconquassato l'Europa.

    Tre uomini più di tutti, ognuno a suo modo "bizarro ed enigmatico", hanno liberato la Storia dall'impasse in cui era sprofondata: Alessandro I, zar di Russia, Charles Maurice Talleyrand de Perigord, Luigi XVIII, re di Francia.

    Lo zar Alessandro ha preso l'iniziativa nel 1812. 

    Appena trentacinquenne, Alessandro I capisce che la sua vittoria in patria non avrà alcun valore e che anzi sarà il principio di una guerra senza fine, se non riuscirà a ricostruire il sistema europeo. Tutto giusto, ma ricostruirlo con chi? Innanzitutto con il protagonista dell'intera opera di Ferrero, quel Charles Maurice Talleyrand de Perigord, il grande "irregolare" che aveva sempre servito la Rivoluzione e lo spirito d'avventura ma che era sostanzialmente un epigono (a sua insaputa?) della Ricostruzione. E questo fin da quando, a venticinque anni, a causa di un "piede difettoso", dovette subire la vestizione "suggeritagli" dall'influente famiglia. 

    Con la sua spiccata intelligenza, avrebbe potuto diventare in pochi anni arcivescovo di Parigi. E invece Talleyrand, nove anni dopo, per la sua vita volutamente scandalosa e ribelle alla gerarchia ecclesiastica, è ancora abate. Poi, certo, riesce a diventare vescovo "per segnalazione", ma quasi a voler mettere subito le cose in chiaro, prende moglie nonostante la carica ricoperta. Naturale, quindi, la simpatia per uno spirito ribelle come Napoleone: è stato infatti dapprima ministro del Direttorio, poi del Consolato, infine dell'Impero. Eppure, quando la ragion di Stato lo ha richiesto, non ha esitato a tradire Bonaparte. Tradimento, quest'ultimo, che la posterità non gli ha ancora perdonato, sebbene con questo voltafaccia Talleyrand ha salvato tutta l'Europa, Francia compresa.

    La verità, intuita ben presto dal vescovo che ha rinnegato la Chiesa non appena ha potuto, è che "per ristabilire l'ordine e la pace in Europa bisognava far cessare la gran paura; cioè sostituire alle usurpazioni i governi legittimi", avendo come principio ispiratore quello della legittimità: gli stati sopravvivono solo quando la trasmissione del potere avviene secondo regole collaudate dal tempo e legittimate dalla maggior parte dei cittadini.

    Il terzo personaggio senza il quale gli incastri (più o meno riusciti) del Congresso di Vienna non si sarebbero verificati, è sicuramente Luigi XVIII, re di Francia, chiamato dal suo esilio, che solo poteva far la pace perchè i francesi riconoscevano ancora la sua autorità, il suo potere.

    Il Congresso di Vienna (proverbiale anche per i suoi balli sontuosi e per le relazioni d'alto rango intessute durante il suo svolgimento), secondo Ferrero, non è stato il "concilio ecumenico dell'assolutismo europeo", bensì un gran successo. Certo, "non tutte le soluzioni che esso ha dato ai grandi problemi posti dalla Rivoluzione sono state buone. Alcune sono mediocri e hanno posto nuovi problemi" (ad es. l'Italia e la Germania) ma ha liberato l'Europa dalla grande paura.

    E tanto basta per confutare il giudizio poco lusinghiero che normalmente si dà del Congresso di Vienna.  

 

venerdì 11 aprile 2025

10 e non più di 10 #35

     


    «Con la canzone "Arie", scritta da Autuori-Baldi-Brancaccio-Caccavale-Cernicchiara-De Leo-Della Corte-Di Stasi-Esposito-Farina-Lanzetti-Sacco-Vuolo, cantano gli Equanimi».

    Incuriosito dalla selva di autori, mi procuro il testo della canzone: 30 parole e 12 di ritornello (ripetuto ben 5 volte). 

    30+12=42 parole.

    Gli autori sono 13. Quindi 42 parole/13 autori=3,23 parole ad autore.

    Se il nome di battaglia del gruppo (gli Equanimi) ha un senso, ogni autore ha contribuito proprio con 3,23 parole. 

    Magari un verbo e un paio di pronomi personali a testa.

    E lo 0,23 periodico? Basandomi sul titolo "Arie", ne presagisco la flatulenza.



giovedì 3 aprile 2025

"Garibaldi", di Denis Mack Smith (Mondadori)

    


    Quello che ermerge da questo libro, è il ritratto a tutto tondo di un essere "stra-ordinario". 

    Garibaldi marinaio innanzitutto, ma anche uomo dalle mille risorse e dai cento mestieri. Sempre a fianco (non di rado troppo ingenuamente) dell'ennesima parte di mondo implorante libertà e indipendenza, dal piccolo Rio Grande contro l'impero brasiliano, passando per l'Uruguay contro il generale argentino Rosas. E sì perchè per il nostro Peppino non c'è confine che tenga: qualsiasi lembo di terra che cerchi libertà, troverà, se lo vorrà, la sua spada pronta a difenderlo. E se anche la sua prediletta patria, alla quale ha immolato l'intera vita, dovesse sopprimere l'anelito di giustizia di un altro popolo, ebbene Garibaldi non avrebbe alcun dubbio: si schiererebbe addirittura contro il suo Paese, quasi senza battere ciglio.

    Quest'opera ben documentata, ci mostra Garibaldi intimamente repubblicano che, pur di "fare l'Italia", è pronto a sposare la causa sabauda. E il rapporto con Vittorio Emanuele, tranne che nell'ultimo periodo in cui il Nostro si sentirà tradito un po' da tutti (mai dal "proletariato" e dagli oppressi, però), sarà imperniato su una non scontata fiducia reciproca. D'altronde, uno come Garibaldi disposto anche a farsi usare (più o meno coscientemente) pur di raggiungere l'unità nazionale, fa estremamente comodo: se si vince, è merito del re; in caso di sconfitta, la colpa è di quell'estremista del nizzardo.

    Manco a dirlo, i rapporti con Camillo Benso Conte di Cavour sono ben più problematici: troppo distanti e incompatibili i caratteri tra i due uomini, così come estremamente diversi i sentimenti che li animano. Da una parte le sottigliezze e gli arzigogolii della politica, dall'altra le irruenze e le generosità dell'uomo del popolo. Per sottacere i rapporti con l'algido Mazzini, passati da un'entusiastica ammirazione a una sopportazione assai difficile.

    Poco tattico, indisciplinato, mediocre stratega, ma quando si tratta di puntare sulla velocità e sull'intuizione che esala dalla polvere dei campi (di battaglia), allorchè occorre virare sulla guerriglia anzichè sulle truppe schierate; e ancora, nell'attimo stesso in cui si è irrimediabilmente in minoranza e tutto sembra drammaticamente votato alla sconfitta, allora Garibaldi dà il meglio di sè, capace di vincere le battaglie anche prostrato dall'artrite che non gli dà requie.

    Idolatrato dalle folle, specie quelle più derelitte (ma non solo: si pensi all'accoglienza in Inghilterra da parte di oltre 500.000 persone), santificato già in vita (si specano le preghiere a Garibaldi e il numero di bambini che gli vengono protesi affinchè lui li battezzi), anticlericale convinto (propugnatore di una nuova religione), il Nostro non perde occasione anche di mostrarsi agricoltore: quando le vicende politiche lo disgustano (la qual cosa accade assai di frequente), ci sarà sempre la sua ostinata Caprera ad accoglierlo.

    Verso la fine dei suoi anni, Garibaldi, dopo essersi preso il gusto di accorrere a difesa della Francia ("ma di tutti i generali francesi Garibaldi è il solo che non sia stato sconfitto" - Victor Hugo), matura una concezione dittariale fintanto che la nazione non sarà di nuovo pronta per la repubblica. E come un dittatore dell'antica Roma allestisce la pira funebre, lì a Caprera. 

    Ancora una volta, però, la politica degli intrallazzi ha bisogno di capitalizzare il fenomeno Garibaldi: niente pira e funerali in pompa magna, a dispetto delle ultime volontà del Nostro.

    Di una genorosità estrema, disinteressato (tutte le testimonianze, pure dei suoi più acerrimi avversari, concordano sulla sua incorruttibilità), di una fibra assai forte che gli permetteva di resistere alle condizioni più estreme, Garibaldi ha da sempre popolato il mio immaginario. Dopo aver letto anche quest'opera sull'eroe nazionale, ancor di più.

    

"10 e non più di 10" #49

           All'ingresso,  questuanti allampanati per associazioni moltiplicatrici di sensi di colpa.     Si apre la porta automatica, e ...