martedì 20 gennaio 2015

Greta e Vanessa: se la sono cercata?

Greta e Vanessa. <Se la sono cercata!>

<Volevano fare del bene? Embe’, c’è bisogno di andare fino in Siria per farlo? In Italia ci stanno un sacco di poveri cristi che avrebbero tanto bisogno di aiuto>.

<Invece di fare le crocerossine, pensassero a non mettere nei guai la famiglia e l’intero Paese!>

Greta e Vanessa.

<12 milioni di euro per assecondare la voglia di due sciroppate di fare le salvatrici del mondo?>

<Io, per me, le avrei lasciate con i loro amichetti siriani, magari si divertivano di più e non ci facevano spendere tutti ‘sti soldi!>

<Fossi io il padre, le pesterei a sangue fino a far passare loro ogni voglia di rovinare la famiglia e l’Italia.>

Greta e Vanessa.

Avrebbero potuto spendere il tempo tra shatush e tatuaggi. Avrebbero potuto trascorrere le ore in fila per l’acquisto dell’ultimo iPhone. Avrebbero potuto dare un senso alle loro giornate declinando all’infinito la vacuità di “Uomini e donne“.

Greta e Vanessa. Ecco, avrebbero dovuto fare tutto questo per incassare i dividendi di una tranquilla normalità. La stessa normalità che avrebbe giustificato anche un presente scontato ad accantonare i debiti del futuro.

Certo, ci sarebbe stato sempre il solito pedagogo che avrebbe inveito contro la mancanza d’ideali delle nuove generazioni; il sessantottino che “ai miei tempi, si scendeva in piazza e gli facevamo un bucio de culo così”; il morigerato chierico che “non c’è più rispetto manco per i santi!”. Sì, d’accordo, ci sarebbe stato tutto questo. E sarebbe stato l’affettuoso contraltare del cloroformio adoperato per anestetizzarci. E poi, dopo la predica di facciata di genitori troppo impegnati a ribadire la propria gioventù sempre e comunque, il rimorso per essere stati troppo duri. E giù con zaffate di prodotti di consumo capaci di veicolare il bene che sempre, a prescindere dalle nostre azioni, meritiamo per il solo fatto di recitare, buoni buoni, la parte in commedia.

Greta e Vanessa.

Decidono di partire, di aiutare concretamente i più deboli. E allora fondano, insieme a Roberto Andervill, “Horryaty”, un progetto di assistenza con l’obiettivo di portare medicine e generi di prima necessità alla popolazione siriana.

Vengono fatte prigioniere. Appaiono in un video.

L’Italia è con Greta e Vanessa.

Ogni padre guarda la propria figlia che guarda il cellulare. Ogni mamma si dispera per il proprio figlio che si dispera per l’aumento delle Marlboro di venti centesimi.

Il cuore di tutti i padri e di tutte le mamme d’Italia piange la morte di Greta e Vanessa in anticipo.

Poi il Ministro Boschi interrompe i lavori della Camera per annunciare la liberazione delle due prigioniere.

Greta e Vanessa, già uccise dal capitone di capodanno, dai feriti dei botti e dalle calze dell’Epifania, eventi frattanto incuneatisi tra la diffusione del video e la notizia della loro liberazione, vengono risuscitate dalla realtà del contingente.

Il padre ha consumato tutti gli occhi per guardare ancora. La mamma ha esaurito tutta la disperazione per disperarsi di nuovo.

Greta e Vanessa la devono pagare. E giù i giudizi che abbiamo riportato all’inizio del commento. E i figli che guardavano il cellulare e si disperavano per l’aumento delle Marlboro? Non pervenuti. Scaltri a tal punto da capire come la loro vita abbia un senso solo nell’inutilità dell’esistenza.

Grazie, Greta e Vanessa, soprattutto per esservela andata a cercare; così come, d’altronde, ha fatto Fabrizio Pulvirenti, il medico di Emergency colpito da Ebola in Sierra Leone; e come se la sono andata a cercare i disegnatori di Charlie Hebdoo con la pubblicazione delle vignette su Maometto.

Ecco, speriamo che ci tocchi in sorte un mondo che se la vada a cercare. Sempre e comunque.

Se i giovani si organizzano, si impadroniscono di ogni ramo del sapere e lottano con i lavoratori e gli oppressi, non c’è scampo per un vecchio ordine fondato sul privilegio e sull’ingiustizia. (E. Berlinguer)

p.s. Revisionando l’articolo scritto qualche giorno fa, non posso non riportare quest’ultima affermazione su Greta e Vanessa contenuta in un tweet: “Vanessa e Greta, sesso consenziente con i guerriglieri? E noi paghiamo!”. Bene, il distinto signore che ha pronunciato queste parole, ha spiegato che, la sua, voleva essere una innocua richiesta di conferma della notizia appresa da un blog. Ora, a parte che non ci vuole un luminare per capire che se uno sceglie di porre ‘sta domanda, implicitamente la avalla, la cosa che sarebbe di una ilarità pazzesca, se non fosse tragica, è che il signore in questione è stato Ministro delle Comunicazioni per ben cinque anni. E il massimo esperto della comunicazione che dà credito a una notizia palesemente falsa tratta dal blog del taldeitali, sarebbe un bel colmo da lasciare ai posteri.

Per chi non lo sapesse, l’ex ministro in questione è Maurizio Gasparri.

Grazie, Greta e Vanessa… e scusateci per l’idiozia di qualcuno che il popolo sovrano ha avuto il coraggio di portare in Parlamento.

Noi  italiani… noi sì che ce la cerchiamo!

martedì 13 gennaio 2015

Due uomini armati in satira

Due uomini armati fino ai denti, con i proiettili eccitati all’idea dell’esplosione imminente, irrompono in una redazione di giornale

In qualsiasi altra redazione di ogni diverso giornale del mondo, i due uomini avrebbero provocato una carneficina.

Due uomini armati fino ai denti, con l’odio bramoso di essere vomitato sui cani infedeli, irrompono in una redazione di un giornale…satirico: Charlie Hebdo.

In questa redazione di siffatto giornale, i due uomini avrebbero voluto provocare una carneficina.

Le cose sono andate diversamente.

Il 07 gennaio 2015, due uomini hanno scelto il giornale e la redazione sbagliati.

Fanno irruzione, con “geometrica potenza di fuoco”, in una sala vuota.

Certo, ora è facile parlare di due sprovveduti che lasciano la carta d’identità in macchina; che hanno sbagliato l’indirizzo della redazione. Troppo facile ricorrere al dilettantismo di due uomini che, in un altro giornale, in una diversa redazione, avrebbero potuto uccidere 12 persone e ferirne altre, anche gravemente.

Ma torniamo all’assalto dei nostri due uomini.

Allah è grande”.Primo piano, niente.

“Allah è grande”. Secondo piano, manco un’ “ummira”.

“Allah è grande?”. Oh, sìììììì, “Allah è grande” perché si sono imbattuti finalmente in una porta chiusa che puzza di maiali in riunione.

I due uomini si scambiano un cenno d’intesa.

Le bocche dei kalashnikov crivellano la porta di fuoco.

Si fermano. Non si ode un lamento. Non si sente un grido manco a pagarlo oro.

I due uomini si guardano. L’intesa è rinnovata.

Uno di loro sferra un calcio a quel che resta della porta sbrindellata. L’altro aggredisce, con arma a tracolla sputacchiante fatwa e sura a gogò,…una scrivania.

L’inferno di fuoco si estingue per la sorpresa.

I due uomini pensano che Allah dev’essere per forza grande. E mentre se lo ripetono per evitare di dimenticarselo, qualcosa si muove.

Una matita, che pur negli spari senza soluzione di continuità se n’era stata ferma, si alza indispettita.

I due uomini, addestrati a non farsi infinocchiare dalla zizze virtuali di you porn, a non prestare fede alle grandi opere che nascondono grandissime tangenti, sono spiazzati.

La matita si mette all’opera.

Un leggero movimento a destra, poi a sinistra, in su e in giù. Una mazurka di ghirigori. Un fischio prolungato. Arrivano due colori, il rosso e il giallo.

“Ma dove cazzo stavano i colori un minuto fa?”- pensa uno dei due uomini.

“Ma tu vuoi vedere – si chiede il secondo attentatore – che a forza di gridare ‘sto minchia di “Allah è grande”, ci siamo persi i colori? La matita, nessuno la mette in dubbio. Ma ‘sti sfaccimma di colori?”

Due uomini, armati fino ai denti, avrebbero potuto provocare una carneficina.

Si trovano, invece, voltati verso la Mecca dei fanatici con il culo a poppa, con le braccia inchiavardate da un nugolo di puntine da disegno uscite dal cassetto di vattelappesca.

La matita armeggia con i loro culi che ti piange il cuore a vederla. All’improvviso si ferma. I colori, allora, seguendo quei cerchi tracciati in maniera mirabile, si danno da fare eccitati dall’idea di completare l’opera.

I due uomini, spogliati dalle armi, incapaci di capire cosa stia accadendo, avvertono solo un armeggiare di punte di diverso spessore sui loro fondoschiena.

Il bersaglio è bell’è colorato.

La matita allora, dopo aver gonfiato il petto per l’onore che da lì ad un momento le toccherà, si reca di nuovo sulla scrivania. Da qui alla parete in cui sono immobilizzati i due uomini, vi è una bella distanza.

Penne, colori, gomme per cancellare, forbici, puntine e chi più ne ha più ne metta, si piazzano ai lati, in due ali in tripudio festante, dell’Arc de Trionphe  in cui si materializzerà la vittoria.

I due uomini, inconsapevoli e persi, si predispongono ad accogliere la marcia trionfale della redazione di Charlie Hebdo.

Pronti, partenza via. Manco il tempo di ripetere per l’ultima volta “Allah è grande” che la matita si sdoppia: compaiono due punte affilate come la lama di un rasoio.

Una nel culo dell’uomo a destra, l’altra nel culo a dell’uomo a sinistra.

La satira, parafrasando l’ombrello del nostro Altan, è entrata nel cu…ore del fondamentalismo fino a seppellirlo in una caterva di risate.

JE SUIS CHARLIE !

mercoledì 7 gennaio 2015

Furto “voluminoso” e frase memorabile

Furto “voluminoso”: un ex dirigente di azienda di sessant’anni è stato sorpreso a rubare

Riportata così, la notizia del furto ha ben poco di originale. Massimamente, poi, in un periodo in cui i mezzi economici sono ridotti al lumicino e quindi le giustificazioni di un furto sempre più a buon mercato.

Eppure vi devo confessare che se una ruberia, di per sé ovviamente sempre deprecabile, potesse essere “abbuonata” e/o addirittura incoraggiata, ebbene, sarebbe proprio questo uno di siffatti casi. E sì perché il Lupin in questione non è stato “sgamato” a sgraffignare soldi, rolex, autovetture o portafogli. Nossignore. L’impunito è stato colto in flagranza mentre portava via…libri. Già, proprio di libri si tratta. Ma vi è di più: alla domanda delle allibite forze dell’ordine, a tal punto (immagino) da bruciare la prima (perché rubi?) e passare direttamente alla seconda domanda (per quale motivo dei libri?), il contrito ex dirigente ha candidamente risposto:<Perché ho sete di cultura da libri e non riesco, avendo perso il lavoro, a soddisfarla!>

<Eureka!>

<Eppur si muove.>

<Verrà un giorno...!>.

<Obbedisco!>

Ecco, del tutto inconsapevolmente, il ladro in questione ha partorito un’altra frase memorabile (“sete da cultura da libri”) degna di essere inserita in un similare elenco per la correlazione tra sete, come bisogno insopprimibile dell’uomo, e cultura, libri.

O arguto fuorilegge intento, novello Paperone, a tuffi corroboranti nei mucchi di caratteri stillanti vita e sangue umano, chi è più smaliziato di te che hai capito come il più importante capitale sia quello racchiuso nella calotta cranica? Anche, infatti, nelle angustie sferzanti della povertà; pure se fossi inchiavardato nell’immobilità più assoluta; perfino se il tuo corpo fosse passato dallo stato animale a quello vegetale, ebbene, stanne pur certo che sempre, in qualche rimasuglio della mente, si proietterà qualcosa che assomigli alla distesa di un oceano solcato dalla vociaccia dei pirati che intonano:

Quindici uomini sulla cassa da morto, yo-ho-ho! E una bottiglia di rum per conforto!”

lunedì 5 gennaio 2015

Il respiro di Napoli (su Pino Daniele)

Il respiro di Napoli, arrochito dalla pietra lavica del Vesuvio, affannato dai miasmi dei roghi tossici, eternato dagli squarci di storia infinita…

…e ancora, il respiro di Napoli, cullato dall’ adda’ passà ‘a nuttata, raccontato dai vicoli stesi al sole, immillato dalla musica delle contaminazioni…: ebbene, il respiro di Napoli è venuto, ancora una volta, meno.

Nei polmoni abusati eppure capaci di sempre nuovi immagazzinamenti di vita, vi è stato un momento di pucundria. Una pausa che ha atrofizzato, sia pure solo per un attimo, gli alveoli che incamerano l’addore ‘e mare e lo trasformano in mille culure.

Il respiro di Napoli si è strozzato in gola. È morto Pino Daniele.

Per trenta secondi, la città si è cristallizzata in un dagherrotipo del tempo presente, eppure già imbrigliato nel passato di un’assenza.

Napule è ‘na carta sporca…

Ogge è deritto, dimane è stuorto, e chesta vita se ne và…

E nui passammo e uaie e nun puttimmo suppurtà e chiste invece e rà na mano s’allisciano se vattono se magniano a città…

E ancora, perché i trenta secondi dei grandi si misurano in emozioni, il blues napoletano di un nero a metà, l’oggi è sabato, domani non si va a scuola di ogni ultima ora di religione, il quanto costa la felicità delle prime riflessioni sul senso della vita; infine, l’a me me piace chi dà ‘nfaccia senza ‘e se fermà’, rimuginato davanti a ‘na tazzulella ‘e cafè, quanno chiove e avresti voglia di mettere tutti ‘nfaccia ‘o muro.

Al respiro di Napoli basta anche solo questo primo universo di musica di Pino Daniele, per avvertire l’esigenza di fermare il cuore del suo microcosmo.

Come le era capitato di fare anche per Massimo Troisi, che aveva rivestito di immagini le semiminime e gli accordi della chitarra di Pino Daniele.

Il respiro di Napoli, però, inizia a insufflare aria non appena viene solleticato da un altro garage del Rione Sanità, dove un giovane cerca il riscatto tra le corde di una chitarra; quando viene pungolato da un ennesimo scugnizzo che imbraccia uno strumento troppo pesante di fatica per essere studiato nelle aule leggere del Conservatorio.

Il gorgoglio di vita chiede di poter sfociare in un rigurgito di aria allorquando assiste all’incontro tra un chitarrista e un attore che continueranno a declinare, servendosi di musica e celluloide, il genio di Napoli nel mondo.

Troppa aria viene immagazzinata nei polmoni. È giunto il momento di riattivarsi.

Il respiro di Napoli riprende ancora una volta a dare senso alla vita.

E cammina, cammina vicino ò puorto / e rirenno pensa a’ morte / se venisse mò fosse cchiù cuntento / tanto io parlo e nisciuno me sento…

Addio Pino, e quanto ti sbagliavi nel pensare che la morte potesse rendere afona la tua voce di chitarra e poesia!

martedì 30 dicembre 2014

È severamente vietato...ovvero la "manomissione" delle parole

“È vietato severamente…”, ovvero la “manomissione” delle parole

Fermo davanti al cartello del parco Mercatello, ho un sentore di qualcosa di superfluo. “Boh, – mi dico -sarà il “di più a prescindere” di queste feste che appare anche in un innocuo “avviso ai visitatori”.

Percorro a piedi l’umbratile distanza tra il parco stesso e l’ufficio postale di Mariconda.

L’ “è vietato severamente”, però, me lo porto fin al cospetto dell’addetto alla “consegna posta inesitata”.

Qui mi imbatto in un bisbiglio di protesta che diviene vera e propria ribellione non appena dall’esterno dell’ufficio viene veicolato all’interno.

<È inutile, – precisa l’impiegato – abbiamo l’ordine tassativo…è severamente vietato…>.

“ordine tassativo…severamente vietato”: eccomi finalmente chiara la superfetazione iniziale.

Non c’è niente di meglio che la lingua, organismo vivo e sensibile come non mai, a descrivere le abitudini di un popolo. Una nazione che ha bisogno di “rendere più forte” un lemma che di per sé dovrebbe essere già il non plus ultra, non è una nazione affidabile.

Il tristemente noto “achtung” tedesco, infatti, non viene nemmeno sfiorato dal dubbio che qualcosa possa rafforzarlo. In esso già è concentrato l’acme dell’imperio.

Tornando al nostro divieto iniziale, occorre precisare come sia inutile, nel momento in cui si dice o si scrive “è vietato”, aggiungere un avverbio (“severamente”, “assolutamente”, etc .). Il participio passato “vietato” dovrebbe essere così forte, così categorico, da non consentire alcun altro rafforzativo. “È vietato”. Punto. Stop. Non si può vietare poco o vietare assai.

Analogo discorso si può fare con il verbo “amare“. Se io amo, amo. Se il mio sentimento verso qualcuno o qualcosa è inferiore all’amore, io non utilizzo “amo poco”, bensì faccio ricorso a un verbo meno esaustivo e coinvolgente dell’amare come “piacere”, ad esempio.

Nel 2010, l’ottimo Gianrico Carofiglio, ha pubblicato il saggio “La manomissione delle parole“, edito da Rizzoli. Ebbene, in quest’opera, lo scrittore usa il termine manomissione sia come denuncia che come auspicio. Come denuncia, perché invita a non, per l’appunto, manomettere, travisare le parole, tradendo il loro significato originario e attribuendogli una gradazione più o meno forte di quella che ontologicamente hanno (“è severamente vietato”, ad esempio).

La manomissione come auspicio invece, è insita nell’etimologia di siffatto lemma che risale addirittura al diritto romano: “manomettere”, dal lat. manumittĕre, propr. “mandar libero (mittĕre) con la mano (nu)”, per est. “rendere libero dalla schiavitù”. Ecco, l’auspicio dello scrittore a liberare le parole vuole essere anche una sorta di missione che ognuno di noi deve impegnarsi a portare a termine: scrivere, parlare, dando il giusto peso ai vocaboli utilizzati.

Possiamo iniziare già in occasione di queste feste facendo, ad esempio, gli “auguri” e non i troppo inflazionati “augurissimi”. Che poi, sia chiaro, se in questi giorni il destinatario dei nostri auguri vince il superenalotto, si fidanza con miss universo, scopre la fonte dell’eterna giovinezza, beh, in questo caso (ma solo in questo caso) potrebbe senza dubbio meritare gli “augurissimi”.

In conclusione, è vietato (e basta!) darsi per vinti, lasciando che il colore della nostra lingua venga sbiadito da un uso improprio.

martedì 23 dicembre 2014

Morto Babbo Natale, viva Babbo Natale

“Morto Babbo Natale”. Ebbene sì, il nostro giornale ZerOttoNove (ZON), è stato il primo a diffondere la ferale notizia.

È stata la vocina affranta di uno dei folletti a telefonarci in redazione. Poiché però, in quel momento, vi ero presente solo io, il direttore  ha dovuto abbozzare: meglio un giornalista di mezza tacca sul locus commissi delicti, che il rischio di lasciarci soffiare lo scoop (e che scoop!) della morte di Babbo Natale.

Appuntamento a mezzanotte in punto sul tetto della biblioteca dell’Università.

Si materializza, ad una decina di metri dal mio naso rigorosamente all’insù, una slitta immensa, trainata da una messe di renne. A guidarla il folletto che, non appena mi invita a salire per la scala di luce e polvere di stelle srotolata fino ai miei piedi, riconosco essere la mia fonte.

Mi si bendano gli occhi.

In un tempo che non so quantificare, mi sorprendo seduto, finalmente con gli occhi liberi, davanti ad un pantagruelico camino. In mano, una tazza di cioccolata calda.

Il folletto abbacchiato, dopo aver tentato di sedare la disperazione della Befana, mi si siede di fronte.

Mi dice che può parlarmi solo per cinque minuti: il tempo necessario, cioè, per evitare di corrompere la sua natura di fiaba. Così dicendo, mi pone in grembo un pacco di libri avvolti in carta da spedizione.

<Quando il dolce Babbo Natale – spiega il folletto ancora provato – si è reso conto che Amazon “spedisce” più velocemente di noi, non c’è l’ha fatta.>

Lo guardo ammammaloccuto.

Il folletto si soffia il naso e riprende:<Ovviamente non è solo per questo che ha deciso di farla finita. E prima ci si mettono i Natale a mezze maniche; poi i regali sempre più stupidi richiesti dai bambini; ancora le stufe a pellet che soppiantano i camini; infine, le continue interferenze, coi nostri voli, di aeroplani, satelliti vari, e cianfrusaglie volanti>.

Lo osservo insoddisfatto.

<Però, – ammette, riuscendo a sorridere per un breve istante – forse i tuoi colleghi di giornale ti sottovalutano. Ebbene, – confessa ora intristito non più soltanto dalla morte del suo capo – il motivo principale che ha indotto Babbo Natale a togliersi la vita, è che nessun bambino desidera più davvero qualcosa. Ogni desiderio, – spiega immalinconito – si nutre dell’attesa. Nel momento in cui tra la voglia della strenna e il suo ottenimento non vi è alcun lasso di tempo, la felicità è dimidiata. La verità – e il suo sguardo penetra il mio – è che il desiderio è morto. Gli occhi dei bambini non invocano più la venuta di Babbo Natale. Ed è per questo che….morto Babbo Natale, – esplode in un repentino, quanto inspiegabile, urlo di gioia – viva Babbo Natale! Da questo momento in poi, – e il rintocco tonitruante di un pendolo dal Paese di molto lontano mi fa sobbalzare – amico caro, Babbo Natale sarà morto per i bimbi opulenti d’Occidente. Sarà, invece, vivo, vivissimo, per quei piccoletti che ancora hanno voglia di appendere lo sguardo alla gruccia della sua scia luminosa, nell’attesa cullata per un anno intero>.

Non c’è tempo per capire. Uno smilzo Babbo Natale, con le guance lisce come il popò di un bambino,  mi si materializza davanti.

<Non ho spazio per i vostri eccessi: – mi dice nell’atto di accarezzare una pancia che non c’è più – il mio impegno, la mia opera, saranno rivolti solo a chi ha ancora, nel cuore e nel fisico, qualche mancanza da colmare>.

Mi sorprendo a svegliarmi.

Sono davanti al monitor del pc in compagnia della birra a triplo malto, per fegati allevati a vodka e whisky, che non è riuscita ad allontanare l’abbiocco.

Deluso per l’inganno onirico, apro il balcone e guardo in su.

Una cometa iridescente, lunga quanto l’attesa di un desiderio, si sposta verso il Sud del mondo.

Buon Natale!

martedì 16 dicembre 2014

“Vita di Luciano De Crescenzo scritta da lui medesimo”, di Luciano De Crescenzo

Vita di Luciano De Crescenzo scritta da lui medesimo”

Una vita dolce come il profumo della sfogliatella gustata al “Pallonetto” di Santa Lucia; anche chiassosa, però, al pari del sole di Napoli che allucca tra i vicoli scarmigliati della città.

Un’esistenza, infine, irriverente alla stregua dell’ingegnere regimental della IBM che si fa rivoluzionare la vita dai filosofi presocratici.

La vita di De Crescenzo ti esplode tra le mani come un carillon di musica e magia abbandonato tra i titoli di Borsa di Piazza Affari. E tra una piroetta della ballerina che da cinquant’anni si ostina a seguire quelle scarne, acute note metalliche e lo sguardo ammirato del rampante finanziere allevato a play station e virtualità, eccoti squadernare davanti agli occhi la serie di personaggi, a tal punto strabilianti da non poter essere altro che veri, della vita dello scrittore: la mamma, che dopo aver criticato un attimo prima l’esibizione in RAI di Ella Fitzgerald (“secondo me, i negri dovrebbero cantare per i negri e i bianchi per i bianchi”), risponde all’intervistatrice telefonica che le chiede un giudizio sull’artista che questa cantante le piace moltissimo perché “se io dicevo che non mi piaceva, quella poi la RAI la licenziava e questo non sta bene: chella è già accussì nera!”; il padre, anticonsumista sfegatato, che impone l’acquisto delle scarpe solo nel negozio di Stefanino Buontempo che, poiché quest’ultimo “aveva mollato, praticamente sull’altare” una loro parente, adesso è obbligato a praticare lo sconto del 30%, “vita natural durante, su tutti gli articoli del negozio”; e poi, ancora, come non citare zio Luigi, ‘o pallista, che giura e spergiura che Hitler non è tedesco, ma nato a Predappio come Mussolini (“…ma può essere che non t’accorgi che è un travestito! Hai visto i capelli che tiene? (…) E il baffetto posticcio dove lo mettiamo? Andiamo: (…) quello è na macchietta, a me me pare Charlot!”)?!

Ma la vita di Luciano De Crescenzo è ricca anche di aneddoti legati al sesso come il racconto della disarmante prima volta, nell’agognato bordello vagheggiato fin dall’adolescenza, in cui “le residue speranze di una già improbabile erezione svanirono di colpo” non appena la puttana di turno, “dopo un rapido sopralluogo per vedere se avessi piattole o altri insetti”, prese il flit “e mi stantuffò tra le gambe una fredda nuvola di disinfettante”; così come di frammenti di vita relativi al primo amore, anzi, ai “primi quattro amori” (da bambino, da adolescente, da giovanotto, da adulto) “e non quattro amori diversi (…), perché credo di essermi innamorato sempre della stessa persona”.

Sullo sfondo, poi, campeggiano, reclamando a gran voce cittadinanza in questo scritto, il paragrafo intitolato “il ventre della vacca” in cui anche trovare un paracadute, negli anni della Grande Guerra, può essere una fortuna (“a Napoli, la signora Santommaso, con la stoffa di un paracadute si è fatta ventidue camicie di seta”) e quello de “la fame” dove, sempre durante il conflitto bellico, ascoltando estasiati uno dei racconti mirabolanti di Zio Luigi, Luciano De Crescenzo e il cugino staccano i parati della cucina perché le carte da parati “si attaccano con la colla”; “e la colla come si fa?” “Con la farina.” E se Totonno ‘o Pizzaiuolo, come ha appena raccontato zio Luigi, impastò la polvere con l’acqua fino a ricavarne delle pizzette niente male, perché non possono provarci anche loro, Luciano e il cugino, a fare una cosa simile?

La vita dell’inclito scrittore prosegue con l’esperienza lavorativa in IBM e con lo scetticismo dei napoletani verso il futuro avveniristico promesso dalle macchine:

"Ma ti pare che a Napoli, con tutti i disoccupati che ci sono, quelli vanno a comprare le macchine tue? Secondo me, queste società sai che faranno? Chiameranno i disoccupati e gli daranno una moltiplicazione a testa, e quelli in quattro e quattro otto ti fanno tutti i conti. Secondo me era meglio se t’impizzavi nel Banco di Napoli!"

Dopo un breve accenno all’esperienza cinematografica, l’attenzione di De Crescenzo si sposta, non senza qualche timore per la complessità dell’argomento, sul “Dubbio positivo” che lo porta, da lì a poco, ad interrogarsi sull’eterna ed annosa quaestio del fine vita.  E, pur trovandosi necessariamente a suo agio perché approdato alla “preparazione alla morte” che i suoi amati filosofi praticavano fin dall’età della comprensione, l’arguto scrittore non può evitare di suscitare nel lettore un moto di disarmante dolcezza quando si richiama al finale del film “I clown” di Federico Fellini.

Tra le pieghe del bianco e nero di siffatta pellicola il pagliaccio protagonista, all’affermazione del direttore del circo circa la morte del compagno di numero Fru-Fru che gli deve ancora restituire dieci salsicce dall’anno scorso, obietta che “uno non può mica sparire così: da qualche parte deve pur stare.” E convinto di ciò, il pagliaccio prova a suonare la canzone del proprio numero: “ebbene, non appena attacco una nota, ecco che lui mi appare, come per incanto, e mi risponde suonando”.

Una vita in musica, anche quella di De Crescenzo, che pur nei limiti di questo libro (troppo trascurata, ad esempio, la svolta che l’ha portato ad abbandonare la professione di ingegnere per la fortunata carriera di scrittore), è stata capace di farci sorridere con ironica, intelligente e colta partecipazione.

E speriamo, infine, che la preziosa ballerina del carillon di cui sopra ce la faccia ancora una volta (è da troppo tempo ormai che, vuoi per le sue condizioni di salute, vuoi per un probabile prosciugamento della vena artistica, De Crescenzo non riesce a regalarci nuovi spunti letterari) a deliziarci con le sue poetiche e pregne di umanità piroette d’amore.

In questi tempi tristi, ne avvertiamo davvero il bisogno, come ugualmente sentiamo la necessità di aforismi del calibro di questo contenuto proprio in “Vita di Luciano De Crescenzo scritta da lui medesimo”: “La pubblicità sarà il veleno preparato dall’omologazione e la televisione il bicchiere dentro il quale ce lo fanno bere“.

Ad Maiora, Lucia’!