Mi chiamo Maruzziello. Sono un nassarius mutabilis; per intenderci, una lumaca di mare. Sì, proprio uno di quei molluschi in cui vi piace infilzare lo stuzzicadenti per estrarne la intrigante e sfuggente polpa.
In Campania tutti noi ci chiamiamo maruzzielli ma qui, in questo lontano lembo di mare in cui sono emigrato per cercare fortuna, di Maruzziello ci sono solo io. E quando ho dovuto scegliere un nome per darmi un’identità oltreché un tono, ecco l’idea: Maruzziello, per l’appunto, chè tanto di campano, in questa frangia di mare lampedusano, c’è solo la mia bella conchiglia.
Avremmo sì dovuto essere in due ad emigrare ma poi, all'ultimo minuto, non ti viene il maruzziello di turno (cacasotto!) a farti la sola? Certo che sì, ovviamente. Il fatto è che ci sono dei maruzzielli, come il mio compaesano Tortiglione, che pur fiutando l’occasione per ingrassarsi come un budda, non ce la fanno proprio a lasciare il fazzoletto di mare in cui sono nati; e che pur di non abbandonare la propria mattonella d’acqua, sono capaci di accontentarsi del corpo di qualche camorrista incaprettato e buttato a mare e/o del suicida una tantum che ha la compiacenza di scegliere il tuo tratto di pertinenza per farla finita.
Quisquilie, pinzillacchere.
Io invece, da quando ho deciso di emigrare, ho trovato il mio Eldorado: non passano trenta carrette del mare che almeno una, in tutto o in parte, non decida di far felice il palato del suo Maruzziello con il tributo (liberamente offerto, per carità!) di carne umana ruspante e succulenta. Percentuale questa, ovviamente, che si arricchisce ancora di più nei giorni di mare tempestoso.
Io, da parte mia, prima di mettermi all’opera, mi limito a godermi lo spettacolo; certo, un po’ monotono, ma comunque vario pur nel suo canovaccio pressoché identico. E sì perché una cosa è vedere annegare un uomo vigoroso, in piena salute, che prima di affogare si agita come un ossesso nello strenuo tentativo di ribellarsi all'elemento estraneo che tenta di sopraffarlo; tutt'altra cosa, invece, è assistere alla flebile resistenza all'acqua delle donne incinte e dei piccoli denutriti.
Tempo un minuto che la superficie del mare, di questi ultimi ospiti, non serberà nemmeno il ricordo, archiviando la pratica con l’affidamento quasi immediato al fondale.
Io, maruzziello sempre più panciuto e libidinoso da quando sto qui, aspetto la porzione di carne che puntualmente si offrirà indolente alla mia opera distruttrice.
Inizio con col mangiucchiare gli occhi, così molli e “callosi”. Attenzione, però: il mio lavoro non è dozzinale come quello dei pesci e degli altri molluschi che accorrono ad ogni nuovo annegamento, nossignore. Io, modestamente, sono mastro d’opira fina. Ad esempio, con riferimento al mio piatto preferito (gli occhi, come confessavo poc’anzi), prima succhio la patina gelatinosa che ricopre le pupille, poi raschio ogni singolo velo che ricopre il bulbo oculare. Infine, dopo un lavoro meticoloso di cesello e sagomatura, provvedo a scarnificare le orbite ormai vuote e silenti.
Si badi bene, però: la mia felicità non è dovuta solo alla frequenza dei pasti esponenzialmente maggiore rispetto a qualsiasi altro mare. La soddisfazione più grande, l’appagamento maggiore che Maruzziello vostro possa provare, sta proprio nel fatto che non da semplici esseri umani il cibo è costituito, ma proprio da extracomunitari. Qual è la differenza? Incommensurabile. Per intenderci, la stessa che passa tra un pollo allevato in gabbia (flaccido, indolente, contaminato dai compromessi con la farmaceutica) e uno ruspante, cresciuto allo stato brado (energico, “nervoso”, forgiato dalla selezione naturale che pretende una reazione al destino di vittima sacrificale). Non è chiara ancora la differenza? E allora, il sempre vostro Maruzziello, v’invita a pensare agli occhi succitati.
Gli occhi dei disperati dei barconi hanno, incastonato nella loro pupilla zuccherina, il miele del sogno. Quelli degli esseri umani comuni invece, il retrogusto acido dell’indifferenza.
Buon appetito!