martedì 18 agosto 2015

Mi chiamo Maruzziello e amo gli extracomunitari


Mi chiamo Maruzziello. Sono un nassarius mutabilis; per intenderci, una lumaca di mare. Sì, proprio uno di quei molluschi in cui vi piace infilzare lo stuzzicadenti per estrarne la intrigante e sfuggente polpa.


Sono originario di Salerno. Nello specifico, del porticciolo di Pastena.

In Campania tutti noi ci chiamiamo maruzzielli ma qui, in questo lontano lembo di mare in cui sono emigrato per cercare fortuna, di Maruzziello ci sono solo io. E quando ho dovuto scegliere un nome per darmi un’identità oltreché un tono, ecco l’idea: Maruzziello, per l’appunto, chè tanto di campano, in questa frangia di mare lampedusano, c’è solo la mia bella conchiglia.

Avremmo sì dovuto essere in due ad emigrare ma poi, all'ultimo minuto, non ti viene il maruzziello di turno (cacasotto!) a farti la sola? Certo che sì, ovviamente. Il fatto è che ci sono dei maruzzielli, come il mio compaesano Tortiglione, che pur fiutando l’occasione per ingrassarsi come un budda, non ce la fanno proprio a lasciare il fazzoletto di mare in cui sono nati; e che pur di non abbandonare la propria mattonella d’acqua, sono capaci di accontentarsi del corpo di qualche camorrista incaprettato e buttato a mare e/o del suicida una tantum che ha la compiacenza di scegliere il tuo tratto di pertinenza per farla finita.

Quisquilie, pinzillacchere.

Io invece, da quando ho deciso di emigrare, ho trovato il mio Eldorado: non passano trenta carrette del mare che almeno una, in tutto o in parte, non decida di far felice il palato del suo Maruzziello con il tributo (liberamente offerto, per carità!) di carne umana ruspante e succulenta. Percentuale questa, ovviamente, che si arricchisce ancora di più nei giorni di mare tempestoso.

Io, da parte mia, prima di mettermi all’opera, mi limito a godermi lo spettacolo; certo, un po’ monotono, ma comunque vario pur nel suo canovaccio pressoché identico. E sì perché una cosa è vedere annegare un uomo vigoroso, in piena salute, che prima di affogare si agita come un ossesso nello strenuo tentativo di ribellarsi all'elemento estraneo che tenta di sopraffarlo; tutt'altra cosa, invece, è assistere alla flebile resistenza all'acqua delle donne incinte e dei piccoli denutriti.

Tempo un minuto che la superficie del mare, di questi ultimi ospiti, non serberà nemmeno il ricordo, archiviando la pratica con l’affidamento quasi immediato al fondale.

Io, maruzziello sempre più panciuto e libidinoso da quando sto qui, aspetto la porzione di carne che puntualmente si offrirà indolente alla mia opera distruttrice.

Inizio con col mangiucchiare gli occhi, così molli e “callosi”. Attenzione, però: il mio lavoro non è dozzinale come quello dei pesci e degli altri molluschi che accorrono ad ogni nuovo annegamento, nossignore. Io, modestamente, sono mastro d’opira fina. Ad esempio, con riferimento al mio piatto preferito (gli occhi, come confessavo poc’anzi), prima succhio la patina gelatinosa che ricopre le pupille, poi raschio ogni singolo velo che ricopre il bulbo oculare. Infine, dopo un lavoro meticoloso di cesello e sagomatura, provvedo a scarnificare le orbite ormai vuote e silenti.

Si badi bene, però: la mia felicità non è dovuta solo alla frequenza dei pasti esponenzialmente maggiore rispetto a qualsiasi altro mare. La soddisfazione più grande, l’appagamento maggiore che Maruzziello vostro possa provare, sta proprio nel fatto che non da semplici esseri umani il cibo è costituito, ma proprio da extracomunitari. Qual è la differenza? Incommensurabile. Per intenderci, la stessa che passa tra un pollo allevato in gabbia (flaccido, indolente, contaminato dai compromessi con la farmaceutica) e uno ruspante, cresciuto allo stato brado (energico, “nervoso”, forgiato dalla selezione naturale che pretende una reazione al destino di vittima sacrificale). Non è chiara ancora la differenza? E allora, il sempre vostro Maruzziello, v’invita a pensare agli occhi succitati.

Gli occhi dei disperati dei barconi hanno, incastonato nella loro pupilla zuccherina, il miele del sogno. Quelli degli esseri umani comuni invece, il retrogusto acido dell’indifferenza.

Buon appetito!


mercoledì 5 agosto 2015

Tornate al Sud e facciamo la rivoluzione



Sud. Parliamo un linguaggio di verità: un problema come la “questione meridionale” che da 154 anni sta ancora lì, è un problema che non si vuole risolvere. A maggior ragione adesso che di politici di spessore analogo a quello di Gramsci, Salvemini, Croce, Fortunato, non solo non se ne vede manco l’ummira ma addirittura se n’è smarrito il lascito

E a nulla vale, in questo contesto, richiamare il saccheggio operato dall'Italia Unita ai danni di un Sud incredibilmente ricco e prospero appena prima del 1861 (testimonial di questa ricchezza che si voleva proteggere, sono i troppi combattenti assai presto diventati briganti per l’esercito unitario).

Ciò che vorrei proporre qui, in questo articolo, al di là della denuncia sacrosanta di Saviano e della risposta “da cliché” di Renzi, è una soluzione. Già, proprio così: sommessamente, umilmente, sottovoce (alla Marzullo) una soluzione che si risolve, nella fattispecie concreta, in un invito a tutte le intelligenze che hanno dovuto, voluto abbandonare il Mezzogiorno per spendere i loro talenti in una realtà più ricca e dinamica.

Ebbene, compagni “inseriti” del Nord, se non ne potete più di sentire bistrattare il Sud, il vostro Sud; se ne avete le palle piene dei ricchi industriali che “scendono giù” il tempo necessario per impiantare i loro scheletri maleodoranti, vendere un po’ di fumo, e ritornare al Nord a grandeggiare con il profitto grondante sangue di chi si è fidato; se ancora vi rode il fegato al solo avvertire il puzzo rancido del razzismo strisciante di chi riesuma un giorno sì e l’altro pure la macchietta del meridionale piagnone e parassita; e se, infine, nonostante la rabbia verso una realtà che non vi ha capito, che ha irriso la vostra preparazione e che ha soffocato nella culla ogni sia pur lieve gemito di affermazione…; se, dicevo, malgrado tutti questi legittimi motivi di astio verso il Mezzogiorno, provate ancora amore per il nostro irriverente Sud, ebbene, in questo caso, ascoltate la mia preghiera accorata: Tornate al Sud e facciamo la rivoluzione.

<Come come (obietterete giustamente)? Bella testa ingegnosa che sei: lasciamo il nostro lavoro al Nord, torniamo al Sud e così, invece di risolvere la questione meridionale, la rimpolpiamo con la nostra disoccupazione!>

No, non è così, vi prego di darmi un minimo di credito. Fiducia accordata? Bene, vengo e mi spiego. In che consiste ‘sta trovata cheguevariana? E’ presto detto: voi che occupate ruoli strategici al Nord, in massa (è la somma che fa il totale!) così, tra il lusco e il brusco, ve ne scendete tutt’assieme al Sud.

Ora, ditemi voi, come si fa a licenziare (perché lo capisco, ci mancherebbe altro, che questa è la preoccupazione fondamentale per tutti voi) milioni di lavoratori che occupano posti di responsabilità al Nord? Non si può, né tanto meno (ho pensato pure a questo) il vostro lavoro vi potrà essere rubato dagli extracomunitari che, per loro sfortuna, non hanno una preparazione tale che gli possa consentire di sostituirvi in ruoli dirigenziali.

A questo punto, non senza un minimo di soddisfazione per aver meritato un briciolo di considerazione non foss’altro che per la consequenzialità del mio ragionamento (ve lo leggo negli occhi, compagni “realizzati”), non resterebbe che completare l’opera: fare, cioè, massa critica e starsene in panciolle (altro che rivoluzione armata, spargimento di sangue, etc.), magari davanti ai Palazzi del potere così, tanto per attestare e far stimare la nostra ingombrante presenza.

Tempo un mese (solo un mese, non un giorno di più) senza che i servizi di alta professionalità vengano prestati al Nord, che il Governo dovrà per forza venire a miti consigli. E via, dunque, ad una legislazione di urgenza “pro Sud” non tanto per risolvere la questione meridionale (troppa grazia, Sant’Antonio!), quanto per evitare l’inceppamento del sempre caro Settentrione.

Risultato? Noi del Sud che non vogliamo o non possiamo spostarci al Nord, avremmo l’occasione per saggiare la nostra bravura e preparazione in una realtà lavorativa finalmente dinamica.

Ora però, siccome sono ben consapevole che ogni accordo debba pur prevedere vantaggi per tutti i contraenti vengo, amici del Nord, al vostro utile.

Ebbene, la ricompensa (duplice, addirittura) per la vostra partecipazione alla rivoluzione più pacifica che genere umano abbia mai conosciuto, è la seguente: da un lato, contribuirete all'arricchimento del Sud nonostante tutto amato e vagheggiato (anche per lasciarvi aperta la porta per un eventuale ritorno oltreché per rendere la vita migliore ai vostri cari rimasti quaggiù); dall'altro, darete prova una volta per tutte dell’importanza che l’intelligenza proveniente dal Sud ha (anche) per far muovere l’economia del Settentrione. E poiché nel nostro mondo ridotto assai male tutto soccombe all'economia, silenzierete per sempre, forti della vostra ritrovata essenzialità (agli occhi della popolazione nordica), le sirene più o meno spiegate del razzismo sempre presente.

In conclusione, che resta altro da dirvi? Per l’ennesima volta, v’invito: Tornate al Sud, e facciamo la rivoluzione! Conviene anche a voi.



 

 

lunedì 13 luglio 2015

Diciassette ore per l'accordo e la camicia di Nesso



Diciassette ore, il vertice più lungo di sempre dell’Unione Europea, per decidere le sorti della Grecia. Già prima, però, di queste diciassette ore ormai consegnate alla Storia, ce ne erano state altre, di diciassette (e forse più) ore.

Quelle in cui la Germania avrebbe voluto, anziché una riunione dell’Eurosummit dei Paesi che hanno adottato l’euro (e che poi, alla fine, ha dato il via libera all’accordo), la convocazione del Consiglio UE a 28 Stati. Due consessi, questi, non solo terminologicamente diversi. E sì perché convocare il Consiglio UE dei 28 Stati anziché l’Eurosummit, avrebbe significato disporre di una maggioranza decisiva, evidentemente non posseduta con l’Eurosummit, per “ordinare il fuoco” sull'insolvente Grecia.

L’aneddotica vorrebbe che a far optare per l’Eurosummit e quindi, per il raggiungimento dell’accordo, ci sarebbe stato addirittura il Presidente Obama comprensibilmente preoccupato per l’equilibrio geopolitico dell’area. Tant'è, comunque: nelle diciassette ore del summit ecco prendere forma, come un’idra immonda dalle diciassette teste, un nuovo programma di aiuti del Fondo Salva-Stati da 86 miliardi in cambio di una riserva in cui far confluire 52 miliardi di asset greci “da privatizzare per realizzare profitti, abbattere il debito e ricapitalizzare le banche”. Ovviamente, il tutto condito dall'immancabile prospettazione (realistica, tremendamente realistica!) di un Governo di unità nazionale ora e di elezioni in autunno, con l’inevitabile corollario di un esecutivo scelto ed eterodiretto dalla Troika; nello specifico, rimpinguato con i centristi di Potami guidati dal giornalista televisivo Theodorakis, espressione degli oligarchi ellenici, e con gli onnipresenti tecnocrati, alla stregua di quanto già accaduto nel 2011 con Lukas Papademos, uomo Goldman Sachs.

Insomma, anziché “abbracciare l’Europa”, come invogliava a fare Helmut Schmidt, la Sig.ra Merkel avrebbe compiuto proprio quell'azione deprecata dallo stesso Schimdt, vale a dire vi si è seduta sopra, con tutto il peso di un fondoschiena che qualcun altro ha definito in maniera comunque inqualificabile.

L’aneddotica di cui sopra, nelle diciassette ore del vertice europeo, non ha tardato a consegnarci la gruccia su cui appendere la giacca che il prostrato Tsipras avrebbe offerto (“A questo punto, se volete prendervi pure la giacca…!”) alla famelica ditta Germania&C..

In sintesi, dopo la cravatta (quest’ultima, in verità, già data in pegno prima ancora di iniziare le trattative a mo’ di garanzia) e la giacca, il tenace Tsipras rischia di restare a petto nudo di fronte al consesso europeo. Certo, resterebbe pur sempre la camicia.

Diciassette ore per togliergli anche la camicia?

No, per carità, togliere la camicia ad un greco è operazione assai perigliosa. E non mi preoccupo, beninteso, della sorte della Germania e del suo Primo Ministro (ci mancherebbe!) ma della sempre più fragile e negletta Europa.

Non vorrei, insomma, che la camicia di Tsipras, ultimo brandello di dignità di un popolo glorioso, si tramutasse nella camicia o tunica di Nesso capace, non appena indossata, di attaccarsi alla pelle, in questo caso dell’Europa tutta, procurandole sofferenze sì atroci da indurla a gettarsi nelle fiamme di un rogo.

Se così fosse, se l’ingordigia del Kapitale Europeo esigesse pure quest’ultimo totem, ebbene temo che il numero diciassette (diciassette ore per il concretizzarsi della disfatta greca) possa esplicare in pieno tutta la sua funesta simbologia. Già, il diciassette! Consideriamolo scritto in numeri romani: XVII, per l’appunto. Ora anagrammiamo questo risultato: VIXI, “vissi, ho vissuto”; quindi “sono morto”.

In conclusione, il pretendere anche l’anima del popolo greco, temo possa condurre, nel breve volgere di una manciata di diciassette ore, alla morte dell’intera impalcatura europea, almeno di quella prefigurata (e mai realizzata!) nel Manifesto di Ventotene del nostro Altiero Spinelli.

giovedì 9 luglio 2015

La buona scuola e la maestrina dalla penna rossa



La c.d. “buona scuola” di Renzi è ormai legge della Repubblica. Ebbene, cosa sarebbe successo alla mia maestrina dalla penna rossa se si fosse trovata ad insegnare in questa realtà scolastica che si prefigura carica di nubi all'orizzonte?

Ci risiamo, sempre il solito vizio di spostare fatti e situazioni in un epoca diversa da quella in cui quei determinati fatti e quelle determinate situazioni si sono verificati! Ma tant’è, alle perversioni mentali (almeno a quelle innocue) bisogna pur dare sfogo, no? E allora eccomi qui, in parte a raccontarvi una storia più o meno vera, in parte a proiettare questa stessa storia in un contesto che, molto probabilmente, non avrebbe neppure consentito alla maestrina dalla penna rossa di esistere (se l’esistenza deve, in buona sostanza, identificarsi con l’esperienza fattuale).

Ma veniamo a noi. Siamo a metà anni Ottanta del secolo scorso. La scuola, è quella elementare di una frazione di Salerno. Una scuola, quindi, distante poco più di cinque chilometri dal centro ma sufficienti, loro malgrado, a piantare qualche albero in più sull'orizzonte di una piena apertura mentale.

La maestrina dalla penna rossa arriva a bordo di una fiat centoventisei color malva a rivoluzionare il grigio e il nero delle autovetture degli altri maestri e delle altre maestre. Tempo un mese dall'incarico, che il parcheggio della scuola si trova orfano di tre automobili. E sì perché la nostra maestrina, ambientalista convinta, reputa un affronto alla tutela ambientale (!) l’equazione “una persona=un’automobile”, e allora via con un car poolingn ante litteram.

Le aule di quel color verde naja che zavorrano i neuroni, vengono ricoperte di cartelloni variopinti, ovviamente disegnati dalla maestrina, in cui si narrano le vicende di un gatto e di un topo che mentre si bisticciano, fanno pace, si tributano gesti di amicizia illustrano, ad un tempo, una coinvolgente e colorata sillabazione delle parole.

Grazie alla maestrina dalla penna rossa, nei lontani anni Ottanta del secolo scorso, un armadietto sigillato e pieno di polvere che si trova, chissà con quale funzione, in fondo all'aula, viene riempito di libri portati lì da una biblioteca scolastica di cui, fino all'arrivo della maestrina, era ignota persino l’esistenza.

E poi i tornei di lettura, la partecipazione a numerosi concorsi letterari, le tecniche tra il psicologico e il suggestivo per leggere e scrivere meglio, e via di questo passo.

Il preside, reazionario nostalgico del “Dio, patria e famiglia”, pur guardando fin dall'inizio con diffidenza la maestrina e i suoi colori accesi, deve far buon viso a cattivo gioco in nome di una preparazione degli alunni, vai a capire perché, effettivamente migliorata dalla venuta della sua sottoposta.

Tre, però, sono gli eventi che fanno ben presto precipitare la situazione. Nell'ordine, l’abolizione nell'ultimo anno, dietro insistenza della classe (“il potere della classe, pfui!”), degli odiati grembiuli bianchi per le femmine e blu per i maschi; l’aver consentito ad un alunno di non frequentare l’ora di religione; in ultimo, e con effetto deflagrante per l’intera vicenda, lo scambio culturale Italia-Francia!

Ebbene sì: la maestrina dalla penna rossa, laureata in lingue, fin dalla prima elementare (e siamo negli anni Ottanta!) ha insegnato il francese in classe. L’ultimo anno poi, a coronamento di questo quinquennio di studi, intende organizzare uno scambio culturale con una scuola francese (il progetto Erasmus nasce solo nel 1987, e unicamente per gli studenti universitari!!): una settimana gli scolari italiani in Francia, ospiti delle famiglie dei rispettivi alunni francesi e una settimana, a distanza ovviamente di un po’ di tempo, i piccoli francesi in Italia.

Il preside allora, venuto a conoscenza del disegno sovversivo dell’insegnante, fa fuoco e fiamme per evitare questa “inutile contaminazione”. La maestrina dalla penna rossa però, forte dell’affetto smisurato dei suo scolari e della fiducia che si è saputa guadagnare dalle famiglie dei suoi alunni, si accarezza tronfia la penna rossa e va avanti, fino a realizzarlo, nel suo sogno.

Quella piccola comunità, distante poco più di cinque chilometri da Salerno, diviene l’avanguardia di un nuovo modo di fare scuola.

Questi sono i fatti. Ora io mi chiedo: se la c.d. “buona scuola” di Renzi fosse stata in vigore nel periodo storico da me trattato, ebbene, la maestrina della penna rossa sarebbe mai stata chiamata direttamente dal preside di quella scuola elementare a poco più di cinque km da Salerno? E, ciò che è più grave, sarei l’io di adesso, talis et qualis (nel bene e nel male, s’intende) se la mia vita non fosse stata contaminata dal fremito rivoluzionario della maestrina dalla penna rossa?

 

giovedì 2 luglio 2015

Grecia: l'ostracismo dei "comitati d'affari delle forze di mercato".



Grecia, Europa. Il sempre attuale Karl Marx, nel primo capitolo del Manifesto del partito comunista, definiva i governi moderni come comitati d’affari delle forze di mercato.


E che cosa sono le nostre istituzioni europee se non, per l’appunto, comitati d’affari che hanno barattato un’idea sublime come quella dell’Unione Europea con gli indici di borsa? Le spese di questa perversa logica, e lo vediamo da un bel po’ di tempo, le sta pagando soprattutto la Grecia di un coraggioso ma scioccamente isolato Tsipras.
Adesso, le corone d’alloro su teste pidocchiose (Dostoevskij) dei regnanti europei, attendono l’esito del referendum di lunedì cinque luglio per decidere se intaccare il cuore o limitarsi ad altri organi, importanti ma non vitali, del demos greco. 
In questi giorni in Grecia, ad Atene, è piazza Syntagma a farla da protagonista. Nell’agorà ateniese, infatti, si sono radunati, a giorni alterni, i sostenitori dell’ Oxi e quelli del Nai. E già le diplomazie europee sono impegnate nell'opera di moltiplicazione delle teste che sfilano per il “sì” e nella divisione di quelle che sostengono le ragioni del “no”. Nulla di nuovo sotto il sole; se non fosse, a ben vedere, per il ricorso ancora una volta alla piazza, all’agorà.

La piazza greca, ombelico del mondo, ha dato i natali alla democrazia; la piazza greca ha conquistato i barbari romani (Graecia capta ferum victorem cepit) e proprio nell'agorà, oggi, si fronteggiano le ragioni di chi voterà per un destino, chi per un altro. Gli epigoni di entrambe le fazioni, quindi, con quell’andatura tipica (mani dietro la schiena, passo lento e traiettoria irregolare) di chi si “reca in piazza per vedere che si dice” (agorazein), scriveranno metaforicamente Oxi e Nai sulla leggendaria pietra di ceramica (ostracon). E sì perché ai tempi della Grecia di Pericle, quando un tizio si convinceva che un suo concittadino avrebbe portato nocumento alla polis, si recava in piazza e scriveva il nome del nemico su una pietra di ceramica, l’ostracon (da cui il termine “ostracismo”). Non appena la persona presa di mira, quindi, raggiungeva seimila preferenze, trascorsi dieci giorni per salutare amici e parenti, era costretto a prendere la via dell’esilio che poteva durare, quest’ultimo, dai cinque ai dieci anni.
Ebbene, poiché il vero nemico della Grecia e di tutto il sogno prefigurato dai padri nobili dell’architettura europea, è la famelica Troika, speriamo che lunedì cinque luglio il popolo greco sappia avere uno scatto d’orgoglio e si rechi in piazza per depositare il proprio ostracon con sovrimpresso un bel Oxi, non foss’altro che per evitare al comitato d’affari europeo di continuare a comportarsi come il gigante Procuste. Ed infatti come questa creatura mitologica aggrediva i viandanti stirandoli (rispetto all'incudine a forma di letto sulla quale venivano adagiati i malcapitati) se troppo corti , o amputandoli qualora sporgessero dal letto, allo stesso modo il governo europeo si crede in diritto di azzannare la dignità del popolo greco (tra l’altro, esente da colpe visto che gli euro fino ad ora elargiti alla Grecia si sono inceppati nei gangli degli interessi usurai) e, al contempo, di foraggiare il ventre insaziabile della speculazione non appena l’una o l’altro non siano conformi al suo metro di giudizio.
Nel meraviglioso vaso di Assteas che ho avuto l’onore di ammirare, è raffigurato il ratto di Europa da parte di Zeus, per l’occasione mutatosi in un dolcissimo e regale toro bianco. Ebbene, cari membri del comitato d’affari europeo, sappiate che il toro in questione non si reca, con in groppa la bella giovane, a Berlino o a Parigi. Nossignore. L’animale del mito porta Europa a Creta. E l’isola di Creta si trova, guarda caso, proprio in Grecia.
A volte, la cultura aiuta.

mercoledì 1 luglio 2015

"S. il Nobel privato" di Domingos Bomtempo


Questo che si preannuncia come il romanzo dei misteri (chi è S., il protagonista dell’opera? E chi è Domingos Bomtempo, la mirabile penna che ci tiene incollati fino  all'ultimo capoverso?) si rivela, in realtà, misterioso solo per l’identità dell’autore (anonimo dietro al quale può celarsi qualsiasi mente, non ultima quella dello stesso S. le cui vicende vengono narrate nel libro)

E sì perché l’S. di cui si parla nel romanzo, l’unico portoghese ad aver vinto il premio Nobel per la letteratura, è chiaramente Saramago ovverossia quel nome
che pure a dividerlo in due era strano, la prima parte nome di donna e la seconda carica di molti poteri, come se in lui vi fosse una femmina stralunata dalle magie di un uomo.
Femmina-uomo, maschio-femmina: già, è proprio dal connubio peccaminoso di queste due nature discinte (i genitori che rantolavono nudi sopra una stuoia, e alla fine ululavano (…), soprattutto sua madre che pare che la scannassero. E a occhi chiusi vedeva le croci di sangue disegnate sui loro petti), proprio da questo accoppiamento selvaggio la cui violenza oltraggiava i sogni notturni del piccolo S., dicevo, che nasce l’impotenza del protagonista che si nutre di erezioni molli e vischiose, alla stregua dei flaccidi e imbelli contorcimenti di una lumaca.
Purtuttavia, però, il “maschio” S. ha le sue esperienze sessuali, in alcuni casi trasferendo la mascolinità in altro muscolo del corpo; in altri, per un’immediata e misteriosa suggestione, facendo leva proprio sullo stesso membro che troppe volte era rinculato in vergognose ritirate. Fino ad arrivare all'ultimo amore di S., la giovanissima compagna giornalista che gli fa anche da agente, ad aspettare la quale, assieme al suo cane Arrivato (ironia della sorte, il nome scelto per l’animale è proprio quel participio passato tante volte inutilmente invocato dal protagonista), passa molte notti insonni.
Romanzo erotico, quindi, questo di Bomtempo. Poi, però, c’è il Nobel, la patente che, tra ironia e disincanto, trasforma lo scrittore S. nell'oracolo che può finanche dire, quasi senza pagare pegno, che il Portogallo è una regione della Spagna. Lo stesso Portogallo, amato fino ad ammalarsene ma, a un tempo, odiato al punto da costringerlo a rifugiarsi nella più “laica” Spagna che continua, nonostante tutto, ad ammaliare il protagonista:
del resto, cosa poteva capitare ad un popolo che nella piazza principale della sua capitale ha una statua equestre che dovrebbe rappresentare un suo re e invece (…) è solo la statua a cavallo di un messicano?
Ma, dicevamo, il premio Nobel. Proprio attorno a questo ambitissimo premio, ruotano altri scrittori non menzionati nel libro, tutti comunque invidiosi dell’ambito riconoscimento conseguito da S.. Tra gli altri, il nostro Tabucchi che, secondo S., è a tal punto stitico nello scrivere, che l’editore è costretto ad allungare il brodo con numerosi fogli bianchi; l’altro portoghese Antunes, l’eterno secondo, che quando l’editore non può riceverlo subito perché occupato in altre faccende, si vede imbrattato il bagno di piscio sistematicamente depositato fuori dalla tazza. E poi non costa fatica ravvisare l’eclettico Dario Fo, di cui S. parla, invece, per illustrarci la reazione sorpresa dell’intellighenzia per l’assegnazione del Nobel al “saltimbanco italiano”.
Che poi, a dirla tutta, ‘sto Nobel non è che sia ‘sta gran cosa, come rivela sornione lo stesso S. quando riporta i consigli della giovane moglie:
Vuoi diventare famoso? (…) Scrivere cose difficili che tutti possano capire. Insomma, se li fai sentire intelligenti, non ti ferma più nessuno. Butti lì una difficoltà e poi la spieghi senza che loro se ne accorgano. Se ce la fai, diventerai uno degli scrittori più famosi del mondo, soldi a palate, case e ville.
S. il Nobel privato vuole essere inoltre, sia pure in minima parte, il libro degli ideali politici, di quel comunismo sempre difficile da perseguire (d'altronde, come si affretta a precisare, sagace, S., è molto più facile fare il bene che il male) ma che comunque, in lui che ha vissuto le coperte impegnate dalla madre non appena finiva l’inverno, è sempre presente, nonostante l’agiatezza attuale.
Infine, ma questa è una tematica che potremmo definire, assieme alla sessualità, la traccia più vivida del romanzo, vi è la tenerezza struggente di S. che ci viene presentato, per larga parte dell’opera, nella sua veste di vecchio ultraottantenne. E sembra quasi di vederlo lì, insonne e in colloquio perenne con l’altrettanto decrepito Arrivato, nella casa in riva al mare. Entrambi aspettano che la risacca della notte riporti loro i passi dell’amata donna e padrona, di ritorno dall'ennesimo tradimento richiesto dalla sua carne indomita. E come ogni volta, quando le sue vesti ancora contaminate da intemperanze virili che resistono, sfrontate, alla salsedine purificatrice segnalano l’avvicinarsi della sua presenza, il vecchio cane e l’ottuagenario S. ritornano in vita. Quella stessa vita che il protagonista ammira, estasiato e commosso, nelle fogge della giovane moglie che dorme stanca, complice una porta lasciata colpevolmente socchiusa. Quella stessa vita, infine, che esigerà l’ultimo rantolo del nostro S., incapace di trattenere ancora oltre l’amore incommensurabile per l’uomo e le sue dolcissime miserie.

venerdì 26 giugno 2015

"Povera gente", di F. Dostoevskij



A ventidue anni Dostoevskij è promosso ufficiale ma, affascinato dall'universo altro che i suoi autori preferiti (tra gli altri Pukin, Byron, Scott, Hugo, Schiller, Shakespeare) gli lasciano intravedere, rinuncia alla carriera militare per darsi anima e corpo alla letteratura.


E mentre si arricchisce l’animo con frange d’infinito, s’impoverisce la scarsella che ben presto gli mostra, disarmata, il fondo della cucitura.

Che fare, allora? Il giovane Dostoevskij riesce a sfamarsi con qualche traduzione che di tanto in tanto gli affidano.

Ben poca cosa, a dirla tutta.

Proprio in questo contesto di estrema povertà allora, nasce Povera gente, uno “studio magistrale sugli uomini” (Zweig).

“La sua più grande umiliazione, la povertà, lo ha (il capolavoro, ndr) generato; l’amore delle sofferenze, l’infinita pietà del male altrui, lo ha benedetto.”

Dopo non poche titubanze, Dostoevskij affida il manoscritto al poeta Nekrasov affinché lo esamini.



Alle quattro del mattino di due giorni dopo l’esaminatore è davanti alla porta dello scrittore perché avverte l’esigenza insopprimibile di abbracciarlo. “Un nuovo Gogol è nato!“, gli annuncia mentre non smette di stringerlo tra le sue braccia. E non a caso Nekrasov parla di Gogol perché il romanzo di Dostoevskij richiama, anche nel contenuto oltre che nello stile, Il cappotto di Gogol, il cui protagonista è proprio un copista alla stregua di Makar Alekseevič Devushkin personaggio principale, assieme a Varvara Dobroselova, di Povera gente.

L’opera di Dostoevskij è un romanzo epistolore: Makar e Varvara infatti, pur vivendo uno di fronte all'altra nella stessa strada, prendono l’abitudine di scambiarsi frequenti lettere.

Makar, così, contrae debiti, qualche volte si dà all'alcool. E proprio mentre sembra imboccare la via della perdizione, interviene Varvara. E’ lei che, dopo aver fatto scoprire a Makar che si può anche scrivere oltre che copiare documenti altrui, lo salva dal dissesto donandogli, tra l’altro, quei pochi spiccioli che il suo lavoro le consente di guadagnare. Seguendo i tratti di penna di questo carteggio, il lettore apprende della vita, dignitosa pur nella sua mediocrità di interessi e lusinghe di Makar, umile funzionario con la mansione di copista. Non appena, però, Makar inizia lo scambio epistolare con Varvara, sua lontana parente, nel quale si raccontano le piccole cause che fanno battere i piccoli cuori (Verga), intravede qualche tinta pastello nel grigiume, fino a quel momento privo di riscatto, della sua esistenza. Prende a vivere per lei e a riempirla di regali; per carità, piccole cose, ma che a un funzionario con uno stipendio modesto come il suo, non tardano a nuocere al punto da trascinarlo al di sotto di quell'esistenza (economicamente) appena dignitosa.

Varvara, che ha conosciuto la felicità solo durante l’infanzia, continuamente alle prese con una salute cagionevolerimette in sesto la vita di Makar.

Come un fulmine a ciel sereno, la svolta: Varvara capisce che non si può continuare in quello stato di povertà che finisce, a volte, per annientare anche l’anima. Forte di questa consapevolezza quindi, dopo l’incontro con il ricco e arido Bykov che subito si affretta a precisare che vuole prenderla in moglie solo perché ha giurato di togliere l’eredità ad un parente buono a nulla, Varvara decide ciononostante di accettare la sua proposta di matrimonio. E quando parla a Bykov dell’affetto che prova per Makar, lo stesso, come lei confessa nell'ennesima lettera inviata al dirimpettaio,

HA REPLICATO (…) CHE TUTTO QUESTO È ROMANZO E CHE IO SONO ANCORA GIOVANE E LEGGO I VERSI, CHE I ROMANZI ROVINANO LE RAGAZZE, CHE I LIBRI NON FANNO CHE GUASTARE LA MORALE E CHE NON PUÒ SOPPORTARE NESSUN LIBRO.

Il buon Makar, dal canto suo, cerca di dissuaderla

MA CHE È BYKOV PER VOI, DILETTA? COME MAI È DIVENTATO AD UN TRATTO PER VOI UN CARO AMICO? FORSE PERCHÉ VI COMPERA SEMPRE IL FALPALÀ? PER QUESTO, FORSE? (…) MA È UNA COSA DA NULLA, DILETTA; QUI SI TRATTA DELLA VITA UMANA, E IL FALPALÀ È UNO STRACCETTO. DEL RESTO ANCH’IO, ECCO, APPENA AVRÒ LO STIPENDIO VI COMPRERÒ IL FALPALÀ.

 Ad un certo punto della sua missiva di risposta, però, Makar Alekseevič Devushkin sembra quasi rassegnarsi al destino di sconfitta che aleggia sulle povere vite della povera gente. E qui l’opera di Dostoevskij, da vicenda privata, intimistica anche per la forma epistolare scelta, si muta in un mesto messaggio universale.