Quello che ermerge da questo libro, è il ritratto a tutto tondo di un essere "stra-ordinario".
Garibaldi marinaio innanzitutto, ma anche uomo dalle mille risorse e dai cento mestieri. Sempre a fianco (non di rado troppo ingenuamente) dell'ennesima parte di mondo implorante libertà e indipendenza, dal piccolo Rio Grande contro l'impero brasiliano, passando per l'Uruguay contro il generale argentino Rosas. E sì perchè per il nostro Peppino non c'è confine che tenga: qualsiasi lembo di terra che cerchi libertà, troverà, se lo vorrà, la sua spada pronta a difenderlo. E se anche la sua prediletta patria, alla quale ha immolato l'intera vita, dovesse sopprimere l'anelito di giustizia di un altro popolo, ebbene Garibaldi non avrebbe alcun dubbio: si schiererebbe addirittura contro il suo Paese, quasi senza battere ciglio.
Quest'opera ben documentata, ci mostra Garibaldi intimamente repubblicano che, pur di "fare l'Italia", è pronto a sposare la causa sabauda. E il rapporto con Vittorio Emanuele, tranne che nell'ultimo periodo in cui il Nostro si sentirà tradito un po' da tutti (mai dal "proletariato" e dagli oppressi, però), sarà imperniato su una non scontata fiducia reciproca. D'altronde, uno come Garibaldi disposto anche a farsi usare (più o meno coscientemente) pur di raggiungere l'unità nazionale, fa estremamente comodo: se si vince, è merito del re; in caso di sconfitta, la colpa è di quell'estremista del nizzardo.
Manco a dirlo, i rapporti con Camillo Benso Conte di Cavour sono ben più problematici: troppo distanti e incompatibili i caratteri tra i due uomini, così come estremamente diversi i sentimenti che li animano. Da una parte le sottigliezze e gli arzigogolii della politica, dall'altra le irruenze e le generosità dell'uomo del popolo. Per sottacere i rapporti con l'algido Mazzini, passati da un'entusiastica ammirazione a una sopportazione assai difficile.
Poco tattico, indisciplinato, mediocre stratega, ma quando si tratta di puntare sulla velocità e sull'intuizione che esala dalla polvere dei campi (di battaglia), allorchè occorre virare sulla guerriglia anzichè sulle truppe schierate; e ancora, nell'attimo stesso in cui si è irrimediabilmente in minoranza e tutto sembra drammaticamente votato alla sconfitta, allora Garibaldi dà il meglio di sè, capace di vincere le battaglie anche prostrato dall'artrite che non gli dà requie.
Idolatrato dalle folle, specie quelle più derelitte (ma non solo: si pensi all'accoglienza in Inghilterra da parte di oltre 500.000 persone), santificato già in vita (si specano le preghiere a Garibaldi e il numero di bambini che gli vengono protesi affinchè lui li battezzi), anticlericale convinto (propugnatore di una nuova religione), il Nostro non perde occasione anche di mostrarsi agricoltore: quando le vicende politiche lo disgustano (la qual cosa accade assai di frequente), ci sarà sempre la sua ostinata Caprera ad accoglierlo.
Verso la fine dei suoi anni, Garibaldi, dopo essersi preso il gusto di accorrere a difesa della Francia ("ma di tutti i generali francesi Garibaldi è il solo che non sia stato sconfitto" - Victor Hugo), matura una concezione dittariale fintanto che la nazione non sarà di nuovo pronta per la repubblica. E come un dittatore dell'antica Roma allestisce la pira funebre, lì a Caprera.
Ancora una volta, però, la politica degli intrallazzi ha bisogno di capitalizzare il fenomeno Garibaldi: niente pira e funerali in pompa magna, a dispetto delle ultime volontà del Nostro.
Di una genorosità estrema, disinteressato (tutte le testimonianze, pure dei suoi più acerrimi avversari, concordano sulla sua incorruttibilità), di una fibra assai forte che gli permetteva di resistere alle condizioni più estreme, Garibaldi ha da sempre popolato il mio immaginario. Dopo aver letto anche quest'opera sull'eroe nazionale, ancor di più.