martedì 3 marzo 2015

"Niente di nuovo sotto il sole": vince De Luca



Dalla finestra di casa mia, ho partecipato all’evento. Il caso ha voluto, infatti, che il De Luca-day si celebrasse (in parte, beninteso) nella scuola dirimpetto alla mia abitazione.

E io, almeno per una mezz’oretta, ho voluto assistervi. Mi sono fatto far compagnia, nell’ordine, da un paio di tazze di caffè, dallo Shrek di gomma che lanciavo, a intervalli più o meno regolari, al mio cane, dalla tristezza che sempre promana da un circo malandato, con bestie macilente, che si vende l’anima per staccare un biglietto in più.

Guardando i votanti di De Luca (nel mio seggio i voti per l’ex sindaco hanno raggiunto il 95% del totale) felicemente armati dei due euro (il prezzo della partecipazione al teatrino), ho visto una sfilata di personaggi, chi più chi meno, legati al potere cittadino: membri delle istituzioni locali che danno il voto al ras; dipendenti delle società miste che “Se non era per De Luca, facevamo la fame”; qualche imprenditore rampante, magari anche giovane, “Che è meglio stare con De Luca che contro”; alcuni politicanti di mezza tacca “Che Vicienzo non potrà scordarsi dei voti che gli porto”.

Mi sono involontariamente sorpreso a sorridere. A tal punto che pure Birillo, il mio cane, ha preso a guardarmi fisso, con la testa leggermente reclinata, come sempre fa quando vuole capire l’atteggiamento del padrone che non riesce a decifrare.

Ho sorriso, è vero, ma di un sorriso stanco. Mi sono ricordato (un ricordo, per via dell’età, più indiretto che personale) quando i comunisti, con lo sguardo affamato di diritti, con il callo dello scrittore sempre più marcato rispetto a quello del figlio del medico, si recavano alle urne per concretizzare il cambiamento. Li vedevi giovani (a prescindere dall’età), con i nervi tesi dalla lotta, fiduciosi che l’ascensore sociale (il classico figlio del contadino che deve poter diventare dottore) avrebbe dovuto funzionare anche per loro.

Per il De Luca-day (ecco il motivo del mio riso triste), per le primarie del PD, partito che dovrebbe incarnare l’evoluzione della Sinistra, ho visto votanti… di destra. Svogliati, appagati, inseriti o in via d’inserimento nell’ingranaggio del potere. Il posto del grande cambiamento (quello che avrebbe dovuto essere e non è) l’ho visto arrogantemente occupare dalla BMW, parcheggiata nello spazio riservato ai disabili, che ha trasportato una testa di cazzo che si recava al seggio.

Lo confesso: ho sperato che quel tizio non fosse conosciuto da nessuno. Non dico disprezzato, ma almeno ignoto agli elettori. E invece, appena imboccato il viottolo della scuola, ecco che il manipolo di votanti del De Luca-day gli ha tributato un’ovazione degna di miglior sorte.

Ho pensato (e giuro, mi sono ripromesso di non pensare più) a quando il vecchio PCI addirittura (e in maniera sbagliata, sia chiaro) proibì a “il Migliore”, Palmiro Togliatti, di ripudiare ufficialmente la moglie per unirsi alla compagna Nilde Iotti: tutto questo, ovviamente, in nome di un partito inattaccabile e “morale”. E quindi, sulla scorta del PCI che fu, mi deprimo al solo considerare lo status quo: Vincenzo De Luca imputato, osteggiato dal suo segretario (la minuscola è voluta) per “salvare le apparenze” che, a dispetto del suo partito, si candida contro un figlioccio del pessimo (a parte una breve stagione riformista) Bassolino. Ma vi è di più: non solo decide di candidarsi infischiandosene del vulnus di legalità arrecato a quel che resta della famiglia di appartenenza, ma vince pure, con il contributo economico dei votanti che investono due per ricavare, in un modo o nell’altro, duecento.

Il sorriso di prima si è trasformato in un ghigno che Birillo non fa alcuno sforzo a capire, nel momento in cui mi raffiguro le dichiarazione del dopo voto. Ecco, con ancora nelle orecchie l’invito all’astensione di Roberto Saviano, vedo già il truce (ma, perché, oltre all’incazzato e al sarcastico, non riesce ad atteggiare il suo volto a qualch’altra espressione?) De Luca, sempre sul punto di pronunciare il verbo che giudicherà i vivi e i morti, che parla con gli occhi spiritati di “miracolo“, “festa della libertà“, “rivoluzione democratica“. Insomma, proprio le stesse parole che l’ex sindaco ripete da oltre un ventennio, per qualsiasi cosa, che vanno benissimo, beninteso, anche nella stagione della vittoria alle primarie del PD.

Nulla di nuovo sotto il sole (stanco).

martedì 24 febbraio 2015

Alla morte del Liceo Classico, cin cin!

Liceo Classico, requiescat in pace

Adesso c’è la statistica a certificarne l’agognata morte: solo il 5,5% delle nuove iscrizioni on line 2015-2016 sono incanalate nel solco, un tempo magnus et magnificentissimus, del Liceo Classico.

E finalmente, direi.

Che c’ho io contro il Liceo Classico? Tutto.

E basta, nell’ordine, con gli occhialuti sgobboni sempre pronti a biascicare perifrastiche ottativi; con i chiattoni (e per forza, con tutte quelle ore passate, inchiavardati sulle sedie, a tradurre versioni!) che se ne vanno in giro con ‘sti mastodontici e anacronistici IL e Il Rocci (rispettivamente vocabolario di latino e di greco); smettiamola con gli studentucoli precocemente stempiati, eternamente sudaticci, della Grecia “culladellacultura” (che mo la voglio vedere, la Magna Grecia, a filosofeggiare nell’agorà, con le pezze al culo cucite e scucite da Tsipras, novello Penelope); con gli snob smidollati delle esse mosce e delle erre arrotate sul mantra del “noisaremolaclassedirigentedelPaese”.

La Storia finalmente ha pronunciato il suo verdetto: la mala pianta degli studenti del Liceo Classico rappresenta la genia dei nuovi vinti, destinati come sono a chinare il capo al cospetto della fiumana del progresso.

Troppo “pensanti” (il danno che fa ‘sta filosofia!) per far correre il rischio agli imprenditori del ghe pensi mì di assumerli. Eccessivamente rimbambiti dalla democrazia ateniese e dallo ius latino per rischiare di candidarli finanche alla direzione della bocciofila di quartiere.

Maledettamente abituati a leggere libri (cartacei, ovviamente), col puzzo di stantio e con una sfacciata pateticità che esala dal loro fio alitoso, per sottomettersi a un’attualità stuprata dalle immagini. Testardamente “profondi” per farsi infinocchiare dal politico di turno che promette lavoro a chi cerca lavoro e riduzione della settimana lavorativa a chi è stressato per la troppa fatica.

Vai al Liceo Classico – invogliavano – che dopo, con la preparazione con la quale ne uscirai, potrai affrontare qualsiasi percorso di studio“.

Iscriviti al Classico – continuavano a invogliare – che la cultura che ti dà il Liceo Classico te la porti dietro per tutta la vita, qualsiasi cosa tu decida di fare poi“.

Io sorrido. Anzi, rido proprio. Ma la volete sapere tutta? Io mi scompiscio dalle risate. Perché? Oh! Bimbo semplice che fu (riferito al sarchiapone di turno che s’è lasciato abbindolare), dal cuore in mano e dalla fronte alta!

In una società dove le qualità per affermarsi sono, per ordine d’importanza, i soldi (più se ne posseggono, meno vien voglia di perdersi dietro sciocchi retropensieri circa l’origine della vil pecunia); l’aspetto fisico (il primo requisito richiesto dal dio Telecamera); i natali illustri, nobilissimi e perfetti (il figlio del politico fa il politico, quello dell’avvocato svolge la professione forense); il mostrare un’entusiastica superficialità per le piccinerie del mondo (guai a sapere qualcosa in più e più approfonditamente della sciatta mediocrità). Ebbene, in un quadro del genere di quello appena abbozzato, ditemi voi quale posto possa occupare, quale parte recitare, il povero discente del Liceo Classico?!

Io, nonostante tutto, un’idea ce l’avrei. Creiamo una riserva, modello WWF, in cui salvaguardare le poche specie rimaste di quello che fu lo studente del Liceo Classico. Potremmo addirittura, a ben pensarci, mettere insieme un percorso guidato della sua strombazzata evoluzione: da imberbe ginnasiale, poi maturo liceale, a cui avevano affidato le chiavi del Mondo Nuovo a reduce, disadattato come tutti i reduci, da una guerra mondiale che ha annientato ogni sfumatura di profondità.

Dimenticavo, e concludo: se oltre alla preservazione della specie, con annesso percorso evolutivo, v’interessa una cavia che si conceda completamente a voi e alla vostra scienza; se vi manderebbe in brodo di giuggiole il solo pensiero di poter condurre esperimenti su chi come me, a questo punto lo confesso, non solo ha frequentato il Liceo Classico, ma ne va addirittura fiero, ebbene, accomodatevi pure: queste sono le mie frattaglie. Ma a una condizione, però: continuerò ad affermare, almeno fino a quando non mi avrete intaccato l’ultima riserva di vita, che il mio Laocoon ductus Neptuno sorte sacerdos da Liceo Classico varrà sempre infinite volte di più del vostro bisturi da Grandi Scuole.

martedì 17 febbraio 2015

Festival archiviato: ma i testi delle canzoni?

Pensate che dopo una settimana di Festival nazional-popolare ne possiamo avere abbastanza?

Anch’io. Solo che, “tagliato” con le “sostanze” più disparate (dal glamour all’antropologia), non vedo perché solo io debba esimermi dal compito di dire la mia in proposito. E quindi, dall’alto del nostro appuntamento di letteratura e dintorni del martedì, mi accingo ad analizzare, sotto il mio particulare punto di vista, l’appena concluso festival di Sanremo.

Pronti, via.

Basta spendere i canonici dieci minuti per leggere tutti i testi delle canzoni in gara, però, che il “mi ci provo” delle intenzioni auliche, lascia il passo al “mi ci impicco” delle constatazioni avvilenti: anche utilizzando la manica più larga che posseggo in dotazione, infatti, scorgo ben poco all’orizzonte.

Le uniche canzoni del Festival che lasciano trasparire qualche frase almeno non banale (ed è tutto grasso che cola… o tempora…!) sono Sogni Infranti di Gianluca Grignani, Vita d’inferno di Biggio-Mandelli, Oggi ti parlo così di Moreno, Io sono una finestra di Di Michele-Coruzzi, Adesso e qui (nostalgico presente) di Malika Ayane (vincitrice del Premio della Critica), Che giorno è? di Marco Masini.

Orbene, sia chiaro: niente di sotto lo sguardo vitreo/dei bicchieri di boemia di Paolo Conte (frase che avrebbe fatto gridare al miracolo, specie in un Festival da “diabete autoreferenziale a go-go” come questo appena passato), ma nemmeno di porta la mia vita a correre da qualche parte/stancala, by Mario Venuti di appena qualche Sanremo fa. Insomma, niente di tutto questo. E, ovviamente, rispetto a sì elevate vette di pensiero trasfuso in canzone, tutto il resto non può essere nient’altro che noia. Ma tant’è. Ci sono volte nella vita in cui bisogna fare le nozze coi fichi secchi.

Ed ecco, allora, che ci dobbiamo accontentare di: i ragni fanno i nidi sulle tue rovine come su un ramo, di Gianluca Grignani “fiori del male-Baudelaire“; si soffre come ai tempi degli antichi, ma in un modo più moderno, dei Soliti Idioti (!) “stoici alla Seneca di è l’animo che devi cambiare, non il cielo sotto cui vivi“; è la passione il pass per arrivare al cuore e tenerlo vivo come un bypass, di Moreno “Medicina 33“; crisalide perenne costretta in mezzo al guado, di Di Michele-Coruzzi “al limitar di gioventù salivi; silenzi per cena, di Malika Ayane “ioperlamiastradatuperlatua”.

Infine, tra le frasi “laureate” del Festival di Sanremo 2015, non si può non menzionare lo Smettila di smettere del pur bravo Marco Masini “Baricco girato a prestito da Renzi“. Lontani i tempi in cui il toscanaccio della musica italiana addirittura coniava un neologismo (Malinconoia) che veniva riportato paro paro nel dizionario Devoto-Oli.

Altri tempi, quelli. Altri Festival.

Era un mondo adulto: si sbagliava da professionisti (Paolo Conte).

P.S. Significherà qualcosa che il Maestro Conte ha sempre preferito il Premio Tenco al Festival di Sanremo? Temo di sì.


martedì 10 febbraio 2015

“Il reparto n. 6″, di Anton Cechov (II/II)


 

Abbiamo lasciato, nella prima parte della recensione del racconto di Anton Cechov, il dottor Andrej Efimyc che inizia a frequentare il reparto n. 6.
Il dottore, infatti, emblema cechoviano dell’ “uomo superfluo” (uomo che, frustrato nelle sue illusioni e murato in un’incomunicabilità esistenziale, si muove sullo sfondo grigio e opaco di un mondo privo di valori ed attrattive), sembra trovare nell’intelligenza del paziente Gromov, una possibile via di fuga dalla stupida vanità del mondo.

Certo, ci sono sempre i libri, ma come Anton Cechov fa dire al dottore, essi non possono sostituire la conversazione, il rapporto diretto perché se i libri sono le note, la conversazione è il canto. E tale conversazione inizia quasi per caso: mentre il medico inneggia alla figura di Diogene che, armato di un pensiero libero e profondo e del completo disprezzo dell’ignoranza umana, sarà più felice di tutti i re della terra anche rinchiuso, così com’è, in una botte. Ivan Dmitric Gromov, dal canto suo, ribatte che il Diogene del dottore è un fanfarone perché

comodo a starsene in una botte a mangiare arance e olive. Avesse provato a vivere in Russia, non dico in dicembre, ma anche solo in maggio, una stanza calda l’avrebbe voluta eccome. Si sarebbe incurvato tutto dal freddo!

Cechov, quindi, contrappone alla filosofia del dottore, che discetta dell’inutilità di tutto, finanche del dolore dal riparo, però, della sua posizione sociale, la realtà della sofferenza vissuta sul corpo (maltrattamenti) e nell’anima (reclusione) del paziente, scontata (la morte si sconta vivendo) nel reparto n.6.

Nel frattempo, in aiuto ad Andrej Efimyc, viene chiamato il medico provinciale Evgenij Fedoryc Chobotov che – Anton Cechov subito aggiunge – fa amicizia con l’infermiere capo e che ha un solo libro nell’appartamento.

Dopo diversi incontri con Gromov, il dottore incomincia ad assumere una visione diversa sulle cose. Non riesce a sopportare nemmeno più l’amico di un tempo, il direttore della posta Michail Aver’janic.

Anton Cechov, allusivo, afferma che il suo comportamento sembrava strano.

Si avvia l’ingranaggio della paludosa normalità. Gli nominano una commissione (di cui fa parte anche Chobotov) per verificare le sua facoltà mentali. A questo punto il dottore, malgrado aneli alla solitudine (Lucifero si ribellò a Dio probabilmente perché voleva la solitudine che gli angeli non conoscono), accetta l’invito del direttore delle poste a intraprendere un viaggio con lui. Esperienza, quest’ultima, che gli fa toccare con mano la grettezza della natura umana, in quel caso ben rappresentata da Michail Aver’janic e dalla sua dozzinalità.

Andrej Efimyc, al direttore delle poste che lo prega di ricoverarsi, risponde che la sua malattia consiste nel fatto che in vent’anni ha trovato un solo uomo intelligente in tutta la città, e quest’uomo è un matto. Basta questa affermazione per far meritare all’incauto dottore la reiezione, totale e irrevocabile, dal consesso sociale.

Con la scusa di invitarlo a un consulto assieme a lui, Evgenij Fedoryc Chobotov lo porta al reparto n.6. Poi (Andrej Efimyc) indossò gli indumenti dell’ospedale: le mutande erano corte, la camicia lunga, la vestaglia puzzava di pesce affumicato.

In un primo momento il dottore, coerente con la sua filosofia, accetta tutto (Fa lo stesso!). Dopo un’ora, però, e mentre Ivan Dmitric Gromov dorme, una “noia angosciosa” prende il sopravvento. A questo punto sembra che sia lo stesso Anton Cechov a chiedersi: ”Possibile che si possa vivere giorni, settimane, anni come quella gente?”.

Dopo l’affermazione (la vita è una maledizione!) del suo ex paziente, il dottore finalmente capisce: Ecco la realtà!” pensò Andrej Efimyc, e provò terrore. Terrore per la luna, per i chiodi dello steccato, per la fiamma lontana del forno crematorio.

Il pugno di Nikita, infine, gli fa capire che quella imperturbabilità (atarassia) elevata a filosofia dell’Andrej Efimyc di un tempo, non era frutto di una speculazione “alta”, ma solo una comoda via di fuga dalla vita vera.

In questo racconto lungo, che ben può definirsi la più cupa delle novelle cechoviane illuminata, però, dall’utopia avveniristica di un mondo senza ospedali né prigioni, ben si ravvisa lo stile di Cechov; quel modo di scrivere, cioè, che il grande Tolstoj paragonò opportunamente alle pennellate degli impressionisti francesi, apparentemente messe a caso ma che, a distanza, offrono un “quadro chiaro, indiscutibile”: il quadro, appunto, della Russia di Alessandro III, tra il tramonto della società zarista e l’alba della rivoluzione.

Sono rimasto addirittura raccapricciato; non sono potuto restare nella mia stanza; mi sono alzato e sono uscito. Avevo proprio la sensazione di essere chiuso nel reparto n. 6. (Lenin)



martedì 3 febbraio 2015

“Il reparto n. 6″, di Anton Cechov (I/II)

Eccolo qui che prende forma, il reparto n. 6 di Cechov

Lungo le sue pareti sono ammucchiate intere montagne di rifiuti ospedalieri: materassi, vecchie vestaglie a brandelli (…), camicie a righe azzurre, scarpe logore, inservibili. E da queste spoglie di squallida pazzia, esala l’immancabile puzzo di cavolo acido.

Eppure lì, oltre la facciata posteriore, ci sarebbero i campi, le lusinghe di una vita “sana”; l’anelito, però, è ben presto frustrato dal grigio steccato dell’ospedale, pieno di chiodi (…) le cui punte sono rivolte all’insù (e come non riandare, con la memoria, ai cocci aguzzi di bottiglia del rovente muro d’orto di Montale?).

Dopo il custode dell’ospedale Nikita (è uno di quegli uomini semplici, positivi, efficienti e ottusi che più di tutto al mondo ama l’ordine e perciò è convinto che bisogna picchiarli, i matti), Cechov passa in rassegna uno dei pazienti sovvertitore, suo malgrado, dell’ordine agognato dal custode, Ivan Dmitric Gromov (i lineamenti sono raffinati, portano il segno di una sincera, profonda sofferenza, rivelano intelligenza e saggezza) che soffre di manie di persecuzione.

La penna di Cechov, infine, si attarda a tratteggiare la figura del dottore Andrej Efimyc, che è chiamato a occuparsi del reparto n. 6. Un nichilista che non ha il coraggio di prendere in mano la sua vita e di condensarla in una posizione purchessia. È al corrente, ad esempio, che Nikita picchia senza ritegno i degenti, che all’interno del reparto vengono commessi dei furti. È  anche a conoscenza dell’abitudine del vecchio dottore di vendere clandestinamente l’alcool. L’unica cosa che, però, fa il povero Andrej Efimyc, il solo gesto di ribellione allo status quo di miseria umana che riesce a intestarsi, è pregare inservienti e infermiere di non pernottare nei reparti e di far mettere due armadi per gli strumenti.

Cechov, da subito, contrappone al fatalismo rassegnato del dottore (Se in un anno si arriva a curare circa dodicimila pazienti, vuol dire che in un anno, alla resa dei conti, vengono truffate dodicimila persone), il positivismo efficiente dell’infermiere capo Sergej Sergeic, che in città ha un’enorme clientela privata e che si ritiene più competente del dottore che clientela privata non ne ha.

Profondamente diverso è, come Cechov si affretta a precisare, anche l’aspetto e il modo di porsi di Andrej Efimyc rispetto a quello dell’infermiere capo. Se il dottore, infatti, ha un aspetto solido, rozzo, contadinesco: faccia, barba, capelli lisci, corporatura piena, goffa che fanno pensare più ad un bettoliere ingordo, intemperante, sbrigativo, l’infermiere capo, invece, si presenta con la faccia paffuta, lavata e ben rasata e con modi posati, tranquilli; a tal punto, chiosa lo scrittore, da sembrare un senatore più che un infermiere (e qui ritorna il Cechov dei Racconti Variopinti, ovverosia lo scrittore che vedeva comicamente ma sentiva tragicamente – E. Lo Gatto)

E come non accennare al contrasto tra il dottore, che usa la stessa finanziera per ricevere i malati, pranzare e andare in visita, non per avarizia – si affretta a precisare Cechov – ma per totale disinteresse per il proprio aspetto, e Sergej Sergeic, che porta un vestito nuovo molto largo e la cravatta bianca come i medici?

Infine, l’ennesima contrapposizione tra i due: Sergej Sergeic è religioso e ama gli addobbi sacri. Andrej Efimycn, all’opposto, non guarda al fine, la salvezza eterna, ma porge attenzione e degna di rispetto il mezzo, la sofferenza, perché è proprio la sofferenza a spingere l’uomo a raggiungere la perfezione; anche perché, se l’uomo imparerà davvero ad alleviare le sofferenze con pillole e gocce (ed ecco demitizzato il ruolo della medicina), finirà per trascurare del tutto religione e filosofia. Idea di religiosità, quest’ultima, che sembra messa a guardia dell’ordine sociale, quasi ad anestetizzare (e l’oppio dei popoli di Marx non è poi tanto lontano) la coscienza vigile della popolazione.

Il dottore passa il suo tempo tra le sempre più diradate visite al reparto n. 6, e il suo studio, con le abitudini consolidate, in compagnia degli amati libri (Legge moltissimo (…) Metà del suo stipendio se ne va in acquisto di libri, tre delle sei camere del suo appartamento sono stracolme di libri).

Eppure, nella torre eburnea della sua esistenza, si sta insinuando il tarlo pernicioso del cambiamento: tuttavia, di recente (…) è cominciata a circolare una voce piuttosto strana. Circola la voce che il dottore abbia cominciato a frequentare il reparto n. 6.

martedì 27 gennaio 2015

“La chiave d’oro”, di Giovanni Verga


Ho riesumato questa raccolta di novelle dalle secche ginnasiali. Mi sono lasciato cullare (ogni sera, per un mese circa) dalle fantasticherie dello scrittore; dal brulicame nero e indistinto dei personaggi; dai paesaggi con le allodole nel piano, i passeri sul tetto, le foglie e i nidi nelle siepi della Sicilia nonché dagli squarci a lume chiaro del gas di Milano.

In questo articolo, però, voglio concentrarmi su uno solo di questi bozzetti del Verga, La chiave d’oro. Trattasi di “una delle novelle più belle e delle meno conosciute” (L. Sciascia) dello scrittore siciliano che, ciononostante, per i motivi che tenterò di illustrare qui, è di capitale importanza nella produzione verghiana.

Breve riassunto: la novella si apre con la figura del Canonico che, dopo cena, sta recitando il rosario insieme a un gruppo di donne. All’improvviso, una schioppettata nella notte squarcia la litania usuale. Il prete, allora, al sentire bussare al portone con un sasso, pallido come il berretto da notte, corre a prendere la carabina, al capezzale del letto, sotto il crocifisso.

Aperto il portone, appare Surfareddu (“zolfanello”, con riferimento al carattere infiammabile del personaggio), uomo che nella sua professione di camparo aveva fatto più di un omicidio, il quale confessa spavaldo come abbia ucciso almeno uno dei tre mariuoli che stavano rubando le ulive del prelato.

Il Canonico, dopo aver inveito contro il suo camparo, preoccupato del chissà quanto mi costerà questa faccenda, si prepara a trascorrere una notte agitata.

All’indomani, al far del giorno, si reca nella sua proprietà e vi trova, per l’appunto, il ladro col naso color fuligine dei moribondi che biascica:<Ah, signor canonico. Per quattro ulive m’hanno ammazzato!>

Viene il Giudice, la forza pubblica, il cancelliere, che minacciano di legare il Curato come un mascalzone.

Poi allestiscono la tavola all’ombra del frutteto.

Il Giudice viene invogliato dalle donne a prendere un boccone tra quelli alacremente preparati (maccheroni, intingoli di ogni sorta) in un “vidiri e svidiri”.  

Al termine del pranzo luculliano (le signore stesse si misero in quattro perché la tavola non sfigurasse), gli viene offerto il caffè fatto apposta con la macchina, mentre il cancelliere stende in fretta dieci righe di verbale.

All’indomani il Giudice fa sapere che ha perso, nel frutteto del canonico, la chiavetta d’oro dell’orologio; si raccomanda affinchè la cerchino bene perché doveva esserci di certo.

<Datemi due giorni di tempo, che la troveremo – rassicura, fiducioso, il Canonico.

La chiave viene trovata e il processo andò liscio per la sua strada.

Anni dopo, quando gli viene chiesto di esprimere un giudizio su quel giudice, il Canonico risponde:<Fu un galantuomo! Perché invece di perdere la sola chiavetta, avrebbe potuto farmi cercare anche l’orologio e la catena.>

Ordunque, passando ai motivi che rendono questa novella degna di attenzione, bisogna precisare come, nelle opere del Verga, non vi sia una accusa sì esplicita e dura contro la classe dei “galantuomini” e la loro “giustizia” della stessa veemenza di quella che che troviamo qui.

La cinica battuta finale del Canonico (Fu un galantuomo!) è rivelatrice: il Giudice è un “galantuomo” perché invece di alzare il prezzo della sua corruzione (e sì che lo poteva fare!), si accontenta di una contropartita “onesta”, appena due onze (il valore dell’oggetto che dichiara di aver smarrito).

Il tema di questo componimento del Verga, quindi, attualissimo in tutta la sua drammaticità, è il codice d’onore del potentato siciliano per il quale ogni perifrasi, ciascun sostantivo, anche il più chiaro, si carica sulle spalle un significato “altro”.

Il fascino di questa novella dimenticata non sta nel “fatto” (…), ma nella trascrizione dei linguaggi con cui comunicano le classi in Sicilia: il camparo, il Canonico, il Giudice parlano linguaggi diversi resi omogeni da un sottinteso di omertà più o meno esplicito. (Madrignani).

Un breve accenno merita anche la figura del Canonico, che tiene la carabina sotto il crocefisso e si reca sul luogo del delitto armato sino ai denti e con tutti i contadini dietro (manco fosse un bravaccio del Manzoni); che non prende nemmeno in considerazione l’eventualità che la persona sparata possa essere anche solo ferita e che, quindi, sarebbe opportuno precipitarsi subito laggiù nei campi; che giura il falso e corrompe il giudice.

L’acme della odiosità, però, è toccata allorché il Canonico va a prendere una bottiglia di moscadello vecchio che avrebbe risuscitato un morto, proprio mentre quell’altro morto, precisa il Verga, l’avevano sotterrato alla meglio sotto il vecchio ulivo malato.

In questa trama sordida di ammiccamenti omertosi, corruzione dilagante soprattutto tra chi, per la funzione rivestita (religiosa e civile), dovrebbe non solo esserne immune, ma ergersi a baluardo della legalità, il “vinto” è il mariuolo. E ciononostante, la vittima sembra quasi prendersi gioco della connivenza mafiosa tra i protagonisti della novella; pare quasi eleggere la sua indifferenza (forzata, per la morte) a superiorità morale sul Canonico, sul Giudice e su tutta la genia dei “galantuomini” come loro.

Nel frutteto, sotto l’albero vecchio dove è sepolto il ladro delle ulive, vengono cavoli grossi come teste di bambini.

martedì 20 gennaio 2015

Greta e Vanessa: se la sono cercata?

Greta e Vanessa. <Se la sono cercata!>

<Volevano fare del bene? Embe’, c’è bisogno di andare fino in Siria per farlo? In Italia ci stanno un sacco di poveri cristi che avrebbero tanto bisogno di aiuto>.

<Invece di fare le crocerossine, pensassero a non mettere nei guai la famiglia e l’intero Paese!>

Greta e Vanessa.

<12 milioni di euro per assecondare la voglia di due sciroppate di fare le salvatrici del mondo?>

<Io, per me, le avrei lasciate con i loro amichetti siriani, magari si divertivano di più e non ci facevano spendere tutti ‘sti soldi!>

<Fossi io il padre, le pesterei a sangue fino a far passare loro ogni voglia di rovinare la famiglia e l’Italia.>

Greta e Vanessa.

Avrebbero potuto spendere il tempo tra shatush e tatuaggi. Avrebbero potuto trascorrere le ore in fila per l’acquisto dell’ultimo iPhone. Avrebbero potuto dare un senso alle loro giornate declinando all’infinito la vacuità di “Uomini e donne“.

Greta e Vanessa. Ecco, avrebbero dovuto fare tutto questo per incassare i dividendi di una tranquilla normalità. La stessa normalità che avrebbe giustificato anche un presente scontato ad accantonare i debiti del futuro.

Certo, ci sarebbe stato sempre il solito pedagogo che avrebbe inveito contro la mancanza d’ideali delle nuove generazioni; il sessantottino che “ai miei tempi, si scendeva in piazza e gli facevamo un bucio de culo così”; il morigerato chierico che “non c’è più rispetto manco per i santi!”. Sì, d’accordo, ci sarebbe stato tutto questo. E sarebbe stato l’affettuoso contraltare del cloroformio adoperato per anestetizzarci. E poi, dopo la predica di facciata di genitori troppo impegnati a ribadire la propria gioventù sempre e comunque, il rimorso per essere stati troppo duri. E giù con zaffate di prodotti di consumo capaci di veicolare il bene che sempre, a prescindere dalle nostre azioni, meritiamo per il solo fatto di recitare, buoni buoni, la parte in commedia.

Greta e Vanessa.

Decidono di partire, di aiutare concretamente i più deboli. E allora fondano, insieme a Roberto Andervill, “Horryaty”, un progetto di assistenza con l’obiettivo di portare medicine e generi di prima necessità alla popolazione siriana.

Vengono fatte prigioniere. Appaiono in un video.

L’Italia è con Greta e Vanessa.

Ogni padre guarda la propria figlia che guarda il cellulare. Ogni mamma si dispera per il proprio figlio che si dispera per l’aumento delle Marlboro di venti centesimi.

Il cuore di tutti i padri e di tutte le mamme d’Italia piange la morte di Greta e Vanessa in anticipo.

Poi il Ministro Boschi interrompe i lavori della Camera per annunciare la liberazione delle due prigioniere.

Greta e Vanessa, già uccise dal capitone di capodanno, dai feriti dei botti e dalle calze dell’Epifania, eventi frattanto incuneatisi tra la diffusione del video e la notizia della loro liberazione, vengono risuscitate dalla realtà del contingente.

Il padre ha consumato tutti gli occhi per guardare ancora. La mamma ha esaurito tutta la disperazione per disperarsi di nuovo.

Greta e Vanessa la devono pagare. E giù i giudizi che abbiamo riportato all’inizio del commento. E i figli che guardavano il cellulare e si disperavano per l’aumento delle Marlboro? Non pervenuti. Scaltri a tal punto da capire come la loro vita abbia un senso solo nell’inutilità dell’esistenza.

Grazie, Greta e Vanessa, soprattutto per esservela andata a cercare; così come, d’altronde, ha fatto Fabrizio Pulvirenti, il medico di Emergency colpito da Ebola in Sierra Leone; e come se la sono andata a cercare i disegnatori di Charlie Hebdoo con la pubblicazione delle vignette su Maometto.

Ecco, speriamo che ci tocchi in sorte un mondo che se la vada a cercare. Sempre e comunque.

Se i giovani si organizzano, si impadroniscono di ogni ramo del sapere e lottano con i lavoratori e gli oppressi, non c’è scampo per un vecchio ordine fondato sul privilegio e sull’ingiustizia. (E. Berlinguer)

p.s. Revisionando l’articolo scritto qualche giorno fa, non posso non riportare quest’ultima affermazione su Greta e Vanessa contenuta in un tweet: “Vanessa e Greta, sesso consenziente con i guerriglieri? E noi paghiamo!”. Bene, il distinto signore che ha pronunciato queste parole, ha spiegato che, la sua, voleva essere una innocua richiesta di conferma della notizia appresa da un blog. Ora, a parte che non ci vuole un luminare per capire che se uno sceglie di porre ‘sta domanda, implicitamente la avalla, la cosa che sarebbe di una ilarità pazzesca, se non fosse tragica, è che il signore in questione è stato Ministro delle Comunicazioni per ben cinque anni. E il massimo esperto della comunicazione che dà credito a una notizia palesemente falsa tratta dal blog del taldeitali, sarebbe un bel colmo da lasciare ai posteri.

Per chi non lo sapesse, l’ex ministro in questione è Maurizio Gasparri.

Grazie, Greta e Vanessa… e scusateci per l’idiozia di qualcuno che il popolo sovrano ha avuto il coraggio di portare in Parlamento.

Noi  italiani… noi sì che ce la cerchiamo!