mercoledì 23 ottobre 2024

"L'omicidio Carosino. Le prime indagini del commissario Ricciardi", di Maurizio De Giovanni

Ed eccolo qui il delegato Luigi Alfredo Ricciardi mentre se ne sta al caffè Gambrinus, intento a sorseggiare il secondo caffè della giornata; il primo, manco a dirlo, è quello puntualmente preparatogli dalla tata Rosa.

Lo sguardo tradisce il biasimo per la sua singolarità: il delegato infatti "vede i morti ammazzati" ("il fatto", come lui stesso definisce questo potere), unicamente però quelli uccisi con violenza. Li vede "sul posto dove è successo" per un tempo variabile e, soprattutto, li vede mentre ripetono l'ultima parte del pensiero che la morte ha amputato, "con lo stesso tono e le stesse parole".

Non c'è crocicchio di persone (reali) che non venga attraversato da "umanità" varia, rigorosamente trapassata per un evento comunque traumatico.

Come poter condurre un'esistenza ordinaria in mezzo a questa babele di corpi martoriati?

Come restare indifferenti alle voci che ripetono singulti di vita, gli ultimi, nella speranza di ottenere una qualche forma di giustizia?

Non è possibile, e Ricciardi ne è perfettamente consapevole, nonostante Enrica, la giovane che lui guarda ogni sera dalla finestra di casa sua mentre si ammanta di quella normalità che a lui è preclusa.

Chissà se...ma no, che sciocchezza: "l'urlo della mia carne non lo ascolto, e non mi disturba".

La notizia del giorno è che la Duchessa di Carosino è stata assassinata ieri sera, appena tornata dal San Carlo.

Il questore è in evidente stato di agitazione, e non solo per l'importanza della vittima.

"Ho bisogno di un'immediata soluzione di questo caso...il Duce in persona...capite...il Duce!".

Per gli addetti ai lavori, è risaputo che Ricciardi risolve il caso, ogni caso, e scova il colpevole. E per questo, nonostante diffidino di quel talento senz'altro luciferino, lo rispettano.

In una Napoli scossa per l'omicidio d'alto rango finanche nei vicoli dei poveri cristi, il delegato si fa accompagnare sul luogo del delitto come sempre dal brigadiere Maione.

"L'anello che manca" ha esalato in un sospiro la Duchessa che è stata uccisa da un calcio violentissimo al torace e poi sparata, quando ormai già era morta.

Stavolta una seconda frase della vittima, quella che consentirà di appurare la verità, sarà svelata al delegato dal sogno in cui la Duchessa soppianta il vignaiolo della prima manifestazione de "il fatto": "Ti si sporcano le scarpe".

L'anello spiega un gesto che avrebbe voluto essere mortale; le scarpe sporche a causa della pioggia, invece, rivelano il vero assassino della nobildonna.

Nella seconda indagine, I vivi e i morti, la pioggia che infradicia una Napoli peccaminosa e lasciva, porta all'attenzione del delegato Ricciardi addirittura tre vittime: don Raffaele Ammaturo, prete con una predilezione per le figlie (minorenni) della povera gente, la cui ultima frase è: "No, perchè a me, sì...proprio voi, sì..."; la maitresse Wanda, "la tenutaria di uno dei più esclusivi bordelli di via Elena", che cristallizza l'istante prima della fine nelle parole "Ho una signorina nuova, giovane giovane..."; il buttafuori di un ristorante che, al cospetto di Ricciardi, si scusa con deferente disagio: "Stasera no, signori, non si può entrare...".

Qual è il nesso, a parte il punteruolo conficcato in qualche parte del corpo, tra i tre omicidi?

"Il modo di pronunciare la parola", più che le parole stesse: eccola la chiave di tutto.

Il delegato si reca dal colpevole convenendo che sì, un padre morto per sifilide potrebbe essere una giustificazione sufficiente per uccidere tre persone.

Nell'ultima indagine, Mammarella Ricciardi, affiancato dal bonario Maione ("È così come lo vedete, Maione. Non ha doppio fondo"), è chiamato a prestare i suoi servigi ancora una volta in un bordello.

Il canovaccio prevede che venga accompagnato fin sulla soglia della porta nella cui stanza è avvenuto l'omicidio. Non oltre: perchè (credenza dei colleghi) il delegato dev'essere lasciato libero di foraggiare il suo fenomenale spirito d'osservazione; perchè (la verità) Ricciardi deve trovarsi da solo di fronte alla "rediviva" vittima che si cimenta nell'abituale performance de "il fatto".

La morta risponde al nome di Maria Rosaria, in arte Gilda. E Gilda, nonostante il taglio netto "che partiva sotto il seno sinistro e arrivava quasi all'anca destra", ride di una grossa risata contagiosa: "Mammarella, mi vuole da mammarella".

Mai irridere chi si sente investito del compito di salvare una donna perduta!

Ricciardi riunisce tutti nel salone: Madame, Rindone, il dottore, le guardie, le signorine. Se ne sta zitto. Mezz'ora. Un'ora. Un'ora e mezza.

A un certo punto, da un angolo del salone: «Commissario» si materializza l'impazienza dell'assassino «dobbiamo aspettare ancora molto? Perchè se è così, devo avvisare mia madre che mi aspetta, a casa».

Proprio così. Mammarella potrebbe preoccuparsi.

10 e non più di 10 #6

Mi sono fatto regalare una penna. Di quelle raffinate. Sicuramente costosa.

"Per foraggiare la tua passione".

La bolletta della luce: vaglia prestampato o Pago Pa.

L'udienza in tribunale: note (sul pc) di diritto pratico o verbale redatto dal giudice.

Avviso di ricevimento: firma con penna touch su tablet.

Mi sono fatto regalare una penna. Di quelle raffinate. Sicuramente costosa...

...con la quale scrivermi appunti di commiserazione.

"L'intermittenza", di Andrea Camilleri

Al lavoro che nobilita l'uomo.

Questo è l'esergo che Camilleri ha scelto per introdurre L'intermittenza.

E sembrerebbe quasi una provocazione.

E sì perchè nel mondo mirabilmente tratteggiato dal maestro - la grande finanza, gli ingranaggi del potere manageriale, le dismissioni brandite come arma di ricatto - il lavoro edificante è faccenda che riguarda gli ultimi, i disperati costretti a salire su una ciminiera dello stabilimento di Nola per rivendicare la propria soggettività.

Frattanto, tutt'intorno...

Mauro De Blasi, direttore generale della Manuelli, sta per firmare un accordo segreto per fagocitare l'ennesima azienda, all'oscuro del vecchio Presidente e di quell'impiastro di suo figlio.

Sarebbe solo una delle tante trame tessute dal direttore generale che si risolverebbe in un altro, consequenziale successo. Eppure una mattina, mentre si sta facendo la barba, una scritta appare in sovraimpressione sullo specchio: Fu allora che ebbe lacerante certezza della prossimità della sua morte.

È una frase che non appartiene al vocabolario di De Blasi e che nemmeno sarebbe coerente con il suo vitalismo esasperato. E allora?

Semplice, si tratta del primo accenno di quell'intermittenza che il suo cervello soffrirà altre volte. D'altronde, quando una mente di poco più di quarant'anni è logorata dalle dinamiche del potere, le ischemie sono un rischio da mettere in conto.

Sodale del De Blasi, e non solo per la qualifica rivestita all'interno della Manuelli (nel caso specifico, vicedirettore generale con delega al personale), è Guido Marsili con una sovvertitrice passione per la poesia.

La poesia...il varco è qui?

Purtroppo no.

Quando infatti la donna da sedurre assume le sembianze della moglie del suo direttore generale, la conturbante Marisa, ebbene finanche la poesia diventa arma di prevaricazione e di soddisfazione di istinti beceri.

La signora De Blasi, però, si ricorderà di un suo vecchio, "pulito" amore di qualche tempo addietro che adesso ha conseguito addirittura i gradi di commissario di polizia, per vendicarsi a un tempo di suo marito (il perdono al prezzo della costante degradazione) e dell'amante "lirico" (il consumo violento e libidinoso del corpo di Marisa).

Nemmeno la signora De Blasi, però, è una figura su cui poter costruire la redenzione, incastonata com'è nella degenerazione di quel mondo da cui alla fine prende le distanze, sia pure solo per salvare se stessa e la sua vita dorata.

Tra le filigrane del racconto ne emerge un'altra, di donna: Anna, la segretaria di Mauro De Blasi, ormai donna attempata, sola (persino il figlio si dimentica sistematicamente del suo compleanno), la cui vita privata coincide con quella lavorativa. E ciò almeno fino a quando si trova a subire le attenzioni di un uomo.

Già, un uomo: troppo bello, giovane e prestante per essere disinteressato. Eppure Anna vuole allentare i freni inibitori nell'ubriacatura del vero amore.

È un lusso che, e dovrebbe saperlo, non si può permettere. Eppure...

La valigetta con tutti i documenti importanti che, dopo l'ennesimo furto in azienda, il direttore generale ogni sera le consegna, si apre sotto i polpastrelli che non appartengono ad Anna.

Sono dita belle, giovani, prestanti. E maschili.

Troppo dolore per la segretaria di De Blasi. Il fiume raccoglierà l'ultima sua imperdonabile disillusione.

Alla fine, quando ogni trama è tessuta in maniera magistrale da Mauro De Blasi, l'intermittenza si riaffaccia.

Stavolta non ci sarà una seconda possibilità.

E proprio nell'attimo di raccogliere il frutto del proprio magistrale, sfiancante lavoro, eccolo l'ultimo black-out.

La genialità di Andrea Camilleri, straripante anche in un contesto che non dovrebbe rientrare propriamente nelle sue corde (gli ingranaggi deleteri della grande finanza), è un sempiterno viaggio nelle profondità dell'animo umano: potere, odio, desiderio, vendetta, egoismo.

Viaggio, immersione in profondità proibitive per gli altri uomini, anche in quest'opera.

Ancora una volta.

10 e non più di 10 #5

 A Più libri Più liberi un'insegnante ha dissuaso i suoi studenti dall'acquisto di libri di fantasia.

"Inutili".

Alle elementari del mio grembiule ingiallito, un'altra insegnante s'inventò un baule da cui poter estrarre, alla bisogna, occhiali e penna.

Baule, occhiali e penna, tutti rigorosamente inesistenti.

Eppure, una volta inforcati gli occhiali, Gino leggeva meglio.

Anche Claudia, impugnata la penna, scriveva senza errori.

La fantasia, quando non salva la vita, è utile anche a questo.

"Il re di Girgenti", di Andrea Camilleri

Nella nota di quest'opera fantasmagorica, il Maestro ci rivela che nel giugno del 1994 gli capitò di sfogliare, "nella libreria romana quotidianamente frequentata", un libretto intitolato Agrigento. Ebbene, in questo libercolo si accenna a un episodio del 1718 in cui addirittura viene proclamato re di Girgenti un viddrano, tale Zosimo.

Tanto è bastato alla fantasia fecondissima di Camilleri per "filare" la trama de Il re di Girgenti.

Gisuè Zosimo, padre del futuro re Zosimo, si trova un giorno a salvare la vita a un povirazzo che se ne sta stracafottuto in uno sbalanco. Ma c'è cosa: il povero è un nobile, e la caduta nel burrone è volontaria per via di una fortuna dilapidata al gioco.

Ora non ci stanno santi, tocca uccidere davvero il principe don Filippo Pensabene. E Gisuè Zosimo vi provvede dietro lauta ricompensa.

Il duca Pes y Pes, lo spagnolo che imbrogliando al gioco il principe è addivintato il patrone, sente feto d'abbruciatu nella facenna. Prima fa incarzerare Zosimo con l'accusa di aver ucciso il principe e poi gli promette la libertà. A una condizione, però: che ficchi con la sua bellissima moglie dal momento che lui, omo con sperma friddo come il ghiaccio, non è capace di metterla prena.

Il jornatante si presta al patto riuscendo, con l'aiuto degli altri contadini e omini di fatica, a pigliari po' culi il duca Pes y Pes e a liberarsi.

Frattanto Gisuè Zosimo e so' mogliere Filonia ci danno dentro e nasce il loro secunno figlio mascolo, Michele Zosimo, da tutti chiamato solo Zosimo.

Filonia, radunata tanticchia di paglia vicino al pozzo, si spoglia nuda e vi si stinnicchia supra.

Una capra girgentana le dona il latte per nutrire il picciliddro e una gaddrina le arrigala un uovo per rimettersi in sesto.

Fin dalla nascita, Zosimo si mostra un bambino precoce: invece di piangere appena nisciuto dal ventre materno, si mette a ridere come un omo granni. A sette mesi poi, è gia in grado di parlare.

Nella sua infanzia si susseguono personaggi singolari (reali e immaginari) che sono un lievito formidabile per quella che sarà la personalità del Nostro: il mago Apparenzio che gli predice un futuro da re, il brigante che firrìa campagna campagna per affermare una giustizia altra e, soprattutto, Patre Uhù: parrino con la vita da asceta e la sua croce ad altizza d'omo che mulinella come un'arma quando si tratta di scacciare via i diavolazzi e le sue creature, Patre Uhù si ritira sovente in una grutticeddra con una pozza d'acqua nella quale vattiare bambini (lo stesso Zosimo vi viene battezzato) e ricarricare le energie quando ce n'è bisogno.

Il parrino intuisce le potenzialità di Zosimo e lo prende per un periodo a suo servizio, insegnandogli il leggiuto e lo scrivuto. Lo inizia altresì tanticchia ai misteri della natura, per farne un omo pronta alla bisogna.

Durante la carestia che si abbatte come una mannaia su Montelusa (la futura Girgenti), l'ormai giovane Zosimo incendia tutti i libri che don Aneto Purpigno, frattanto insediatosi nella dimora abbandonata dal duca Pes y Pes, gli ha arrigalato dopo averli letti uno per uno: accussì tutte le parole gli entrano nel ciriveddro e non l'abbandoneranno più.

La peste avanza nelle campagne e nelle città, e i chiesastri anzichè limitare le occasioni di contagio, si dannano l'anima per organizzare processioni dietro l'ennesima, improbabile reliquia scovata da qualche parte.

Zosimo e i so' compagniuzzi, dopo aver approfittato del funerale di Patre Uhù per fare un po' di pulizia di nobili e chierici e in seguito a uno stratagemma per far ripristinare il culto di santo Campagnaro, sentono che è arrivato il momento di prendere in mano le redini della storia. Manco a dirlo, chi è in grado di capirlo e di farlo intendere agli altri, è proprio Zosimo.

C'è una lotta intestina tra papato e nobiltà con evidenti ripercussioni nella vita quotidiana. Nel frattempo, dopo gli spagnoli, a seguito del Trattato di Utrecht, sono i savojardi a dettare le regole del gioco in tutta la Sicilia.

Zosimo, pur muovendosi in anticipo rispetto a quanto sarebbe stato opportuno, prende il potere e viene incoronato re su una putruna requisita al marchese Boscofino e con una corona di spine arrigalatagli da un mendicante.

Il programma è presto fatto: abolizione della nobiltà, espropriazione di metà dei feudi del notabilato da donare a chi ci ha davvero travagliato in quelle terre, la pace da salvare, quando proprio non si può fare altrimenti, mutuando la vicenda degli Orazi e dei Curiazi dell'antica Roma.

Il capitano Montaperto, omo d'aunuri, l'ha accapito macari lui: progetto troppo rivoluzionario per poter resistere agli egoismi del tempo. Il re e i suoi scammisati viddrani hanno pisciato fora dal rinale.

Bih, che camurria! D'altra parte, per realizzare il prototipo di uomo vagheggiato da Zosimo (la dignità dell'omo consta di quattro attributi: il travaglio, la littra, l'aunuri e la parola data), per forza di cose doveva finire a schifio.

Zosimo viene condannato a morte. Nella sua via crucis cristallizata dai cinque graduni e dalla sommità della scalinata che lo portano al patibolo, rincontra molti personaggi della sua vita e rivive tante suggestioni che l'hanno accompagnato fino all'ultimo momento.

In tutto questo, la comerdia che ha fatto volare poco prima di venire decollato, gli si piazza a perpendicolo sulla testa.

Lui stesso sale in groppa all'aquilone e, una volta preso il volo, talia verso terra: in mezzo alla piazza, vitti macari il palco e una cosa, una specie di sacco, che pinnuliava dalla forca dunnuliando.

Rise e ripigliò ad acchianare.

10 e non più di 10 #4

«Ma certo, sfonda una porta aperta: oggettivamente più belle di quelle griffate, di qualità artigianale a fronte di plastica e un po' di fuffa delle altre, di un design accattivante che quelle marcate se lo sognano».

«Senza contare il prezzo, decisamente più basso rispetto a quelle firmate».

Esco fuori dall'ottica con i miei occhiali nuovi. Che sono proprio quelli meno belli, di peggior qualità, con un design compassato e più cari.

Ovviamente griffati.

10 e non più di 10#3

Stilettate di gelo nonostante il riscaldamento h24.

Mi arrotolo nella coperta che asseconda i tremori del corpo.

L'occhio cisposo segue le intermittenze dell'albero di natale.

Il corridoio. La cucina. La soglia del salone.

La coperta che m'avvolge cade a terra.

A una ventina di metri, la sagoma iridescente di mio figlio.

Di spalle, la sua testolina reclinata prende la mira.

Un fucile della mia fabbrica puntato sul presepio.