martedì 3 febbraio 2015

“Il reparto n. 6″, di Anton Cechov (I/II)

Eccolo qui che prende forma, il reparto n. 6 di Cechov

Lungo le sue pareti sono ammucchiate intere montagne di rifiuti ospedalieri: materassi, vecchie vestaglie a brandelli (…), camicie a righe azzurre, scarpe logore, inservibili. E da queste spoglie di squallida pazzia, esala l’immancabile puzzo di cavolo acido.

Eppure lì, oltre la facciata posteriore, ci sarebbero i campi, le lusinghe di una vita “sana”; l’anelito, però, è ben presto frustrato dal grigio steccato dell’ospedale, pieno di chiodi (…) le cui punte sono rivolte all’insù (e come non riandare, con la memoria, ai cocci aguzzi di bottiglia del rovente muro d’orto di Montale?).

Dopo il custode dell’ospedale Nikita (è uno di quegli uomini semplici, positivi, efficienti e ottusi che più di tutto al mondo ama l’ordine e perciò è convinto che bisogna picchiarli, i matti), Cechov passa in rassegna uno dei pazienti sovvertitore, suo malgrado, dell’ordine agognato dal custode, Ivan Dmitric Gromov (i lineamenti sono raffinati, portano il segno di una sincera, profonda sofferenza, rivelano intelligenza e saggezza) che soffre di manie di persecuzione.

La penna di Cechov, infine, si attarda a tratteggiare la figura del dottore Andrej Efimyc, che è chiamato a occuparsi del reparto n. 6. Un nichilista che non ha il coraggio di prendere in mano la sua vita e di condensarla in una posizione purchessia. È al corrente, ad esempio, che Nikita picchia senza ritegno i degenti, che all’interno del reparto vengono commessi dei furti. È  anche a conoscenza dell’abitudine del vecchio dottore di vendere clandestinamente l’alcool. L’unica cosa che, però, fa il povero Andrej Efimyc, il solo gesto di ribellione allo status quo di miseria umana che riesce a intestarsi, è pregare inservienti e infermiere di non pernottare nei reparti e di far mettere due armadi per gli strumenti.

Cechov, da subito, contrappone al fatalismo rassegnato del dottore (Se in un anno si arriva a curare circa dodicimila pazienti, vuol dire che in un anno, alla resa dei conti, vengono truffate dodicimila persone), il positivismo efficiente dell’infermiere capo Sergej Sergeic, che in città ha un’enorme clientela privata e che si ritiene più competente del dottore che clientela privata non ne ha.

Profondamente diverso è, come Cechov si affretta a precisare, anche l’aspetto e il modo di porsi di Andrej Efimyc rispetto a quello dell’infermiere capo. Se il dottore, infatti, ha un aspetto solido, rozzo, contadinesco: faccia, barba, capelli lisci, corporatura piena, goffa che fanno pensare più ad un bettoliere ingordo, intemperante, sbrigativo, l’infermiere capo, invece, si presenta con la faccia paffuta, lavata e ben rasata e con modi posati, tranquilli; a tal punto, chiosa lo scrittore, da sembrare un senatore più che un infermiere (e qui ritorna il Cechov dei Racconti Variopinti, ovverosia lo scrittore che vedeva comicamente ma sentiva tragicamente – E. Lo Gatto)

E come non accennare al contrasto tra il dottore, che usa la stessa finanziera per ricevere i malati, pranzare e andare in visita, non per avarizia – si affretta a precisare Cechov – ma per totale disinteresse per il proprio aspetto, e Sergej Sergeic, che porta un vestito nuovo molto largo e la cravatta bianca come i medici?

Infine, l’ennesima contrapposizione tra i due: Sergej Sergeic è religioso e ama gli addobbi sacri. Andrej Efimycn, all’opposto, non guarda al fine, la salvezza eterna, ma porge attenzione e degna di rispetto il mezzo, la sofferenza, perché è proprio la sofferenza a spingere l’uomo a raggiungere la perfezione; anche perché, se l’uomo imparerà davvero ad alleviare le sofferenze con pillole e gocce (ed ecco demitizzato il ruolo della medicina), finirà per trascurare del tutto religione e filosofia. Idea di religiosità, quest’ultima, che sembra messa a guardia dell’ordine sociale, quasi ad anestetizzare (e l’oppio dei popoli di Marx non è poi tanto lontano) la coscienza vigile della popolazione.

Il dottore passa il suo tempo tra le sempre più diradate visite al reparto n. 6, e il suo studio, con le abitudini consolidate, in compagnia degli amati libri (Legge moltissimo (…) Metà del suo stipendio se ne va in acquisto di libri, tre delle sei camere del suo appartamento sono stracolme di libri).

Eppure, nella torre eburnea della sua esistenza, si sta insinuando il tarlo pernicioso del cambiamento: tuttavia, di recente (…) è cominciata a circolare una voce piuttosto strana. Circola la voce che il dottore abbia cominciato a frequentare il reparto n. 6.

martedì 27 gennaio 2015

“La chiave d’oro”, di Giovanni Verga


Ho riesumato questa raccolta di novelle dalle secche ginnasiali. Mi sono lasciato cullare (ogni sera, per un mese circa) dalle fantasticherie dello scrittore; dal brulicame nero e indistinto dei personaggi; dai paesaggi con le allodole nel piano, i passeri sul tetto, le foglie e i nidi nelle siepi della Sicilia nonché dagli squarci a lume chiaro del gas di Milano.

In questo articolo, però, voglio concentrarmi su uno solo di questi bozzetti del Verga, La chiave d’oro. Trattasi di “una delle novelle più belle e delle meno conosciute” (L. Sciascia) dello scrittore siciliano che, ciononostante, per i motivi che tenterò di illustrare qui, è di capitale importanza nella produzione verghiana.

Breve riassunto: la novella si apre con la figura del Canonico che, dopo cena, sta recitando il rosario insieme a un gruppo di donne. All’improvviso, una schioppettata nella notte squarcia la litania usuale. Il prete, allora, al sentire bussare al portone con un sasso, pallido come il berretto da notte, corre a prendere la carabina, al capezzale del letto, sotto il crocifisso.

Aperto il portone, appare Surfareddu (“zolfanello”, con riferimento al carattere infiammabile del personaggio), uomo che nella sua professione di camparo aveva fatto più di un omicidio, il quale confessa spavaldo come abbia ucciso almeno uno dei tre mariuoli che stavano rubando le ulive del prelato.

Il Canonico, dopo aver inveito contro il suo camparo, preoccupato del chissà quanto mi costerà questa faccenda, si prepara a trascorrere una notte agitata.

All’indomani, al far del giorno, si reca nella sua proprietà e vi trova, per l’appunto, il ladro col naso color fuligine dei moribondi che biascica:<Ah, signor canonico. Per quattro ulive m’hanno ammazzato!>

Viene il Giudice, la forza pubblica, il cancelliere, che minacciano di legare il Curato come un mascalzone.

Poi allestiscono la tavola all’ombra del frutteto.

Il Giudice viene invogliato dalle donne a prendere un boccone tra quelli alacremente preparati (maccheroni, intingoli di ogni sorta) in un “vidiri e svidiri”.  

Al termine del pranzo luculliano (le signore stesse si misero in quattro perché la tavola non sfigurasse), gli viene offerto il caffè fatto apposta con la macchina, mentre il cancelliere stende in fretta dieci righe di verbale.

All’indomani il Giudice fa sapere che ha perso, nel frutteto del canonico, la chiavetta d’oro dell’orologio; si raccomanda affinchè la cerchino bene perché doveva esserci di certo.

<Datemi due giorni di tempo, che la troveremo – rassicura, fiducioso, il Canonico.

La chiave viene trovata e il processo andò liscio per la sua strada.

Anni dopo, quando gli viene chiesto di esprimere un giudizio su quel giudice, il Canonico risponde:<Fu un galantuomo! Perché invece di perdere la sola chiavetta, avrebbe potuto farmi cercare anche l’orologio e la catena.>

Ordunque, passando ai motivi che rendono questa novella degna di attenzione, bisogna precisare come, nelle opere del Verga, non vi sia una accusa sì esplicita e dura contro la classe dei “galantuomini” e la loro “giustizia” della stessa veemenza di quella che che troviamo qui.

La cinica battuta finale del Canonico (Fu un galantuomo!) è rivelatrice: il Giudice è un “galantuomo” perché invece di alzare il prezzo della sua corruzione (e sì che lo poteva fare!), si accontenta di una contropartita “onesta”, appena due onze (il valore dell’oggetto che dichiara di aver smarrito).

Il tema di questo componimento del Verga, quindi, attualissimo in tutta la sua drammaticità, è il codice d’onore del potentato siciliano per il quale ogni perifrasi, ciascun sostantivo, anche il più chiaro, si carica sulle spalle un significato “altro”.

Il fascino di questa novella dimenticata non sta nel “fatto” (…), ma nella trascrizione dei linguaggi con cui comunicano le classi in Sicilia: il camparo, il Canonico, il Giudice parlano linguaggi diversi resi omogeni da un sottinteso di omertà più o meno esplicito. (Madrignani).

Un breve accenno merita anche la figura del Canonico, che tiene la carabina sotto il crocefisso e si reca sul luogo del delitto armato sino ai denti e con tutti i contadini dietro (manco fosse un bravaccio del Manzoni); che non prende nemmeno in considerazione l’eventualità che la persona sparata possa essere anche solo ferita e che, quindi, sarebbe opportuno precipitarsi subito laggiù nei campi; che giura il falso e corrompe il giudice.

L’acme della odiosità, però, è toccata allorché il Canonico va a prendere una bottiglia di moscadello vecchio che avrebbe risuscitato un morto, proprio mentre quell’altro morto, precisa il Verga, l’avevano sotterrato alla meglio sotto il vecchio ulivo malato.

In questa trama sordida di ammiccamenti omertosi, corruzione dilagante soprattutto tra chi, per la funzione rivestita (religiosa e civile), dovrebbe non solo esserne immune, ma ergersi a baluardo della legalità, il “vinto” è il mariuolo. E ciononostante, la vittima sembra quasi prendersi gioco della connivenza mafiosa tra i protagonisti della novella; pare quasi eleggere la sua indifferenza (forzata, per la morte) a superiorità morale sul Canonico, sul Giudice e su tutta la genia dei “galantuomini” come loro.

Nel frutteto, sotto l’albero vecchio dove è sepolto il ladro delle ulive, vengono cavoli grossi come teste di bambini.

martedì 20 gennaio 2015

Greta e Vanessa: se la sono cercata?

Greta e Vanessa. <Se la sono cercata!>

<Volevano fare del bene? Embe’, c’è bisogno di andare fino in Siria per farlo? In Italia ci stanno un sacco di poveri cristi che avrebbero tanto bisogno di aiuto>.

<Invece di fare le crocerossine, pensassero a non mettere nei guai la famiglia e l’intero Paese!>

Greta e Vanessa.

<12 milioni di euro per assecondare la voglia di due sciroppate di fare le salvatrici del mondo?>

<Io, per me, le avrei lasciate con i loro amichetti siriani, magari si divertivano di più e non ci facevano spendere tutti ‘sti soldi!>

<Fossi io il padre, le pesterei a sangue fino a far passare loro ogni voglia di rovinare la famiglia e l’Italia.>

Greta e Vanessa.

Avrebbero potuto spendere il tempo tra shatush e tatuaggi. Avrebbero potuto trascorrere le ore in fila per l’acquisto dell’ultimo iPhone. Avrebbero potuto dare un senso alle loro giornate declinando all’infinito la vacuità di “Uomini e donne“.

Greta e Vanessa. Ecco, avrebbero dovuto fare tutto questo per incassare i dividendi di una tranquilla normalità. La stessa normalità che avrebbe giustificato anche un presente scontato ad accantonare i debiti del futuro.

Certo, ci sarebbe stato sempre il solito pedagogo che avrebbe inveito contro la mancanza d’ideali delle nuove generazioni; il sessantottino che “ai miei tempi, si scendeva in piazza e gli facevamo un bucio de culo così”; il morigerato chierico che “non c’è più rispetto manco per i santi!”. Sì, d’accordo, ci sarebbe stato tutto questo. E sarebbe stato l’affettuoso contraltare del cloroformio adoperato per anestetizzarci. E poi, dopo la predica di facciata di genitori troppo impegnati a ribadire la propria gioventù sempre e comunque, il rimorso per essere stati troppo duri. E giù con zaffate di prodotti di consumo capaci di veicolare il bene che sempre, a prescindere dalle nostre azioni, meritiamo per il solo fatto di recitare, buoni buoni, la parte in commedia.

Greta e Vanessa.

Decidono di partire, di aiutare concretamente i più deboli. E allora fondano, insieme a Roberto Andervill, “Horryaty”, un progetto di assistenza con l’obiettivo di portare medicine e generi di prima necessità alla popolazione siriana.

Vengono fatte prigioniere. Appaiono in un video.

L’Italia è con Greta e Vanessa.

Ogni padre guarda la propria figlia che guarda il cellulare. Ogni mamma si dispera per il proprio figlio che si dispera per l’aumento delle Marlboro di venti centesimi.

Il cuore di tutti i padri e di tutte le mamme d’Italia piange la morte di Greta e Vanessa in anticipo.

Poi il Ministro Boschi interrompe i lavori della Camera per annunciare la liberazione delle due prigioniere.

Greta e Vanessa, già uccise dal capitone di capodanno, dai feriti dei botti e dalle calze dell’Epifania, eventi frattanto incuneatisi tra la diffusione del video e la notizia della loro liberazione, vengono risuscitate dalla realtà del contingente.

Il padre ha consumato tutti gli occhi per guardare ancora. La mamma ha esaurito tutta la disperazione per disperarsi di nuovo.

Greta e Vanessa la devono pagare. E giù i giudizi che abbiamo riportato all’inizio del commento. E i figli che guardavano il cellulare e si disperavano per l’aumento delle Marlboro? Non pervenuti. Scaltri a tal punto da capire come la loro vita abbia un senso solo nell’inutilità dell’esistenza.

Grazie, Greta e Vanessa, soprattutto per esservela andata a cercare; così come, d’altronde, ha fatto Fabrizio Pulvirenti, il medico di Emergency colpito da Ebola in Sierra Leone; e come se la sono andata a cercare i disegnatori di Charlie Hebdoo con la pubblicazione delle vignette su Maometto.

Ecco, speriamo che ci tocchi in sorte un mondo che se la vada a cercare. Sempre e comunque.

Se i giovani si organizzano, si impadroniscono di ogni ramo del sapere e lottano con i lavoratori e gli oppressi, non c’è scampo per un vecchio ordine fondato sul privilegio e sull’ingiustizia. (E. Berlinguer)

p.s. Revisionando l’articolo scritto qualche giorno fa, non posso non riportare quest’ultima affermazione su Greta e Vanessa contenuta in un tweet: “Vanessa e Greta, sesso consenziente con i guerriglieri? E noi paghiamo!”. Bene, il distinto signore che ha pronunciato queste parole, ha spiegato che, la sua, voleva essere una innocua richiesta di conferma della notizia appresa da un blog. Ora, a parte che non ci vuole un luminare per capire che se uno sceglie di porre ‘sta domanda, implicitamente la avalla, la cosa che sarebbe di una ilarità pazzesca, se non fosse tragica, è che il signore in questione è stato Ministro delle Comunicazioni per ben cinque anni. E il massimo esperto della comunicazione che dà credito a una notizia palesemente falsa tratta dal blog del taldeitali, sarebbe un bel colmo da lasciare ai posteri.

Per chi non lo sapesse, l’ex ministro in questione è Maurizio Gasparri.

Grazie, Greta e Vanessa… e scusateci per l’idiozia di qualcuno che il popolo sovrano ha avuto il coraggio di portare in Parlamento.

Noi  italiani… noi sì che ce la cerchiamo!

martedì 13 gennaio 2015

Due uomini armati in satira

Due uomini armati fino ai denti, con i proiettili eccitati all’idea dell’esplosione imminente, irrompono in una redazione di giornale

In qualsiasi altra redazione di ogni diverso giornale del mondo, i due uomini avrebbero provocato una carneficina.

Due uomini armati fino ai denti, con l’odio bramoso di essere vomitato sui cani infedeli, irrompono in una redazione di un giornale…satirico: Charlie Hebdo.

In questa redazione di siffatto giornale, i due uomini avrebbero voluto provocare una carneficina.

Le cose sono andate diversamente.

Il 07 gennaio 2015, due uomini hanno scelto il giornale e la redazione sbagliati.

Fanno irruzione, con “geometrica potenza di fuoco”, in una sala vuota.

Certo, ora è facile parlare di due sprovveduti che lasciano la carta d’identità in macchina; che hanno sbagliato l’indirizzo della redazione. Troppo facile ricorrere al dilettantismo di due uomini che, in un altro giornale, in una diversa redazione, avrebbero potuto uccidere 12 persone e ferirne altre, anche gravemente.

Ma torniamo all’assalto dei nostri due uomini.

Allah è grande”.Primo piano, niente.

“Allah è grande”. Secondo piano, manco un’ “ummira”.

“Allah è grande?”. Oh, sìììììì, “Allah è grande” perché si sono imbattuti finalmente in una porta chiusa che puzza di maiali in riunione.

I due uomini si scambiano un cenno d’intesa.

Le bocche dei kalashnikov crivellano la porta di fuoco.

Si fermano. Non si ode un lamento. Non si sente un grido manco a pagarlo oro.

I due uomini si guardano. L’intesa è rinnovata.

Uno di loro sferra un calcio a quel che resta della porta sbrindellata. L’altro aggredisce, con arma a tracolla sputacchiante fatwa e sura a gogò,…una scrivania.

L’inferno di fuoco si estingue per la sorpresa.

I due uomini pensano che Allah dev’essere per forza grande. E mentre se lo ripetono per evitare di dimenticarselo, qualcosa si muove.

Una matita, che pur negli spari senza soluzione di continuità se n’era stata ferma, si alza indispettita.

I due uomini, addestrati a non farsi infinocchiare dalla zizze virtuali di you porn, a non prestare fede alle grandi opere che nascondono grandissime tangenti, sono spiazzati.

La matita si mette all’opera.

Un leggero movimento a destra, poi a sinistra, in su e in giù. Una mazurka di ghirigori. Un fischio prolungato. Arrivano due colori, il rosso e il giallo.

“Ma dove cazzo stavano i colori un minuto fa?”- pensa uno dei due uomini.

“Ma tu vuoi vedere – si chiede il secondo attentatore – che a forza di gridare ‘sto minchia di “Allah è grande”, ci siamo persi i colori? La matita, nessuno la mette in dubbio. Ma ‘sti sfaccimma di colori?”

Due uomini, armati fino ai denti, avrebbero potuto provocare una carneficina.

Si trovano, invece, voltati verso la Mecca dei fanatici con il culo a poppa, con le braccia inchiavardate da un nugolo di puntine da disegno uscite dal cassetto di vattelappesca.

La matita armeggia con i loro culi che ti piange il cuore a vederla. All’improvviso si ferma. I colori, allora, seguendo quei cerchi tracciati in maniera mirabile, si danno da fare eccitati dall’idea di completare l’opera.

I due uomini, spogliati dalle armi, incapaci di capire cosa stia accadendo, avvertono solo un armeggiare di punte di diverso spessore sui loro fondoschiena.

Il bersaglio è bell’è colorato.

La matita allora, dopo aver gonfiato il petto per l’onore che da lì ad un momento le toccherà, si reca di nuovo sulla scrivania. Da qui alla parete in cui sono immobilizzati i due uomini, vi è una bella distanza.

Penne, colori, gomme per cancellare, forbici, puntine e chi più ne ha più ne metta, si piazzano ai lati, in due ali in tripudio festante, dell’Arc de Trionphe  in cui si materializzerà la vittoria.

I due uomini, inconsapevoli e persi, si predispongono ad accogliere la marcia trionfale della redazione di Charlie Hebdo.

Pronti, partenza via. Manco il tempo di ripetere per l’ultima volta “Allah è grande” che la matita si sdoppia: compaiono due punte affilate come la lama di un rasoio.

Una nel culo dell’uomo a destra, l’altra nel culo a dell’uomo a sinistra.

La satira, parafrasando l’ombrello del nostro Altan, è entrata nel cu…ore del fondamentalismo fino a seppellirlo in una caterva di risate.

JE SUIS CHARLIE !

mercoledì 7 gennaio 2015

Furto “voluminoso” e frase memorabile

Furto “voluminoso”: un ex dirigente di azienda di sessant’anni è stato sorpreso a rubare

Riportata così, la notizia del furto ha ben poco di originale. Massimamente, poi, in un periodo in cui i mezzi economici sono ridotti al lumicino e quindi le giustificazioni di un furto sempre più a buon mercato.

Eppure vi devo confessare che se una ruberia, di per sé ovviamente sempre deprecabile, potesse essere “abbuonata” e/o addirittura incoraggiata, ebbene, sarebbe proprio questo uno di siffatti casi. E sì perché il Lupin in questione non è stato “sgamato” a sgraffignare soldi, rolex, autovetture o portafogli. Nossignore. L’impunito è stato colto in flagranza mentre portava via…libri. Già, proprio di libri si tratta. Ma vi è di più: alla domanda delle allibite forze dell’ordine, a tal punto (immagino) da bruciare la prima (perché rubi?) e passare direttamente alla seconda domanda (per quale motivo dei libri?), il contrito ex dirigente ha candidamente risposto:<Perché ho sete di cultura da libri e non riesco, avendo perso il lavoro, a soddisfarla!>

<Eureka!>

<Eppur si muove.>

<Verrà un giorno...!>.

<Obbedisco!>

Ecco, del tutto inconsapevolmente, il ladro in questione ha partorito un’altra frase memorabile (“sete da cultura da libri”) degna di essere inserita in un similare elenco per la correlazione tra sete, come bisogno insopprimibile dell’uomo, e cultura, libri.

O arguto fuorilegge intento, novello Paperone, a tuffi corroboranti nei mucchi di caratteri stillanti vita e sangue umano, chi è più smaliziato di te che hai capito come il più importante capitale sia quello racchiuso nella calotta cranica? Anche, infatti, nelle angustie sferzanti della povertà; pure se fossi inchiavardato nell’immobilità più assoluta; perfino se il tuo corpo fosse passato dallo stato animale a quello vegetale, ebbene, stanne pur certo che sempre, in qualche rimasuglio della mente, si proietterà qualcosa che assomigli alla distesa di un oceano solcato dalla vociaccia dei pirati che intonano:

Quindici uomini sulla cassa da morto, yo-ho-ho! E una bottiglia di rum per conforto!”

lunedì 5 gennaio 2015

Il respiro di Napoli (su Pino Daniele)

Il respiro di Napoli, arrochito dalla pietra lavica del Vesuvio, affannato dai miasmi dei roghi tossici, eternato dagli squarci di storia infinita…

…e ancora, il respiro di Napoli, cullato dall’ adda’ passà ‘a nuttata, raccontato dai vicoli stesi al sole, immillato dalla musica delle contaminazioni…: ebbene, il respiro di Napoli è venuto, ancora una volta, meno.

Nei polmoni abusati eppure capaci di sempre nuovi immagazzinamenti di vita, vi è stato un momento di pucundria. Una pausa che ha atrofizzato, sia pure solo per un attimo, gli alveoli che incamerano l’addore ‘e mare e lo trasformano in mille culure.

Il respiro di Napoli si è strozzato in gola. È morto Pino Daniele.

Per trenta secondi, la città si è cristallizzata in un dagherrotipo del tempo presente, eppure già imbrigliato nel passato di un’assenza.

Napule è ‘na carta sporca…

Ogge è deritto, dimane è stuorto, e chesta vita se ne và…

E nui passammo e uaie e nun puttimmo suppurtà e chiste invece e rà na mano s’allisciano se vattono se magniano a città…

E ancora, perché i trenta secondi dei grandi si misurano in emozioni, il blues napoletano di un nero a metà, l’oggi è sabato, domani non si va a scuola di ogni ultima ora di religione, il quanto costa la felicità delle prime riflessioni sul senso della vita; infine, l’a me me piace chi dà ‘nfaccia senza ‘e se fermà’, rimuginato davanti a ‘na tazzulella ‘e cafè, quanno chiove e avresti voglia di mettere tutti ‘nfaccia ‘o muro.

Al respiro di Napoli basta anche solo questo primo universo di musica di Pino Daniele, per avvertire l’esigenza di fermare il cuore del suo microcosmo.

Come le era capitato di fare anche per Massimo Troisi, che aveva rivestito di immagini le semiminime e gli accordi della chitarra di Pino Daniele.

Il respiro di Napoli, però, inizia a insufflare aria non appena viene solleticato da un altro garage del Rione Sanità, dove un giovane cerca il riscatto tra le corde di una chitarra; quando viene pungolato da un ennesimo scugnizzo che imbraccia uno strumento troppo pesante di fatica per essere studiato nelle aule leggere del Conservatorio.

Il gorgoglio di vita chiede di poter sfociare in un rigurgito di aria allorquando assiste all’incontro tra un chitarrista e un attore che continueranno a declinare, servendosi di musica e celluloide, il genio di Napoli nel mondo.

Troppa aria viene immagazzinata nei polmoni. È giunto il momento di riattivarsi.

Il respiro di Napoli riprende ancora una volta a dare senso alla vita.

E cammina, cammina vicino ò puorto / e rirenno pensa a’ morte / se venisse mò fosse cchiù cuntento / tanto io parlo e nisciuno me sento…

Addio Pino, e quanto ti sbagliavi nel pensare che la morte potesse rendere afona la tua voce di chitarra e poesia!

martedì 30 dicembre 2014

È severamente vietato...ovvero la "manomissione" delle parole

“È vietato severamente…”, ovvero la “manomissione” delle parole

Fermo davanti al cartello del parco Mercatello, ho un sentore di qualcosa di superfluo. “Boh, – mi dico -sarà il “di più a prescindere” di queste feste che appare anche in un innocuo “avviso ai visitatori”.

Percorro a piedi l’umbratile distanza tra il parco stesso e l’ufficio postale di Mariconda.

L’ “è vietato severamente”, però, me lo porto fin al cospetto dell’addetto alla “consegna posta inesitata”.

Qui mi imbatto in un bisbiglio di protesta che diviene vera e propria ribellione non appena dall’esterno dell’ufficio viene veicolato all’interno.

<È inutile, – precisa l’impiegato – abbiamo l’ordine tassativo…è severamente vietato…>.

“ordine tassativo…severamente vietato”: eccomi finalmente chiara la superfetazione iniziale.

Non c’è niente di meglio che la lingua, organismo vivo e sensibile come non mai, a descrivere le abitudini di un popolo. Una nazione che ha bisogno di “rendere più forte” un lemma che di per sé dovrebbe essere già il non plus ultra, non è una nazione affidabile.

Il tristemente noto “achtung” tedesco, infatti, non viene nemmeno sfiorato dal dubbio che qualcosa possa rafforzarlo. In esso già è concentrato l’acme dell’imperio.

Tornando al nostro divieto iniziale, occorre precisare come sia inutile, nel momento in cui si dice o si scrive “è vietato”, aggiungere un avverbio (“severamente”, “assolutamente”, etc .). Il participio passato “vietato” dovrebbe essere così forte, così categorico, da non consentire alcun altro rafforzativo. “È vietato”. Punto. Stop. Non si può vietare poco o vietare assai.

Analogo discorso si può fare con il verbo “amare“. Se io amo, amo. Se il mio sentimento verso qualcuno o qualcosa è inferiore all’amore, io non utilizzo “amo poco”, bensì faccio ricorso a un verbo meno esaustivo e coinvolgente dell’amare come “piacere”, ad esempio.

Nel 2010, l’ottimo Gianrico Carofiglio, ha pubblicato il saggio “La manomissione delle parole“, edito da Rizzoli. Ebbene, in quest’opera, lo scrittore usa il termine manomissione sia come denuncia che come auspicio. Come denuncia, perché invita a non, per l’appunto, manomettere, travisare le parole, tradendo il loro significato originario e attribuendogli una gradazione più o meno forte di quella che ontologicamente hanno (“è severamente vietato”, ad esempio).

La manomissione come auspicio invece, è insita nell’etimologia di siffatto lemma che risale addirittura al diritto romano: “manomettere”, dal lat. manumittĕre, propr. “mandar libero (mittĕre) con la mano (nu)”, per est. “rendere libero dalla schiavitù”. Ecco, l’auspicio dello scrittore a liberare le parole vuole essere anche una sorta di missione che ognuno di noi deve impegnarsi a portare a termine: scrivere, parlare, dando il giusto peso ai vocaboli utilizzati.

Possiamo iniziare già in occasione di queste feste facendo, ad esempio, gli “auguri” e non i troppo inflazionati “augurissimi”. Che poi, sia chiaro, se in questi giorni il destinatario dei nostri auguri vince il superenalotto, si fidanza con miss universo, scopre la fonte dell’eterna giovinezza, beh, in questo caso (ma solo in questo caso) potrebbe senza dubbio meritare gli “augurissimi”.

In conclusione, è vietato (e basta!) darsi per vinti, lasciando che il colore della nostra lingua venga sbiadito da un uso improprio.