Ogni anno, il mio primo mare è frutto di un contatto; del corpo con l’acqua, sicuramente, ma ancor prima e più attentamente, dei piedi con la sabbia. Tutte le volte, infatti, che mi tolgo le ciabatte e poggio la pianta dei piedi sulla battigia, è come se riannodassi le fila della scorsa estate con quella che mi accingo a vivere.
È un sintonizzarsi con le nervature profonde di un elemento misto, metà terragno metà acquatico, che mi riconcilia con le mie quarantadue stagioni precedenti. E sì, ci sono proprio tutte: da quella dimenticata eppur presente in qualche piega di memoria dei piedini conficcati nella sabbia con l’ostinazione di chi non vuole abbandonarsi all’ignoto, a quella ansiogena e comunque allettante dell’adolescente in attesa degli orali che gli confezioneranno la maschera da portare a zonzo nella società; passando, irrimediabilmente, per la stagione di qualche mancanza che mi accompagnerà per tutta la vita, fino ad arrivare a quella in cui l’io si espande a ricomprendere un’alterità di cui non potrò più fare a meno.
Stamattina, il mio piede sulla battigia del primo mare, mi riconnette con le speranze, le nostalgie e quel senso di spaesamento che hanno connaturato i miei anni. Quando, dopo un minuto speso a giustificare con le scuse più bislacche il mio rimanermene piantato lì, sulla linea di confine tra la sabbia e il mare, mi decido finalmente a consegnarmi alle onde, i piedi hanno già rotto il ghiaccio con quell’elemento ogni anno diverso, eppure sostanzialmente identico a quello dell’anno precedente e all’altro ancora prima, fino all’origine del mondo.
Il mare, il cui respiro millenario un piede allenato può già avvertire dalla sabbia che lo introduce, ci aspetta sornione anche quest’estate: conosce le asperità del nostro corpo, e ancor più gli aneliti e gli abissi delle nostre anime. Niente paura: non esiste una pianta così sensibile da avvertirli né una sabbia a tal punto ciarliera da spiattellarli in giro.