lunedì 21 ottobre 2024

"La macchia umana", di Philip Roth

 Tutto parte dall’appellativo di “spettri” che lo stimato professor Coleman Silk rivolge a due studentesse latitanti fin dal primo giorno di corso. Il caso vuole che queste due ragazze siano anche nere e che il lemma “spettri”, tra i numerosi significati secondari, ha pure quello di “negri”.

Sotto i piedi di Coleman Silk, che durante tutta la sua carriera ha trasformato il college di Athena in una fucina di talenti e nel paradigma del buon insegnamento, si apre la voragine della perdizione. Accusato ingiustamente di razzismo, dà le dimissioni evidentemente sdegnato da questo stigma infamante. Proprio lui che…certo, c’è la vita familiare e professionale fondata sul rinnegamento delle proprie origini; a tal proposito, com’è che gli faceva il verso suo fratello Walter? “Bianco più bianco del giglio”, sì, ma questa è l’impalcatura su cui il professore costruisce tutta la sua irreprensibile vita. Fatti più o meno privati, insomma.

Frattanto, la bulimica macchina del fango non si arresta: ben presto, all’interno del college e poi immancabilmente all’esterno, viene diffusa la notizia che il brillante Coleman Silk approfitti sessualmente di una donna di circa quarant’anni più giovane. Ma non basta: Faunia, la femmina in questione, ha avuto una vita travagliatissima (dalla violenza subita dal patrigno, alla morte dei suoi due figli; dalla iattura di un marito affetto da disturbo da stress post traumatico…ancora il maledetto Vietnam!, a una condizione di povertà intellettuale imbarazzante) e non trova di meglio, per campare, che fare la bidella al college, le pulizie in un ufficio postale e lavorare presso un allevamento di vacche.

I troppi benpensanti non riescono ad accettare l’idea che pure a settant’anni suonati, anche dall’alto della propria posizione sociale, ci si possa innamorare visceralmente di una donna con la metà dei propri anni, per di più pressochè analfabeta.

Neppure la morte si sottrae alla speculazione sul conto del professor Silk: un gioco erotico imposto alla derelitta Faunia, l’ancella delle sue perversioni, e dritti giù nel fiume a folle velocità.

Eccola l’ufficiosità di un referto che diventa pietra tombale su cui sotterrare perfino la memoria di Coleman Silk.

Eppure, c’è qualcuno che non ci sta: Nathan Zuckerman, scrittore e amico per un breve periodo del professore, vuole ristabilire la tante verità che sono mancate nella sequenza dei fotogrammi relativi alla vita dello studioso. Ma dovrà farlo in solitaria e in silenzio perché il solo indagare su una fine che vede accostati i nomi di Coleman Silk e Faunia Farley, appare di una ereticità imperdonabile.

"Noi lasciamo una macchia, lasciamo la nostra impronta. Impurità, crudeltà, abuso, errore, escremento, seme: non c’è altro mezzo per essere qui".

"Magia e Fantasia", a cura di V. Sacchi ed E. Visalberghi

Di fiabe hanno scritto, oltre a Charles Perrault, i fratelli Grimm, Hans Christian Andersen, anche altri scrittori insospettabili del calibro di Luigi Capuana, Oscar Wilde, Aleksandr Puskin e Antonio Gramsci. E in "Magia e Fantasia", Ghisetti e Corvi editori, una selezione di letture per la scuola media (oggi si direbbe "scuola secondaria di primo grado"), sono presenti anche le fiabe di questi ultimi.

È un mondo fantastico quello racchiuso in queste pagine, dove accanto al celeberrimo gatto che fa passare il povero padrone addirittura per il marchese delle Carabattole (curiosità: prima di Perrault, dell'astuto gatto aveva favoleggiato Giambattista Basile nel "Gagliuso" del Cunto de li cunti ), e passando per il terribile Barbablù e la sua chiave insanguinata, ci sono una serie di anime candide (Giovannin Senzapaura, Gian Babbeo, Giacomo il sempliciotto) che, del tutto inaspettatamente, si riveleranno più astute di Belzebù e delle streghe che furoreggiano in molti racconti.

Questo libro presenta alcuni tra i più celebri e significativi esempi del patrimonio fiabesco europeo, corredato dagli immancabili topoi di ogni fiaba che si rispetti: ci sono le fatiche a cui sono sottoposti i vari protagonisti (la cattura dell'Uccello di fuoco, la liberazione della principessa dal perfido drago, etc.), le astuzie a cui si ricorre per garantirsi la vita o per lasciarsi alle spalle una via di fuga purchessia, le donne che, quando non vestono i panni di presenze mefistofeliche o delle abusate svampite, diventano la chiave di volta per salvare capre e cavoli (in Tom Tit Tot la ragazza ottiene l'aiuto del diavolo per farsi beffe del marito e quello del marito per mettere nel sacco il diavolo).

"Magia e Fantasia", poi, nella parte finale, prevede delle "esercitazioni" consistenti in test oggettivi di comprensione, inviti alla riflessione e proposte di lavoro, senza dimenticare quelle "riflessioni sulla lingua" che approfondiscono alcune parole incontrate nella lettura ("salario", "scacchi", "astrologo", etc.).

In questo mondo asettico in cui gli ingranaggi della consequenzialità debbono essere ben rodati e oliati, com'è rassicurante, a volte, perderci in un certo reame di un certo stato! Non foss'altro perchè solo grazie alla magia e alla fantasia possiamo essere oggetto di trasformazioni strampalate e meritarci delle fortune improvvise.

E la morale? C'è anche quella in queste fiabe. Sissignore:

Quella curiosità che tanto spesso

Costa dolori e gravi pentimenti

È un futile piacere (non spiaccia al gentil sesso)

Che, una volta raggiunto, finisce immantinenti.

"La presa di Macallè", di Andrea Camilleri

È un viaggio iniziatico, questo del Michilino di Camilleri. Sullo sfondo, la guerra in Abissinia ("baggiana criminalata") e la presa, tra le altre postazioni, di Macallè da parte di uno sgangherato esercito imperiale ("una minchiata solenne").

Tra il padre Giugiù, segretario cittadino del Fascio che lo consacra al culto del Duce, la mamma e padre Burruano che gli inculcano il sacro furore contro le cose vastase, il picciotteddro di appena sei anni si approssima a una morale distorta e alfine omicida, suo malgrado.

Figlio della lupa, scolaro apparentemente dotato che si deve abbeverare a una fonte altra rispetto alla scuola pubblica (il professore Gorgerino che lo sodomizza in nome di un famigerato stile spartano stretto parente di quello fascista), Michilino esplora il sesso con la vedova Sucato prima di agguantarlo in tutta la sua complessità con la cugina Marietta. Il fatto è che, al sesso, il nicareddro sembra votato (angilu minchiutu): l'aciddruzzo sò, infatti, è di dimensioni notevolissime per un bambino e il suo attisarsi come un palo della luce ogni volta che sente a tutto volume i discorsi di Mussolini che erompono dal grammofono, fa di lui un predestinato alle cose tinte.

Poi ci sono i Maraventano, il padre sarto e suo figlio Alfio, che in ossequio al travisamento dell'insegnamento di Gesuzzo (Un comunista non è un omo, ma un armàlo e perciò se s'ammazza non si fa piccato), possono essere sacrificati, il primo indirettamente, il secondo impugnando il moschetto fuori ordinanza (Libro e moschetto fascista perfetto).

Il primigenio tributo di sangue al Duce, è bello che pagato. Adesso, a Michelino, resta il conto aperto con il Signoruzzu e le cose di chiesa. A tal proposito, padre Burruano e la mamma, grazie a una lettera anonima di quelle con cui, a certe latitudini, si allestiscono tragedie, vengono scoperti in una "penetrante" conversazione dal papà.

La cugina Marietta, dopo il compito di nave scuola espletato egregiamente, duna adenzia non più al dotato Michilino, ma a suo padre che conciato per le feste il parrino e cancellata la mamma dalla vita del figlio, ha bisogno di rasparsi le corna con carne fresca.

C'è un problema, però: quando ficcano un uomo maritato e una donna schetta, piccato mortalissimo è.

A Michilino, manco a dirlo, spetta il compito di rimarginare la ferita di Gesù per le cose vastase del papà e della cuscina. E lo farà in un modo tragico e pirotecnico.

L' "infanzia sabotata" di Michilino trova il suo compimento nel "Tu sei mio" del Gesuzzo che vola sopra le fiamme e dell' "Io sono tuo" del picciliddro che trase nel foco vivo.

mercoledì 7 dicembre 2022

Bellano a due passi da Vigata

 


Bellano, comune (reale) della provincia di Lecco, sponda orientale del lago di Como, profondo Nord.
Vigata, città (immaginaria) che si sfalda nel mare, sicuramente sicula, estremo Sud.
Come dire alfa e omega, il bianco e il nero. Eppure…eppure due scrittori si sono messi di buzzo buono e hanno costruito un ponte tra queste due località geograficamente agli antipodi. Con esiti, vedremo, sorprendenti.
Del maestro Camilleri, manco a parlarne. Per precetto biblico infatti, guai a nominare il nome di Dio invano, si sa.
Per quanto riguarda Andrea Vitali invece, parliamone, e anche tanto: medico condotto proprio a Bellano, per ironia della sorte si accorge ben presto di saper scrivere, e pure bene. Prima, però, di animare i polpastrelli e disperdere inchiostro su carta alla come viene viene, capisce che deve mettersi in ascolto. Di chi? O bella, dei mille e passa mutuati che ogni giorno, tra una ricetta medica e un dolorino che proprio non ne vuole sapere di passare, affollano il suo ambulatorio.
Sono voci del popolino, pettogolezzi delle comari, “non detti” di prevosti e confessionali, la placenta feconda che nutre la sua arte. A Bellano quindi, così come nella celeberrima Vigata.
Anche nella cittadina lecchese il movimento delle onde (del lago, beninteso, ma sempre di elemento acquoso si tratta) sembra cullare le ansie, i ritrovamenti e gli smarrimenti del popolino che si azzuffa, si fronteggia, si perdona, puntualmente invischiato in un sorriso di pregevole fattura.
Pure a Bellano le forze dell’ordine, nella fattispecie i carabinieri, spesso la fanno da padrona: certo, qui non c’è il baffuto commissario Montalbano (ben presto divenuto, nella trasposizione cinematografica, più o meno glabro e praticamente calvo) ma c’è il prolifico maresciallo Ernesto Maccadò, coadiuvato dal brigadiere Efisio Mannu e dall’appuntato Misfatti: sottoposti, questi ultimi, che proprio non si possono soffrire.
Financo i giorni torridi sembrano irradiare, pur alle opposte latitudini, zaffate di calore similari che tramortiscono i sensi. Simili, ok, ma non al punto da annullare le differenze tra i due scrittori che pur ci sono. Per esempio tra il vigatese pressochè inventato dal Maestro e l’italiano, per quanto spesso contaminato da una divertita territorialità, comunque ordinario; nella diversa concezione delle cose sacre, laddove per Camilleri la religione ha sempre un retrogusto di ipocrisia e negatività (“Monaci e parrini/sentici la missa/e stòccaci li rini”) mentre per il buon Vitali la Chiesa, con le sue ineffabili perpetue e i suoi risoluti parroci, fornisce spunti molto spesso costruttivi e decisivi per le varie vicende che si dipanano.
Un’altra differenza importante è che le storie dello scrittore lombardo sono ambientate esclusivamente negli anni '20 e '30  del secolo scorso (in pieno fascismo, quindi, che il buon Vitali non manca di scimmiottare).
Poi, a voler spaccare il capello in quattro, ci sarebbero i riferimenti letterari per il genio di Porto Empedocle e la frequente terminologia medica adoperata nelle pagine del Vitali; come anche la simpaticissima fissa di quest’ultimo per nomi del tutto desueti.
Per concludere, leggendo il Vitali, molto spesso mi trovo catapultato in quelle atmosfere fatte di piccole delazioni, di frasi smozzicate, di pettegolezzi alla buona, tipiche di un substrato meridionale.
Ma non è che, sotto sotto, il bellanese Andrea Vitali abbia qualche ascendenza terrona? E in effetti, se si pensa che il brigadiere Maccadò è calabrese mentre il Mannu e il Misfatti sono rispettivamente sardo e siciliano…
Com’è che stiano le cose tra Bellano e Vigata e i due Andrea (altra coincidenza!), che meraviglia le insolite corrispondenze della letteratura di qualità!

 

Il librivendolo pazzo di Polla

 


Ci sono diversi modi per incoraggiare la lettura, specie nei bambini. Lo si può fare scrivendo storie con accuratezza e onestà intellettuale; ma anche pubblicando libri ben scritti a prescindere dalla fama dello scrittore di turno, troppo spesso acquisita per altri meriti. Ci sarebbero poi le politiche messe in campo dai diversi livelli istituzionali (?), così come il ruolo imprenscindibile dei maestri e degli insegnanti. Poi ci sono i librai che, indipendenti o “griffati”, non si limitano a impilare libri nelle scansie, ma li cullano gelosamente in attesa del giusto destinatario.

Alla fine della catena o all’inzio, fate un po’ come vi pare, c’è…un pazzo. Sì, proprio così, un mentecatto che, inchiavardato nella sua “Ex libris cafè” di Polla, a distanza quindi siderale dagli snodi letterari che contano, non perde giorno che non se ne inventi una per raggiungere lo scopo: portare libri in ogni casa, alleggerire gli occhi (soprattutto dei bambini) dallo sproposito del display per affidarli agli svolazzi della carta stampata.

Pazzo sì, dieci, cento, mille volte pazzo, senz’ombra di dubbio.

Come altrimenti definire un librivendolo che, tra l’altro, ha ideato “Il libro sospeso” (2002) di Polla, Caggiano e Pertosa, il “Salva alberi” (2004), i “Viaggi con l’autore” (dal 2015 al 2017) sulle autolinee Curcio (più di trenta scrittori hanno presentato la loro opera on the road e sono stati ben 1760 i volumi donati ai passeggeri)?

Ancora qualche dubbio sulla follia che irradia dalle sinapsi del tizio in questione? E se vi dicessi che è stato l’inventore e il promotore della campagna “Non rifiutiamoci”? Di che si tratta? Semplice: per ogni bottiglia consegnata presso la sua libreria, in cambio un libro. A fronte di 8 quintali di alluminio e 8 di plastica, così, sono stati consegnati ben 5000 libri sospesi.

Nel 2019 l’iniziativa “Non Rifiutiamoci” è stata sostenuta da Enel  Green Power e, quest’anno, da Flavio Insinna con il suo libro “Il gatto del papa”, Rai Libri.

Ora, come ogni folle che si rispetti, da Astolfo che va sulla Luna a ricercare il Senno perduto all’hidalgo Don Chisciotte della Mancia che parte lancia in resta contro i mulini a vento, anche il Nostro non conosce limiti: la promozione della lettura senza se e senza ma sì, ma anche la tutela dell’ambiente.

Ah, per perorare oltremodo la tesi incontrovertibile della sua demenza irrecuperabile, ci sarebbero pure il “Miscellanea Mundi”, gioco letterario scritto dai bambini per i bambini, e il “Diario Non Rifiutiamoci” dove s’unisce l’utilità di un’agenda all’attenzione verso i pensieri dei bambini, puntualmente riportati in calce alle sue pagine.

Adesso che vi ho convinto circa lo squilibrio mentale del soggetto in epigrafe, posso rivelarvi anche il nome: signori e signore, ecco a voi Michele Gentile da Polla.

E poiché la pazzia è un affare contagioso specie per menti deboli, eccomi bello e infettato. Pur consapevole di non poter mai ammantarmi dello stigma esteriore della eccentricità di Michele (cascata ribelle di capelli ricci), mi propongo di aiutarlo a realizzare il suo ultimo deragliamento: la presentazione del “Diario Non Rifiutiamoci” – Rupe mutevole edizioni, anche nella città capoluogo.

Seduti a sorseggiare un caffè nell a sua “Ex Libris Cafè”, non perdiamo tempo: lui impugna il piffero “fabuloso” e io scimmiotto alla meno peggio la danza-richiamo:

Amanti della lettura di Salerno, e solo per questo incontrovertibilmente fuori di melone, unitevi a noi nella prossima, imminente presentazione del “Diario Non Rifiutiamoci” perché…"Insieme abbiamo attraversato la paura dell'impossibile, con una bottiglia, una lattina e un libro, e il mondo ci ha applauditi, elogiati, celebrati e premiati. Questo diario, con le voci di chi ha voluto condividerne il sogno, è la promessa di continuare a starvi vicino, a lottare insieme per un futuro migliore, c'è ancora tanto cammino da fare e tanti bambini da abbracciare... e regalargli un libro!" (Michele Gentile).

“Il pazzo è un sognatore sveglio”, Immanuel Kant.

 

giovedì 4 marzo 2021

L'ingegnera che sapeva scrivere

 


«No, Vince’, non è proprio possibile. Io domattina, la prima cosa che faccio, è chiederglielo.»

Il “domattina” per telefono è diventato l’“oggi” dell’udienza.

Provo a dissuaderlo per l’ultima volta, ripetendogli come non ci sia scritto da nessuna parte che un ingegnere non possa saper scrivere bene in italiano.

«Ancora, Vince’? Da che mondo è mondo,» - precisa uno stizzito Gaetano - «gli ingegneri, i chimici…sì, insomma, tutti i tecnici, fanno a cazzotti con la grammatica e la sintassi un giorno sì e l’altro e l’altro pure; a meno che…Ingegnere, mi scusi» - il tecnico in questione, nonostante la mascherina che le lascia una fisiologica zona d’ombra sul volto, si rivela di una conturbante avvenenza.

«…» - deglutisce Gaetano, provando ad approntare una qualche difesa a quella che mi appare fin da subito come “un cavallo, un gatto, un'ondata di mare nordico al sole”.

«Ingegnera, prego. Mi dica, avvocato.»

La baldanza di un minuto prima del mio amico-collega si aggroviglia, smarrendosi, nei riccioli neri dell’ingenera.

«No, mi chiedevo…e anche l’avvocato, qui…» - pavido, m’affretto a far oscillare il capo a destra e a sinistra come il miglior pendolo svizzero - «se lei non avesse frequentato il liceo classico prima della laurea in ingegneria. Sa, scrive davvero bene, e quindi…»

L’ingegnera ci guarda entrambi, e il suo sguardo è un sudario che depone sul nostro viso il calco della più becera banalità.

«No, non solo non ho frequentato il classico ma, e qui prevengo la vostra» - provo a dissociarmi dal mio amico, ma ormai non c’è più verso di farlo - «seconda domanda, nemmeno il liceo scientifico. Mi sono diplomata in un umile istituto tecnico per geometri.»

Gaetano la guarda sorpreso, ancora pensando di averle chiesto qualcosa che avrebbe dovuto lusingarla.

L’ingegnera, dal canto suo, guarda l’orologio. Capisce che ha una decina di minuti a disposizione prima che il giudice chiami la nostra causa. Li reputa sufficienti: «Dovete sapere» - ci spiega sorridendo - «che la separazione tra la cultura tecnico-scientifica e quella umanistica viene fatta risalire alla fine degli anni ’50 ad opera dello scrittore inglese Snow. Da quel momento in poi, in molti, in troppi di noi, si radica la convinzione… per farla breve,» - e qui ci guarda sinceramente persuasa dalla necessità di semplificare il discorso acciocché anche noi possiamo capire - «che i tecnici non sappiano scrivere e che gli “umanisti”, di converso, siano inabili al calcolo, alle misurazioni, etc. Eppure Primo Levi, che pur essendo un chimico, è stato definito unanimemente come il miglior scrittore di scienza di ogni tempo, ha parlato di un “crepaccio assurdo” con riferimento alla separazione tra la cultura scientifica e quella letteraria. Anzi, lo stesso Levi scrive che “l’arte di separare, pesare e distinguere” è essenziale per l’esercizio della scrittura. D’altronde, ancora Lui, e qui cito a memoria…» - temo, dall’ostilità con cui mi guarda Gaetano mentre l’ingegnera parla in maniera sempre più appassionata, che sospetti una mia “intelligenza col nemico” (l’avrei preavvertita circa la sua domanda sul classico?) - «“non la conoscevano (la distinzione tra cultura scientifica e quella tecnica) Empedocle, Dante, Leonardo, Galileo, Cartesio, Goethe, Einstein, né gli anonimi costruttori delle cattedrali gotiche, né Michelangelo; né la conoscono i buoni artigiani, né i fisici esitanti sull’orlo dell’inconoscibile.”»

È il nostro turno. Gaetano, parte convenuta, davanti al giudice s’impappina su una cifra figlia di una divisione per nulla difficile.

«Avvocato,» - lo richiama il giudice, dopo essersi fatto un rapido calcolo mentale - «12500, vorrà dire.»

E prima che Gaetano possa accorgersi dell’errore e rettificare: «Signor Giudice,» - s’intromette l’ingegnera provocatoriamente comprensiva - «li scusi: purtroppo, entrambi hanno frequentato il classico.»

 

 

venerdì 25 settembre 2020

Tra precauzioni e rischio zero

 


Diciamocela tutta, il Covid 19 continua a gettarci in uno stato di prostrazione profonda perché ha minato le nostre sicurezze. I progressi della ricerca, il benessere sociale, infatti, ci avevano persuasi che l’unico pericolo per la sopravvivenza dell’uomo potesse venire da un attacco esterno (guerre, terremoti, terrorismo). Questo non significa, beninteso, che ognuno di noi, almeno una volta nella vita, non abbia dovuto fare i conti con qualche virus. Ricordo ancora con terrore, ad esempio, le lacrime di Pinuccio alla guida del Sì Piaggio trasportate dal vento nelle mie pupille che gli guardavano la schiena (“Sono perduto, mi ha mischiato sicuramente l’Aids!”). Eppure, dopo una prima fase irrazionale che materializzava untori a ogni angolo di strada, subentrava la consapevolezza che, evitando certi comportamenti a rischio, si era pressoché sicuri di scamparla: “Non mi drogo, non vado con gli omosessuali…a parte Giuseppina in odor di santità, non conosco altra donna, evito aghi e trasfusioni…”

Il Covid 19, invece, ci ha sorpresi nudi di fronte all’imponderabile. L’uomo occidentale, ormai relegata l’infezione pandemica a un contesto terzomondista, aveva ripreso a considerarsi arbitro unico e indiscusso della propria esistenza. Fino, appunto, alla nuova pandemia di cui, se solo avessimo avuto più memoria e maggiore senso pratico, avremmo dovuto prevederne l’arrivo e la possibilità che, una buona volta, sarebbe stata orfana del salvifico “rischio zero”. E già, perché è proprio questo il punto: al cospetto del Covid 19, non c’è sicurezza che tenga. Ognuno, per suo conto, può adottare tutte le precauzioni possibili come indossare la mascherina, limitare le uscite a quelle indispensabili, detergersi continuamente le mani, etc. Eppure, tutti questi comportamenti virtuosi, nessuno escluso, non ci garantiscono l’immunità. Basta, per capirci, soffermarci sulle mascherine. Moltissimi di noi la utilizzano male. Praticamente tutti, poi, indossano la stessa mascherina più tempo di quanto dovrebbero (4-6 ore). Quindi è sufficiente che qualcuno della nostra cerchia di contatti indispensabili la usi in maniera non ortodossa, per far andare a farsi friggere il fantomatico “rischio zero”. Se poi si passa alla detersione delle mani subito dopo aver toccato cose o superfici, la concreta impossibilità di farlo sempre, rende ancora più evidente quanto appena affermato.

All’università, il “principio di affidamento” mi aprì un mondo. Mi fece capire che malgrado tutte le cautele apprestate, ad esempio alla guida di un’automobile, per avere la “certezza” di evitare incidenti, bisogna giocoforza fare affidamento sulla uguale prudenza e rispetto del codice della strada da parte degli altri automobilisti. In altri termini, quindi, nemmeno nella vita di ogni giorno possiamo dipendere solo ed esclusivamente da noi stessi. Il che, a ben pensarci, è troppo spesso un bene.

Tornando alla nostra pandemia, dobbiamo adottare sicuramente le precauzioni prescritteci, e farlo in maniera corretta sia pure senza isterismi, ma dobbiamo anche liberarci dal cipiglio di “dalli all’untore” quando c’imbattiamo in un contagiato. A maggior ragione allorché la persona infetta sia stata, suo malgrado, solerte nel cercare di evitare ogni occasione di esposizione al virus.

Buona fortuna a tutti noi.