lunedì 21 ottobre 2024

"Non so", di Andrea Licalzi

Ci sono dei libri che, in situazioni normali, non compreresti. Poi ti soffermi a leggere la quarta di copertina color Tex Willer, e scopri che tu e il protagonista avete in comune un’esperienza che merita approfondimenti. E così, senza nemmeno accorgertene, il libro di Lorenzo Licalzi diventa il tuo nuovo compagno di viaggio.

Mario Dominici, fin dalla fanciullezza vissuta in periferia, “sa di non sapere”. E di questo “non so” si fa scudo per approcciarsi alla vita.

Io faccio parte di quella percentuale minima di italiani che ai sondaggi risponde non so.

Michel, il suo amichetto immaginario, lui sì che sa come si affronta la realtà. In assenza di questa consapevolezza, la vicenda umana di Mario, dalle angherie più o meno gratuite infertegli dal disadattato Solinas fino al riconquistato rapporto con il piccolo Leonardo, può essere vista come l'eterna rincorsa da parte di Willy il Coyote all’inafferrabile Beep Beep: sempre a un passo dalla cattura, eppure puntualmente a mani vuote.

Dall’amore per la musica dell’adolescenza che lo porta a lavorare e a dormire in una radio, alla necessità del viaggio on the road anche nelle condizioni più estreme.

E come non parlare, poi, dell’amore della sua vita, quella Giulia che, pur partendo da un retroterra socio-culturale assai distante dal suo, si spoglia delle sue sovrastrutture fino a rivelarsi l’incastro perfetto per l’immaturo Mario? Senza contare, infine, l’improvvisa paternità che costringerà il protagonista a fare finalmente i conti con la sua vera natura e a imporgli un corso accelerato di crescita.

È (anche) un percorso iniziatico, quello del protagonista, che non potrà fare a meno delle cadute che il tragitto porta inevitabilmente con sé: il viaggio in Giappone per mettersi alla prova e osare di più rispetto al comodo posto in banca confezionatogli dal suocero, ne è una esemplificazione. Ma qui, ecco apparire la conturbante e mistica Naoko che sembra uscita pari pari da un libro di Murakami e che probabilmente è decisiva per salvare la vita di Giulia.

Sarà vero che in un’altra vita è stata l’anima gemella di Mario?

Comunque stiano le cose, la vita occorre viverla adesso e subito. E quindi, tra la voglia di dare una sorellina a Leonardo, la ripresa di quel viaggio rimandato alla soglia delle responsabilità e un lavoro che è finalmente confacente alla passione del protagonista, Giulia e Mario sono, ora sì, consapevoli dell’indispensabilità dell’una per l’altro.

E il “non so” di Mario, da autentica indecisione, si trasformerà in un’invincibile arma politica  (basterebbe questo per creare scompensi inimmaginabili alla cosiddetta società capitalistica avanzata).

Un libro giovane e fresco, questo di Licalzi, che incuriosisce e crea complicità tra scrittore e lettore; a tal punto da poterne trarre un film anche meno leggero di quelli che, di solito, vengono ispirati da opere del genere.

"A cantare fu il cane", di Andrea Vitali

Nella via Manzoni di Bellano, un «Al ladro! Al Ladro!» squarcia la quiete della notte.

La presunta derubata sarebbe la signora Emerita Diachini e il ladro, manco a dirlo, quell'impiastro di Serafino Caiazzi.

L'indefessa guardia notturna Romeo Giudici, però, veglia sul sonno degli onesti cittadini: lo scontro (soprattutto fisico) è inevitabile. Ma tant'è, giustizia è fatta...?

Al maresciallo Maccadò la faccenda, comunque la si guardi, non lo persuade: il colpo sarebbe fuori dal profilo criminale del Caiazzi, null'altro che un ladro di polli quando il contadino è assente e il pollo in questione ha acconsentito a farsi rubare.

Poi ci sarebbe la circostanza che l'Emerita, la derubata, è in trepidante attesa di un marito che rinverdisce i fasti del Fascio in terra d'Africa oltrechè essere madre di un figlio, il Vinci, anche lui coinvolto in un certo modo in uno scontro fisico.

Intrecciato a questo furto dai contoni fumosi, ci sarebbe la faccenda del giovane Filippo Buonavigna che avrebbe fatto la fuitina con la conturbante Omosupe del circo Astra: un'escapologa etipope di una bellezza conturbante che nasconde un particolare che costituzionalmente non le dovrebbe appartenere. E, a questo proposito, spetterà all'appuntato Misfatti, che per poco non ci lascia le penne, venirne suo malgrado a conoscenza.

Ritorna, a grande richiesta, il maestro Fiorentino Crispini il quale, com'è suo solito, fa voli pindarici sulle colonne de La Provincia-Il Gagliardetto che rasentano la "diffusione di notizie false e tendeziose" minacciatagli dal maresciallo.

Una menzione d'onore merita la "piccola" Elena Civignola che, sentinella occhiuta dietro alle persiane del civico dirimpetto a quello agli onori della cronaca, darà una mano al Maccadò nel venire a capo di alcune cose della massima importanza.

Tra le maschere fisse del rutilante teatro del Vitali, immancabili sono le figure dell'arguto prevosto inscindibile, quest'ultima, da quella della terragna perpetua e all'altra dell'energica suora dell'ospedale di Bellano.

In questa commedia degli equivoci dove ciò che appare è sempre diverso da quello che in effetti è, campeggia il cane: un bastardino che con il suo abbaiare a chi non conosce e l'indifferenza verso gli habitueès della casa, svelerà l'assenza di ogni furto e, di converso, una tresca amorosa insospettata.

A proposito di svelamento, c'è ancora l'indovinello che il prevosto alla fine della messa grande ha posto ai bambini: "davanti a chi anche il Papa deve togliersi il cappello?". E la banda Maccadò, quattro figli maschi e il quinto (magari femmina?) ancora gelosamente custodito nella pancia di Maristella, lo vogliono fermamente risolvere. Non foss'altro che per accaparrarsi il libro illustrato promesso in premio dal prevosto a chi svelerà l'arcano.

"La dismissione", di Ermanno Rea

Vincenzo Buonocore, entrato nell'Ilva di Bagnoli come semplice operaio, brucia pian piano le tappe, fino a diventare tecnico specializzato alle colate continue.

Adesso, nell'imponente opera di dismissione dello stabilimento napoletano, a lui viene affidato il compito di smontare il suo reparto, ormai venduto ai cinesi.

Buonocore, però, non si limita ad assolvere un compito, nossignore: lui vuole, come già faceva il padre ebanista nel suo lavoro, raggiungere la perfezione. La dismissione dell'Ilva, in altri termini, deve diventare il suo canto del cigno, l'opera d'arte di tutta una vita fatta di impegno, lotte sindacali, conquiste civili e politiche. E ciò proprio nel momento in cui si rende conto di come la dismissione dello stabilimento significhi la mortificazione dell'impeto di riscatto di buona parte del Sud Italia.

L'Ilva, allo stesso modo di un corpaccione che fagocita successi e fallimenti, passa dalla migliore acciaieria d'Europa, al carrozzone in cui sistemare camorristi e nullafacenti, fino a trasformarsi nell'ennesimo costo da tagliare proprio nel momento in cui la politica vi investe fior di quattrini.

Sullo sfondo, l'amicizia di Buonocore con il saggio Chung Fu, le lusinghe e le miserie di una Napoli iridescente, il rapporto del protagonista con Rosaria, sua moglie, improvvisamente incrinato da un'omissione, la fuga vigliacca sotto il portone di Marcella, bellezza effimera che si trova a soccombere assieme allo stabilimento: a volte, il funerale di un membro della comunità, anche esterno ai "lumi d'officina", diventa il de profundis dell'idea stessa di rivalsa di un intero popolo.

Scritto come una sorta di confessione del protagonista, il libro schiude una serie di universi (la fabbrica, la città, le paure, i successi, le sconfitte) tutti indagati con mirabile garbo e dedizione da Ermanno Rea.

"Lo straniero", di Albert Camus

 Meursault è un modesto impiegato che vive ad Algeri. Gli muore la mamma ("Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so") ricoverata in uno ospizio.

A chi gli chiede l'età, Meursault risponde che sua madre avrà avuto "una sessantina d'anni".

Giunto alla casa di riposo in una giornata torrida (il sole a picco avrà tanta parte negli sviluppi della storia), non ritiene importante vedere la mamma prima che la cassa venga sigillata.

Da questo momento in poi, il protagonista della storia inanellerà una serie di passi lungo il cammino dell'indifferenza. Sia ben chiaro, indifferenza per lui perchè per la percezione degli altri, si riveleranno di una pregnanza spropositata.

Si fuma una sigaretta subito dopo la veglia. Per soprammercato, la sera esce con una ragazza e la porta al cinema a vedere addirittura un film comico, con protagonista l'osannato Fernandel.

Maria avrebbe intenzioni serie con lui ("mi ha domandato se l'amavo. Le ho risposto che era una cosa che non significava nulla, ma che mi pareva di no"), ma Meursault le confessa che potrebbe anche sposarla, o magari no: sarebbe stata la stessa cosa.

La sua vita si snoda attorno a un nugolo di personaggi che abitano la sua quotidianità: il signor Salamano e il cane che finiscono con l'assomigliarsi pur nel loro rapporto di dispetti reciproci; l'equivoco Raimondo che ha un conto aperto con il fratello della donna malmenata; il gruppo di arabi tra cui spicca quello che incamererà, come un sacco vuoto, i "quattro colpi secchi che battevo sulla porta della sventura".

I luoghi poi, finiscono con l'assumere più importanza dei fatti così come i silenzi di Meursault maggiore intensità delle accuse del pm e della difesa accorata dell'avvocato.

Anche nell'aula del processo, così come sulla spiaggia del delitto, un caldo ottundente attraversa corpi e invischia pensieri.

Alla lettura della sentenza (la decapitazione in pubblica piazza), il Nostro capisce che nessuna fede potrà estorcergli un pentimento, non foss'altro perchè stridente con il meccanicismo al quale sente di abbandonarsi come il naufrago alla corrente.

In una sola occasione, l'urlo di Meursault che scaccia il prete, sembra far presagire una ribellione. Ma è solo un fastidio sopra le righe, tutto qui.

Il silenzio che incanala meravigliosamente le coincidenze verso un epilogo ferale, ritorna per non abbandonarlo mai più.

Meursault adesso si è liberato perfino della speranza, in un florilegio inarrestabile di continue sottrazioni.

"Napoli nessuna e centomila", a cura di O. Ragone e C. Sannino

E sono ben cinquanta gli scrittori del calibro di Raffaele La Capria, Roberto Saviano, Walter Siti, Maurizio de Giovanni, Nicola La Gioia, Valeria Parrella e tanti altri, che s'interrogano sull'essenza di Napoli e della napoletanità. Tutti con un unico intento: guardare a Partenope senza la lente deformante del luogo comune.

Si parte da Boccaccio e il suo Andreuccio da Perugia che, caracollando tra il quartiere Malpertugio, la Rua Catalana e la ressa del Mercato, "ha conosciuto se stesso e la vita, è diventato uomo ed è tornato a casa sua più accorto e smaliziato". Insomma, si è fatto napoletano.

Viola Ardone, poi, scomoda la maternità per rimarcare come Napoli si modifichi "per accogliere ogni corpo come gli organi interni della madre si spostano e si adattano alla forma del nascituro durante la gestazione".

Sara Bilotti, dal canto suo, favoleggia di "una strana corrente, anch'essa a lungo dimenticata, che era come un fiume di lava sotto l'asfalto" a rappresentare l'energia di tutti coloro che attraversano le strade di Napoli e che qualcuno riesce, quasi per una sorta di predestinazione, ad assorbire meglio di altri.

E come dimenticare la "città bifronte" di Raffaele La Capria "che può essere al contempo disperatissima o felicissima"? Definizione, quest'ultima, che fa il paio con "la città dove un giorno Dio e il diavolo si sono seduti in riva al mare a giocare una partita a scacchi", del cinese Tu Hua.

Non possono mancare i "capitoni sfastiriati" di Antonella Cilento: quelli, cioè, costretti a nuotare, evidentemente stressati, nelle vasche, "uno 'ncuollo a n'ato, fino alla vigilia. Quando i capitoni sono belli e guizzanti, vengono ignorati dagli avventori che li trovano improvvisamente attraenti non appena diventano, per l'appunto, sfastiriati.

Il paragone con il napoletano che si riduce sempre all'ultimo momento negli acquisti (e non solo), è fin troppo chiara.

Una verità tra le tante, forse, è quella della Napoli "città tuareg" di Antonio Pascale: come infatti i tuareg si scoprono il viso quando incontrano gli sconosciuti perchè in quanto sconosciuto tu non puoi capire quello che penso così, di converso, se lo coprono quando si imbattono in persone intime: se sei un amico, infatti, puoi ben interpretare i segni del mio volto, onde per cui è necessario che io lo copra.

C'è infine la santa Patrizia di Antonella Ossorio demoralizzata perchè declassata da San Gennaro ("lui è proprietario di un tesoro da fare invidia alla regina d'Inghilterra, io invece...") e la modernità che a Napoli è già arrivata, "ma con il fegato schiattato e con la febbre alta: e ora è in fase di decomposizione", di Giuseppe Montesano.

In questo libro ci sarebbe tanto altro dell'anima di Napoli ma ci piace chiudere, non ce ne vogliano gli scrittori le cui testimonianze sono state ignorate solo per ragioni di spazio, con Roberto Saviano. Lo scrittore napoletano, dopo essersi chiesto retoricamente come si faccia ad amare una città che ti ha cacciato senza una condanna precisa, ribadisce che "Napoli ti insegna a vivere, alle sue regole, alle sue condizioni e quando te ne separi a te resta una moneta preziosa che però altrove non ha mercato".

"Il meccanico Landru", di Andrea Vitali

Sei forestieri, dall'apetto per nulla rassicurante, scendono alla stazione di Bellano. Ad accoglierli, il capostazione Amedeo Musante che si sente subito rispondere "Siamo i meccanici della SACR". E sì perchè, nella cittadina lacustre del 1930, è giunto il momento di installare i telai elettrici al cotonifico: il progresso impone i suoi rituali, e pazienza se un'ottantina di operai si troveranno dall'oggi al domani disoccupati!

A prevedere l'emorragia di posti di lavoro, è lo stesso direttore del cotonificio, ing. Luigi Galimbelli che, forte delle sue convinzioni (c'è chi ha la tessera e chi ha la testa), si vede ridimensionato nelle ambizioni professionali con la direzione del cotonificio in quel di Bellano anzichè in una fabbrica più prestigiosa.

Frattanto il ballo in onore delle nozze del principe Umberto con Maria Josè, è bello e organizzato. Ci ha pensato, manco a dirlo, il segretario ciitadino del Fascio, Aurelio Pasta, che però, al momento di far rispettare quell'ordine assicurato anche al maresciallo Rodinò, si è "trasferito in Val Passera".

Zuffa e botte da orbi che hanno visto sugli scudi cinque dei sei meccanici perchè il sesto, quel tale Landru protagonista del libro, è astemio e se ne sta in disparte. Almeno fino a quando non arriva il suo momento: e allora via alla conquista dell'ingenua Emilia Personnini, segretaria fino a quel momento integerrima dell'ingegnere, ammaliata dal mito dell'Argentina.

Un tipetto, il bel meccanico, a cui raddrizzare le ossa da parte della squadra fascista (e non solo) senz'ombra di dubbio ma...c'è un "ma" che impone calma e ponderazione: quel diavolo di Landru è un attaccante di razza. E all'orizzonte incombe la partita con la coriacea squadra del Dervio.

Contr'ordine, camerati, allora: il Landru diventa una risorsa da coccolare e da mantenere addirittura a spese del partito fino alla disputa dell'epico scontro calcistico . Poi, però, per un motivo o un altro, il macht storico si rinvia, lasciando tutto il tempo al meccanico di far guai. Eppure l'aveva avvertito al Pasta l'Eumeo Pennati, il numero due nel PNF cittadino destinato a soppiantare il segretario in pectore, che quel Landru prima o poi ti s'incula.

Dal canto suo Don Ascani, il prevosto, deve trovare marito all'indifesa Maddalena mentre il maresciallo Rodinò, con il prezioso aiuto dell'ing. Galimbelli, ha da venire a capo di un losco traffico di buoni pasto degli operai del cotonificio che ruoterà, guarda caso, ancora attorno alla figura del gaucho dal nome strano.

La partita sta per disputarsi e il cerchio si stringe attorno a Landru. Il conto della Personnini, nel miraggio dell'Argentina, si assottiglia sempre più e il Pennati, esponente della stirpe dei "caporali" nella celeberrima distinzione di Totò (uomini o caporali), da fervente fascista negli anni in cui conveniva esserlo, si adegua allo spirito dei tempi frattanto mutati con tanto di fazzoletto rosso stretto al collo, a salutare la lapide in memoria di Giacomo Matteotti.

Perchè a lui, come aveva ribadito al suo ex segretario prima di ciullargli il posto, non lo incula nessuno.

"Riccardino", di Andrea Camilleri (recensione in vigatese)

 Caro Nenè,

lo sapivo che sarebbi finito tutto in un colpo di tiatro. E tu, mastro d’opira fina, non hai fagliato manco stavota.

Sono squasi le cinco del matino. Sona il tilefono. E il tò Montalbano, mezzo ‘ntordonuto dal sonno piombigno, addimanna cu minchia è.

Dall’autro capo del filo, “Riccardino sono” gli arrispunne ‘na voce squillanti e festevoli al contrario della sò. Gli conta che sono tutti ad aspittarlo davanti al bar Aurora e che, a malgrado il cielo tanticchia nuvolo, cchiù tardo sarà una jornata bellissima.

Riccadino non ci ‘nzerta. In primisi pirchì scangia pirsona (non voliva tilifonare al commissario ma a uno dei “tri muschitteri”, i compagnuzzi sò), in secunnisi, pirchì la jornata finisce nivura, in quanto che l’ammazzano cu dù colpi ‘n facci.

Livia, dal canto so, s’è amminchiata cu ‘na vacanza ‘mproponibili ed è un pirsonaggio sempre chiù spaplito.

Catarella s’intorcina ancora chiossà, e le porte che primma sbattevano perché la mano gli sciddricava, ora addiventino bumme a ‘ralogeria.

Fazio, ‘nveci, si catamina quatelosamente per circari di accapire indovi il commissario, stracangiato e con poca gana di travagliare, voli andare a parari.

Mimì Augello, vattelappesca: s’è ammucciato nel virivirì di n’autra trama.

La virità, Nenè, è che Salvuzzo tò si sente assugliato dalle vicchiaglie, e che ‘sta malitta indagine avi qualcosa che non lo pirsuade: il politico in odor di mafia che addiventa sottosegretario alla Giustizia; il pispico Partanna che voli, senza dire né ai né bai, suggerire soluzioni ‘nteressate della facenna (“monaci e parrini, sinticci la missa e stoccaci li rini”); il pm Tommaseo e il signori e guestori a cui faglia evidentementi il coraggio di mettirisi contra il Governo e la Chiesa.

Ma chesta, Nenè caro, è la mezza missa: la vera virità è che tu, Autore dei tanti libbri di Montalbano, si trasuto a gamma tisa in “Riccardino” e hai scassato i cabasisi al poviro Salvuzzo. E sì pirchì Montalbano voli arrivari fino in funno, secutanno ‘na loggica senza compromissi. Tu, ‘nvece, non solo a iddru, ma a taci maci puro al signori e guestori, vuoi suggerire ‘nu finale per nesciri fora dal busillisi dell’ultima indagine. Cu tutto il rispetto, Nenè, stavota hai pisciato fora dall’orinale. La tò creatura, il tò pirsonaggio, non voli calarisi le mutanne e lasciari che tutto vada a scatafascio: lui, Salvo tò, è omo di parola e non po’ tirarsi narrè, macari davanti ai sottosecretari, parrini e piscopi, masannò che fiura ci fa con il Lettore?

La rottura Autore-Personaggio è ‘nsanabili. Mejo è che tu, Nenè, te ne acchiani indove il genio tò è nisciuto fora e che il Montalbano de noautri (pirchì, lo sai Nenè, ogni pirsonaggio del libbro si catamina sulle gamme del Lettore) venga ammucciato, petra priziosa, nel cori di chi l’ajo amato.

Caro Nenè, c’ajo miso parecchie mesate prima d’accatarimmi il tò ultimo libbro. E mo, assittato macari io supra a un terrazzo indovi de la pilaja non si vede manco l’ummira, cu ‘na sicaretta astutata (chiedo pirdonanza, Nenè, ma nunn’aio mai saputo fumari) e cu allato il tilefono de la bonarma, guardo ‘na stiddra e aspetto.

Il tilefono finalmenti sona.

Mi libbiro, allora, dalle filinie del sonno ‘mpiccicate nel ciriveddro, e con l’occhi ancora a pampineddra: «Cu è? Io» arrisponno chiangenno como a ‘nagniddruzzo «Montalbano, sugnu!»