mercoledì 23 ottobre 2024

"Il contesto", di Leonardo Sciascia

In un Paese dalla connotazione indefinita, ma che ben potrebbe essere l'Italia, si susseguono una serie di omicidi illustri, tutti riguardanti giudici.

Le indagini vengono affidate all'ispettore Rogas, "il più acuto investigatore di cui disponesse la Polizia, secondo i giornali; il più fortunato, a giudizio dei colleghi".

Rogas, il "quasi letterato" incline alla speculazione filosofica, valido conoscitore della psiche umana che gli consente, tra l'altro, di averne "uno (di ristoranti, ndr) per ogni giorno della settimana, sette dunque che lo consideravano buon cliente ma non affidato e stabilizzato al punto di poterlo trattar male", mette insieme i vari tasselli dell'indagine.

L'ispettore infatti, mano a mano che le toghe cadono, si fa sempre più persuaso che l'omicida si annidi tra le pieghe di qualche errore giudiziario che inevitabilmente, prima o poi, viene a contaminare l'operato dei giudici.

E la ricerca dà ben presto i suoi frutti: un farmacista, tal Cres, accusato dalla moglie di tentato avvelenamento sventato, all'ultimo secondo, dalla provvidenziale ingordigia del gatto domestico.

Dopo la condanna a cinque anni, l'accusatrice scompare nel nulla. E quando Rogas otterrà il mandato per perquisire la casa del farmacista nel frattempo anche lui datosi alla macchia, non troverà nessuna foto che possa cristallizzare un brandello di biografia.

Sta di fatto che non appena l'ispettore scopre una valida pista da seguire, gli viene affiancato un collega della sezione politica che si orienta decisamente, con il placet delle istituzioni, verso uno dei tanti "gruppuscoli" sovversivi infestanti la città. La loro firma starà dietro il rosario di morti eccellenti.

Rogas però ha un'altra spiegazione e si orienta verso altri colpevoli (diretti e indiretti): racconta a Cusan, amico e scrittore impegnato, lo scenario fosco, incrostrato da collusioni a tutti i livelli, che si sta profilando all'orizzonte. L'unica è parlarne con Amar, il capo del partito rivoluzionario, che almeno ha il crisma della persona onesta.

Quando però il vice di Amar che nel frattempo gli è subentrato, incontra Cusan per sentire cosa si è detto con Rogas e soprattutto per raccontargli la sua, di versione dei fatti, allo scrittore non resta che farsi convincere e abbracciare una verità (di comodo) tanto più appagante quanto più stridente con le risultanze in suo possesso.

"La ragion di Stato, signor Cusan: c'è ancora come ai tempi di Richelieu". 

10 e non più di 10 #12

Per vigliaccheria, certo.

Per immaturità, anche.

Ma pure...

per evitare di ripetere fino alla nausea quello che non si vuol sentire o capire;

perchè restare un secondo in più è mancanza di rispetto verso sè stessi;

perchè attardarsi sarebbe una punizione troppo severa per chi ci è di fronte.

La fuga: ombra nella gola riarsa della calura.

"La danza del gabbiano", di Andrea Camilleri

Di primo mattino, sulla pilaja, un gabbiano mette in scena una danza stramma. E subito dopo, firriando su se stesso, muore.

Saranno le vicchiaglie che lo rendono più sensibile, ma Montalbano è insieme scantato e meravigliato da questo spettacolo.

Nei tempi morti, continua ad attaccare turilla con la so zita, con la quale le incomprensioni hanno raggiunto il punto di non ritorno.

Ma c'è una novità: Fazio non s'arricampa al commissariato doppo 'na spedizioni in solitaria ai magazzini del porto. Gli sarà venuto il firticchio di mettersi in proprio? Sta di fatto che di lui non si hanno più tracce da alcuni giorni.

Montalbano, col cuore stritto nel più nivuro dei presentimenti, trova cadaveri catafottuti in sbalanchi che parono or ora assumere le sembianze del suo uomo più fidato.

Fortuna vuole che Fazio l'arritrovano in una galleria dismessa, firuto e 'ntordonuto a tal punto che spara addirittura alla machina dei so colleghi.

Quando la memoria dell'agente ha smesso di fagliare, Salvo viene a sapere che Fazio si sarebbe dovuto incontrare con un so' amico che s'è rifatto vivo (Manzella) dopo molto tempo in grado, a quanto pare, di rivelargli scenari tinti assà.

Dell'amico, però, nemmeno l'ummira. In compenso ci sono pischerecci che tardano a scarricare ai magazzini generali e cannocchiali puntati sul porto che vedono troppo. Senza contare il tentativo da parte di qualche fituso, non riuscito per piccca e nenti, di togliersi dai cabasisi una volta e per sempre proprio il nostro commissario. E per farlo, il mafioso di turno non esita a tirare dentro le filame del complotto pure una povera picciotta, Angela.

Alla fine della storia, dopo un sopralluogo nella casa della mattanza, Montalbano ricostruisce il (macabro) circo equestre che ha visto vittima proprio Manzella: il povirazzo, sodomizzato e torturato peggio che l'inquisizione, ha firriato torno torno alla seggia, firuto, sbeffeggiato e dissanguato. Priciso 'ntifico al gabbiano della pilaja.

Non resta che il saltafosso: Montalbano sa che per fottere la famiglia Sinagra occorre lavorare di fino. E che l'unico modo per portare dalla sua parte la donna del mafioso è prospettarle l'idea dell'esistenza di un'altra "fimmina" che proprio fimmina, almeno per ciò che attiene alle vrigogne, non è.

Assittato supra alla verandina, in compagnia di tanticchia di malinconia per il tempo malitto delle sdillusioni (" 'na botta alla vucca dello stomaco"), il commisario Salvo Montalbano cerca di acconsolarsi con "un piatto, enormi, di caponatina".

10 e non più di 10 #11

Sono ridotto a un piede risparmiato dalla bomba.

Tutto ciò che sta sopra il calcagno è deflagrato.

Durante le guerre non manca mai la goliardia irriverente: qualcuno ha avvolto il mio piede in un simulacro di scarpa.

Da questo momento, ho iniziato a vagare tra le macerie.

La suola mi isola dal sangue, dalla bestialità, dalle rovine concimate dal pianto dei bambini.

Senza scarpa, ero comunque contaminato dal massacro.

Ora, tra quel che è rimasto di me e la melma di ossa e fuoco appena sotto, foraggio uno sdegnato senso di estraneità.

"E tu splendi", di Giuseppe Catozzella

Pietro ha quasi dodici anni e vive alla periferia di Milano.

Agli inizi di giugno il papà lo mette, assieme alla sorella Nina, su un pullman diretto alla stazione di Matera. Per poi arrivare ad Arigliana, cinquanta case di pietra e duecento abitanti, che è il paese originario dei genitori dei ragazzi, dove li aspettanno Nononno, Nononna e una pletora di personaggi singolari.

Prima della partenza Pietro, come sempre fa nei momenti importanti, stringe il frammento di foto racchiuso in un sacchettino di stoffa che si porta al collo: la foto è quella della mamma Rosi, che è andata ad abitare in un posto bellissimo in cui prima o poi dovrà raggiungerla.

Ad Arigliana, frattanto, poco è cambiato: tutto continua a girare attorno ai traffici di zi' Rocco, l'unico possidente dopo l'avvelenamento delle campagne di anni addietro che Nononno attribuisce proprio a zi'Rocco.

A seguito di questo evento, tutte le terre dal lato opposto del torrente Olmo, si sono rinsecchite. E tra queste, quelle sterminate della masseria Lucania di Nononno. Ora, una nuova masseria, per una sorte di sfregio anche questa chiamata Lucania, fa affari d'oro, ed è quella che si trova dall'altro lato del torrente Olmo, appartenente a zi' Rocco.

Frattanto Pietro, dopo una puntatina in una vecchia torre abbandonata, scopre la presenza di alcune persone che si riveleranno straniere. Tra questi, spicca la personalità di Josh, ragazzino coetaneo di Pietro, che ben presto si rivela di un'intelligenza e di un coraggio davvero notevoli.

In tutto questo, Arigliana è in fermento. La popolazione si scaglia contro gli stranieri, massimamente quando zi' Rocco, facendo leva sulla manodopera offertagli quasi gratuitamente da queste persone (devono pur poter ripagare l'ospitalità in qualche modo), ne approfitta per diminuire ancora di più la paga ai braccianti della sua terra. Eppure, quando tutto sembra precipitare, sarà dapprima Josh con il salvataggio di un bambino finito nelle grinfie della Menzasignor (il fantasma di un brandello di donna che furoreggia per il palazzo avito) e, di poi, soprattutto gli stranieri più grandi con la dritta giusta a Nononno (mettere tutte le terre assieme e dare vita a una nuova masseria, la masseria Rosi) a incarnare la speranza del riscatto.

Ad Arigliana finalmente la rassegnazione sembra magicamente confinata in un passato lontano. Ma il monito che campeggia nella camera dei nonni di Pietro (Cristo non è mai arrivato qui, nè vi è arrivato il tempo, nè la speranza, nè la ragione, nè la storia) dovrebbe insegnare qualcosa: a Ferragosto (un altro ferragosto!), mentre tutto il paese è irrorato dalle luminarie, le terre della Masseria Rosi cominciano a bruciare. Il fuoco non si ferma più. Fagocita tutto, anche l'ultima occasione di un futuro diverso.

La colpa viene addossata al capro espiatorio perfetto per queste occasioni: gli stranieri. Vengono arrestati con l'accusa di aver dato fuoco alle terre della masseria.

Pietro, Nina, Josh, Refè vogliono vederci chiaro. La notte di ferragosto hanno visto qualcuno scendere da una macchina nera e attardarsi nelle campagne. Hanno trovato taniche di benzina sparse in ogni dove. E si sarebbe ancora nel campo del sospetto, se non fosse per il piccolo Josh che, incurante della maledizione del palazzo della Menzasignor, viola il simulacro delle paure dei ragazzini, e scopre la verità: di nuovo zi' Rocco al centro delle malefatte, come tanti anni addietro, con la complicità di un insospettabile.

Chi l'ha detto che si diventa grandi gradualmente? L'infanzia di Pietro finisce adesso, nella presa d'atto che nessuno vuole e può fare giustizia.

Dopo la morte di zi' Salvatore che non ce l'ha fatta a rivedere i suoi nipoti americani, la partenza di Josh verso un futuro più giusto, la condanna irredimibile alle fatiche della terra di Refe', Pietro ritrova finalmente il moncherino di foto mancante.

La frase che adesso si completa, quella scritta anni addietro dalla grafia della mamma morta (ora Pietro lo sa che mamma Rosi non tornerà più, e lo può accettare) è: "Ti insegneranno a non splendere. E tu splendi, invece".

10 e non più di 10 #10

I vigilantes si precipitano al locale.

Io, come sempre, li raggiungo con una lentezza snervante.

Loro invischiati in mappe e alerts del cellulare, io sorretto dalla mia memoria che tutto ingloba.

Un attentato.

Luce staccata. Schermatura del segnale.

Porto in salvo vite in pericolo.

Sono stato allevato a memorizzare dati: ore e ore a osservare immagini, lettere, cifre.

Da scolpire nella corteccia cerebrale. A cui ricorrere quando ogni altro ausilio viene meno.

"I delitti della luce", di Giorgio Leoni

Nella Firenze del 1300 che si prepara al Giubileo e che è in pieno fermento edilizio, il priore Dante Alighieri è testimone di un evento eccezionale: una grossa nave, la cui polena raffigura il Giano bifronte, si è arenata nelle paludi dell'Arno. A bordo, vegliato da un equipaggio di uomini morti per avvelenamento e in evidente stato di decomposizione, uno stranissimo ed evocativo macchinario.

A poche ore di distanza, in una torre della città, viene rinvenuto il corpo senza vita dell'architetto di Federico II.

C'è qualche collegamento tra la scoperta della nave e la morte del prezioso collaboratore dell'imperatore?

Una cosa è certa. Quanto accaduto fino ad adesso, e quello che ancora dovrà succedere (una comitiva male assortita che fa tappa alla locanda dell'Angelo, altri omicidi illustri, un carico di specchi di purezza e di dimensioni inimmaginabili per la tecnica del tempo, un miracolo raffinatissimo che invoglia ad arruolarsi per l'ennesima crociata, una "vergine" ermafrodita, le forme perfette di Castel del Monte evocate dal Battisero) ruota intorno allo Stupor mundi; a quel Federico II cioè che, perennemente assetato di ogni forma di conoscenza, è morto (ucciso da chi?) alle soglie di una mirabile scoperta.

Il sommo poeta, con quella severità e intransigenza che ben conosciamo, dovrà mettere assieme i diversi e inestricabili tasselli per dare un senso a quello che si sta dipanando sotto ai suoi occhi. E tra contaminazioni filosofico-matematiche con il mondo infedele e gli scenari "demoniaci" che lo vedono spettatore interessato, impila elementi utilissimi per la Commedia che renderà immortale il suo ingegno.

Dovra vedersela con chi, in attesa della purificazione elargita a larghe mani da Bonifacio VIII, si professa strenuo sostenitore della luce "immota". D'altronde, se la luce "avesse un suo moto", esso proseguirebbe "in una corsa verso un vuoto orrendo e infinito", con la coseguenza che ogni certezza divina, compresa la Creazione, si sfalderebbe miseramente. E per evitare ciò, si è pronti a dare e, se del caso, a ricevere la morte.

Il multiforme ignegno di Federico, però, è lì a reclamare e a imporre il primato della conoscenza sopra ogni dogma: la luce, anche quella fraintesa in nome della quale si è levata la mano del fratello contro l'altro fratello, deve necessariamente muoversi, come è pronto a testimoniare quell'inspiegabile macchinario scoperto a bordo della nave arenatasi nell'Arno.

Mezzo secolo prima di questi accadimenti, alla domanda del grande imperatore su cosa ci fosse oltre la luce, la risposta è stata: solo la tenebra, "come narra la Scrittura".

Non è difficile, a questo punto, immaginare il sorriso sornione di Federico II.

Cinquant'anni dopo, a pochi giorni dalla scadenza della sua carica di priore, Dante Alighieri è chiamato a interpretarlo davvero, quel sorriso regale, sulla scia dell'inconsistenza della luce (ancora lei!) di cui sono fatti i sogni.