Il camminare presuppone che a ogni passo il mondo cambi in qualche suo aspetto e pure che qualcosa cambi in noi. (Italo Calvino)
mercoledì 7 dicembre 2022
Bellano a due passi da Vigata
Il librivendolo pazzo di Polla
Ci sono
diversi modi per incoraggiare la lettura, specie nei bambini. Lo si può fare
scrivendo storie con accuratezza e onestà intellettuale; ma anche pubblicando
libri ben scritti a prescindere dalla fama dello scrittore di turno, troppo
spesso acquisita per altri meriti. Ci sarebbero poi le politiche messe in campo
dai diversi livelli istituzionali (?), così come il ruolo imprenscindibile dei
maestri e degli insegnanti. Poi ci sono i librai che, indipendenti o
“griffati”, non si limitano a impilare libri nelle scansie, ma li cullano
gelosamente in attesa del giusto destinatario.
Alla fine
della catena o all’inzio, fate un po’ come vi pare, c’è…un pazzo. Sì, proprio
così, un mentecatto che, inchiavardato nella sua “Ex libris cafè” di Polla, a
distanza quindi siderale dagli snodi letterari che contano, non perde giorno
che non se ne inventi una per raggiungere lo scopo: portare libri in ogni casa,
alleggerire gli occhi (soprattutto dei bambini) dallo sproposito del display
per affidarli agli svolazzi della carta stampata.
Pazzo sì,
dieci, cento, mille volte pazzo, senz’ombra di dubbio.
Come
altrimenti definire un librivendolo che, tra l’altro, ha ideato “Il libro
sospeso” (2002) di Polla, Caggiano e Pertosa, il “Salva alberi” (2004), i
“Viaggi con l’autore” (dal 2015 al 2017) sulle autolinee Curcio (più di trenta
scrittori hanno presentato la loro opera on the road e sono stati ben 1760 i
volumi donati ai passeggeri)?
Ancora
qualche dubbio sulla follia che irradia dalle sinapsi del tizio in questione? E
se vi dicessi che è stato l’inventore e il promotore della campagna “Non rifiutiamoci”?
Di che si tratta? Semplice: per ogni bottiglia consegnata presso la sua
libreria, in cambio un libro. A fronte di 8 quintali di alluminio e 8 di
plastica, così, sono stati consegnati ben 5000 libri sospesi.
Nel 2019
l’iniziativa “Non Rifiutiamoci” è stata sostenuta da Enel Green Power e, quest’anno, da Flavio Insinna
con il suo libro “Il gatto del papa”, Rai Libri.
Ora, come
ogni folle che si rispetti, da Astolfo che va sulla Luna a ricercare il Senno
perduto all’hidalgo Don Chisciotte della Mancia che parte lancia in resta
contro i mulini a vento, anche il Nostro non conosce limiti: la promozione
della lettura senza se e senza ma sì, ma anche la tutela dell’ambiente.
Ah, per
perorare oltremodo la tesi incontrovertibile della sua demenza irrecuperabile,
ci sarebbero pure il “Miscellanea Mundi”, gioco letterario scritto dai bambini
per i bambini, e il “Diario Non Rifiutiamoci” dove s’unisce l’utilità di
un’agenda all’attenzione verso i pensieri dei bambini, puntualmente riportati
in calce alle sue pagine.
Adesso che
vi ho convinto circa lo squilibrio mentale del soggetto in epigrafe, posso
rivelarvi anche il nome: signori e signore, ecco a voi Michele Gentile da Polla.
E poiché la
pazzia è un affare contagioso specie per menti deboli, eccomi bello e
infettato. Pur consapevole di non poter mai ammantarmi dello stigma esteriore
della eccentricità di Michele (cascata ribelle di capelli ricci), mi propongo
di aiutarlo a realizzare il suo ultimo deragliamento: la presentazione del
“Diario Non Rifiutiamoci” – Rupe mutevole edizioni, anche nella città
capoluogo.
Seduti a
sorseggiare un caffè nell a sua “Ex Libris Cafè”, non perdiamo tempo: lui
impugna il piffero “fabuloso” e io scimmiotto alla meno peggio la danza-richiamo:
Amanti della
lettura di Salerno, e solo per questo incontrovertibilmente fuori di melone,
unitevi a noi nella prossima, imminente presentazione del “Diario Non
Rifiutiamoci” perché…"Insieme abbiamo attraversato la paura
dell'impossibile, con una bottiglia, una lattina e un libro, e il mondo ci ha
applauditi, elogiati, celebrati e premiati. Questo diario, con le voci di chi
ha voluto condividerne il sogno, è la promessa di continuare a starvi vicino, a
lottare insieme per un futuro migliore, c'è ancora tanto cammino da fare e
tanti bambini da abbracciare... e regalargli un libro!" (Michele Gentile).
“Il pazzo è
un sognatore sveglio”, Immanuel Kant.
giovedì 4 marzo 2021
L'ingegnera che sapeva scrivere
«No, Vince’, non è proprio possibile. Io domattina, la prima cosa che faccio, è chiederglielo.»
Il “domattina” per telefono è diventato l’“oggi” dell’udienza.
Provo a dissuaderlo per l’ultima volta, ripetendogli come non ci sia scritto da nessuna parte che un ingegnere non possa saper scrivere bene in italiano.
«Ancora, Vince’? Da che mondo è mondo,» - precisa uno stizzito Gaetano - «gli ingegneri, i chimici…sì, insomma, tutti i tecnici, fanno a cazzotti con la grammatica e la sintassi un giorno sì e l’altro e l’altro pure; a meno che…Ingegnere, mi scusi» - il tecnico in questione, nonostante la mascherina che le lascia una fisiologica zona d’ombra sul volto, si rivela di una conturbante avvenenza.
«…» - deglutisce Gaetano, provando ad approntare una qualche difesa a quella che mi appare fin da subito come “un cavallo, un gatto, un'ondata di mare nordico al sole”.
«Ingegnera, prego. Mi dica, avvocato.»
La baldanza di un minuto prima del mio amico-collega si aggroviglia, smarrendosi, nei riccioli neri dell’ingenera.
«No, mi chiedevo…e anche l’avvocato, qui…» - pavido, m’affretto a far oscillare il capo a destra e a sinistra come il miglior pendolo svizzero - «se lei non avesse frequentato il liceo classico prima della laurea in ingegneria. Sa, scrive davvero bene, e quindi…»
L’ingegnera ci guarda entrambi, e il suo sguardo è un sudario che depone sul nostro viso il calco della più becera banalità.
«No, non solo non ho frequentato il classico ma, e qui prevengo la vostra» - provo a dissociarmi dal mio amico, ma ormai non c’è più verso di farlo - «seconda domanda, nemmeno il liceo scientifico. Mi sono diplomata in un umile istituto tecnico per geometri.»
Gaetano la guarda sorpreso, ancora pensando di averle chiesto qualcosa che avrebbe dovuto lusingarla.
L’ingegnera, dal canto suo, guarda l’orologio. Capisce che ha una decina di minuti a disposizione prima che il giudice chiami la nostra causa. Li reputa sufficienti: «Dovete sapere» - ci spiega sorridendo - «che la separazione tra la cultura tecnico-scientifica e quella umanistica viene fatta risalire alla fine degli anni ’50 ad opera dello scrittore inglese Snow. Da quel momento in poi, in molti, in troppi di noi, si radica la convinzione… per farla breve,» - e qui ci guarda sinceramente persuasa dalla necessità di semplificare il discorso acciocché anche noi possiamo capire - «che i tecnici non sappiano scrivere e che gli “umanisti”, di converso, siano inabili al calcolo, alle misurazioni, etc. Eppure Primo Levi, che pur essendo un chimico, è stato definito unanimemente come il miglior scrittore di scienza di ogni tempo, ha parlato di un “crepaccio assurdo” con riferimento alla separazione tra la cultura scientifica e quella letteraria. Anzi, lo stesso Levi scrive che “l’arte di separare, pesare e distinguere” è essenziale per l’esercizio della scrittura. D’altronde, ancora Lui, e qui cito a memoria…» - temo, dall’ostilità con cui mi guarda Gaetano mentre l’ingegnera parla in maniera sempre più appassionata, che sospetti una mia “intelligenza col nemico” (l’avrei preavvertita circa la sua domanda sul classico?) - «“non la conoscevano (la distinzione tra cultura scientifica e quella tecnica) Empedocle, Dante, Leonardo, Galileo, Cartesio, Goethe, Einstein, né gli anonimi costruttori delle cattedrali gotiche, né Michelangelo; né la conoscono i buoni artigiani, né i fisici esitanti sull’orlo dell’inconoscibile.”»
È il nostro turno. Gaetano, parte convenuta, davanti al giudice s’impappina su una cifra figlia di una divisione per nulla difficile.
«Avvocato,» - lo richiama il giudice, dopo essersi fatto un rapido calcolo mentale - «12500, vorrà dire.»
E prima che Gaetano possa accorgersi dell’errore e rettificare: «Signor Giudice,» - s’intromette l’ingegnera provocatoriamente comprensiva - «li scusi: purtroppo, entrambi hanno frequentato il classico.»
venerdì 25 settembre 2020
Tra precauzioni e rischio zero
Diciamocela tutta, il Covid 19 continua a gettarci in uno stato di prostrazione profonda perché ha minato le nostre sicurezze. I progressi della ricerca, il benessere sociale, infatti, ci avevano persuasi che l’unico pericolo per la sopravvivenza dell’uomo potesse venire da un attacco esterno (guerre, terremoti, terrorismo). Questo non significa, beninteso, che ognuno di noi, almeno una volta nella vita, non abbia dovuto fare i conti con qualche virus. Ricordo ancora con terrore, ad esempio, le lacrime di Pinuccio alla guida del Sì Piaggio trasportate dal vento nelle mie pupille che gli guardavano la schiena (“Sono perduto, mi ha mischiato sicuramente l’Aids!”). Eppure, dopo una prima fase irrazionale che materializzava untori a ogni angolo di strada, subentrava la consapevolezza che, evitando certi comportamenti a rischio, si era pressoché sicuri di scamparla: “Non mi drogo, non vado con gli omosessuali…a parte Giuseppina in odor di santità, non conosco altra donna, evito aghi e trasfusioni…”
Il Covid 19, invece, ci ha sorpresi nudi di fronte all’imponderabile. L’uomo occidentale, ormai relegata l’infezione pandemica a un contesto terzomondista, aveva ripreso a considerarsi arbitro unico e indiscusso della propria esistenza. Fino, appunto, alla nuova pandemia di cui, se solo avessimo avuto più memoria e maggiore senso pratico, avremmo dovuto prevederne l’arrivo e la possibilità che, una buona volta, sarebbe stata orfana del salvifico “rischio zero”. E già, perché è proprio questo il punto: al cospetto del Covid 19, non c’è sicurezza che tenga. Ognuno, per suo conto, può adottare tutte le precauzioni possibili come indossare la mascherina, limitare le uscite a quelle indispensabili, detergersi continuamente le mani, etc. Eppure, tutti questi comportamenti virtuosi, nessuno escluso, non ci garantiscono l’immunità. Basta, per capirci, soffermarci sulle mascherine. Moltissimi di noi la utilizzano male. Praticamente tutti, poi, indossano la stessa mascherina più tempo di quanto dovrebbero (4-6 ore). Quindi è sufficiente che qualcuno della nostra cerchia di contatti indispensabili la usi in maniera non ortodossa, per far andare a farsi friggere il fantomatico “rischio zero”. Se poi si passa alla detersione delle mani subito dopo aver toccato cose o superfici, la concreta impossibilità di farlo sempre, rende ancora più evidente quanto appena affermato.
All’università, il “principio di affidamento” mi aprì un mondo. Mi fece capire che malgrado tutte le cautele apprestate, ad esempio alla guida di un’automobile, per avere la “certezza” di evitare incidenti, bisogna giocoforza fare affidamento sulla uguale prudenza e rispetto del codice della strada da parte degli altri automobilisti. In altri termini, quindi, nemmeno nella vita di ogni giorno possiamo dipendere solo ed esclusivamente da noi stessi. Il che, a ben pensarci, è troppo spesso un bene.
Tornando alla nostra pandemia, dobbiamo adottare sicuramente le precauzioni prescritteci, e farlo in maniera corretta sia pure senza isterismi, ma dobbiamo anche liberarci dal cipiglio di “dalli all’untore” quando c’imbattiamo in un contagiato. A maggior ragione allorché la persona infetta sia stata, suo malgrado, solerte nel cercare di evitare ogni occasione di esposizione al virus.
Buona fortuna a tutti noi.
giovedì 27 agosto 2020
Talento sprecato
Dall’inizio dei tempi, si favoleggia di talenti distribuiti agli uomini. Ogni essere umano, anche il meno dotato, si è visto assegnare la sua bella dote di capacità; e ciò fino a quando non c’è stata la necessità, per mettere a frutto il talento avuto in sorte, di avere strumenti, e quindi soldi per concretizzarlo.
La settimana scorsa mi è capitato di assistere a un concerto di pianoforte in piazza. Caso ha voluto che al margine destro dello slargo, ci fosse un teatrino, di quelli itineranti per le marionette.
Mi sono seduto in una posizione strategica, pronto a godermi al meglio le dita funamboliche del pianista. Prima del concerto però, il mio sguardo viene irretito da un ragazzetto. Avrà avuto una decina di anni. Se ne sta appoggiato con la schiena vicino all’impalcatura del teatrino.
Decido che è venuto il momento di dimenticarmi di lui. Cerco di trovare la posizione meno scomoda possibile per consegnarmi alla musica. Chiudo gli occhi. Ogni tanto disarticolo le dita, evitando le occhiatacce dell’accademico sdegnato dal mio dilettantismo ostinato.
Per caso, lo sguardo si sofferma sul ragazzo di poco fa. Ritorno sul pianoforte. Mi attardo ostinatamente sul nero ammaliatore dello Steinway&Sons. Eppure ho bisogno di guardarlo ancora una volta. Non riesco a liberarmi dall’avidità dei suoi occhi.
Il pubblico è rappresentato da una cinquantina di persone. Dalla mia postazione, vedo parecchi spettatori. Nessuno ha nello sguardo la fame di musica di quel ragazzetto. Le sue pupille disegnano pentagrammi e si estenuano negli arpeggi arditi del pianista. Ora non ho occhi che per lui e per la sua bramosia musicale.
Eccolo, il suo talento. Il Demiurgo l’ha intinto in una polla cristallina di musica. Ogni nervatura del ragazzo freme al singolo diesis frenato dal bemolle delle resipiscenza. Eppure quel talento sconfinato rimarrà inespresso. L’età è già relativamente tarda, le lezioni di piano richiedono dei soldi che saranno sempre indispensabili per altri scopi. Il pianoforte, da proiezione verso l’infinito è già, una volta negato, rimpianto che monta nello stomaco. E fa male.
Mi impongo di non guardarlo più. La sofferenza per il suo talento sprecato è troppa. Decido di puntellare lo sguardo su un pari età che sbuffa continuamente mentre la mamma quasi lo costringe a concentrarsi sul musicista.
Eccolo, il pianista del futuro, con un simil talento nutrito dalla rinuncia del talento vero; quello, manco a dirlo, appoggiato allo stipite del teatrino delle marionette.