Nell'antica Roma, la vita media era appena di 18 anni; nella Francia del '700, di soli 30.
Oggidì, grazie all'enorme sviluppo della medicina, della scienza, della tecnica, e di una serie molto corposa dei saperi più disparati, siamo arrivati ad un'aspettativa di vita di circa 80 anni.
Sicuramente un bel traguardo, non c'è che dire; eppure, a ben vedere, non sufficientemente "alto" per giustificare la perniciosa abitudine che ha ormai minato dalle fondamenta il funzionamento del nostro orologio biologico (la bussola va impazzita all'avventura): estendere, allargare fino all'inverosimile che non può, per ciò stesso, non sconfinare nel ridicolo, la fascia dell'età "giovane".
Non molto tempo fa, le "ere anagrafiche" erano all'incirca le seguenti: fino a 10 anni, la fanciullezza; da 10 a 16 anni, si parlava di "ragazzi"; dai 16 e fino, al massimo, ai 20 anni, di adolescenza. Dopodiché, c'era poco da fare: si entrava a pieno titolo nel mondo degli adulti.
Seguendo questo canovaccio, a 30 anni si sarebbero dovuti avere un lavoro, una moglie e dei figli.
Ed infatti, la stragrande maggioranza delle persone di quell'età, possedevano proprio tutto ciò. Anche per questo, probabilmente, a nessuno, se non per celia, sarebbe venuto mai in mente di considerare "ragazzo" un trentenne.
Oggi, invece, c'è stata la rivoluzione copernicana che ha piazzato, al centro della nostra vita, il sole dell'eterna gioventù.
Certo, la precarietà, il tempo sempre maggiore trascorso sui libri, e una serie di altri cento motivi potrebbero spiegare il fenomeno. Non del tutto, però.
Per capire appieno questa deleteria tendenza, difatti, bisogna guardare tra le pieghe della nostra società
E' qui, infatti, che si annida l'inganno, la grande operazione mistificatrice del nostro tempo.
Da piccolo ricordo che la maestra, sul pullman della gita scolastica, mi si fece vicino e m'implorò, a me che ero il più "saggio" di tutti, di contribuire a tenere buoni i miei compagni.
Quando mi sentii definire saggio, quasi mi venne da piangere.
E certo, perché per la mia mente di allora, il saggio era per forza di cose un vegliardo con la barba lunga e i denti gialli che si metteva in riva al fiume a pensare alla morte, armato dell'immancabile bastone nodoso.
Ecco, la cosa che più mi rendeva ripugnante quell'accostamento, era proprio la vecchiaia. Lo stato, cioè, che più rifugge l'uomo di ogni tempo. E del tempo attuale, più che mai.
Ma perché ho parlato d'inganno e di operazione di mistificazione? E' presto detto.
Il deus ex machina della nostra società è il mercato.
Per potersi alimentare, questo Minotauro mefistofelico, ha bisogno di convincerci della nostra giovinezza, anche a dispetto degli anni che nel frattempo esigerebbero una qualifica diversa. Ed ecco che necessariamente giovane diventa bello, produttivo, funzionale. Già, proprio funzionale è l'aggettivo giusto.
Un tempo si produceva un frigorifero senza pensare alla morte industriale dello stesso, anzi, lo si fabbricava proprio perché lo si voleva pressoché eterno.
Comprate adesso un qualsiasi elettrodomestico, e vedete un po' quanto vi dura. Nella migliore delle ipotesi, una decina d'anni.
Ma vi è di più. La gioventù sbandierata ai quattro venti anche a sprezzo del ridicolo, ha un'altra funzione di primaria importanza: quella di farci sentire continuamente disponibili.
Il giovane, difatti, può aspettare, può pretendere di meno, può accettare compromessi. In una parola, il giovane può e si deve accontentare di ciò che passa il (misero) convento. In altri termini, del transeunte.
E noi? Beh, noi che siamo felicissimi del fatto che ci hanno portato alla fonte dell'eterna giovinezza, beviamo estasiati, in attesa di diventare pretenziosi e di reclamare diritti quando raggiungeremo la maturità. E, infatti, che fretta c'è? Abbiamo appena cinquant'anni!
Per questo, armato dello specchio della mia vera età finalmente liberato dalle paturnie mistificatrici dell'ormai fu (mio) Dorian Gray, ti avverto, amico caro: "Chiamami ancora giovane, e io metto mano alla pistola. Senza pietà alcuna. Lo giuro"
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