mercoledì 6 aprile 2016

"L'anno della morte di Ricardo Reis", Josè Saramago

 

 

Josè Saramago si avvicina, come racconta egli stesso, alla figura di Fernando Pessoa proprio attraverso l'eteronimo del poeta portoghese, Ricardo Reis.

E infatti, all’età di circa 17 anni, “ignorante com’ero” (è Saramago che parla, ndr), in una delle sue frequenti e fruttuose incursioni nella biblioteca della scuola, “credetti che in Portogallo esistesse o fosse esistito veramente un poeta che si chiamava Ricardo Reis, autore di quelle poesie che mi affascinavano e mi intimorivano”. Invece il Ricardo Reis di Saramago adolescente altri non era che Fernando Pessoa: il grande poeta che, in ossequio al suo convincimento (“il poeta è un fingitore”), scomponeva la sua personalità in uno degli almeno tre “altri da sé”(“eteronimi”, per l’appunto).
"L'origine dei miei eteronimi è il tratto profondo di isteria che esiste in me. [...] L'origine mentale dei miei eteronimi sta nella mia tendenza organica e costante alla spersonalizzazione e alla simulazione. Questi fenomeni (…) non si manifestano nella mia vita pratica, esteriore e di contatto con gli altri; esplodono verso l'interno e io li vivo da solo con me stesso."
Dal momento di quella scoperta, e forse anche per una sorta di risarcimento postumo alla grandezza del poeta portoghese, Josè Saramago avvertì come “un punto d’onore” la necessità di occuparsi del Ricardo Reis di Pessoa; cosa, quest’ultima, resa possibile anche dalla circostanza che proprio Ricardo Reis è l’unico eteronimo di Pessoa che ha solo la data di nascita e non quella di morte. Quale pretesto migliore, quindi, per “ricreare” un Ricardo Reis di un anno più vecchio di Pessoa che torna dal Brasile in Portogallo proprio in occasione della morte del poeta? Ed ecco l’incipit del fortunatissimo L’anno della morte di Ricardo Reis di Josè Saramago.
Siamo nel 1936. In Portogallo è al potere il dittatore Salazar. In Italia trionfa Mussolini. In Germania i tedeschi acclamano Hitler. In Spagna esplode la guerra civile per “ristabilire l’impero della croce e del rosario sull’odioso - e, si badi bene, l'aggettivo è proprio del comunista Saramago megafono, per l'occasione, della vulgata del regime - simbolo della falce e martello”.
Ricardo Reis, medico di quarant’otto anni, ritorna a Lisbona. Spettatore indolente (“saggio è colui che si contenta dello spettacolo del mondo”) delle dinamiche a cui si trova ad assistere, prende alloggio in un hotel in attesa di riprendere in mano le redini del suo futuro (riprenderà a esercitare la professione? Si deciderà a mettere radici in qualche angolo di Lisbona?).
Ricardo Reis è uno straniero in una città che non riconosce più.
Dove?” gli chiede il tassista in attesa di qualche località a cui dirigersi e Reis pensa che “gli hanno fatto una delle due domande fatali, Dove, l’altra, e peggiore, sarebbe, Perché”. Eccolo, per il lettore che ancora non avesse avuto (mal gliene incolse!) la fortuna di farsene ammaliare, lo “stile saramaghiano”, con quelle “domande senza punto interrogativo, con quelle battute senza virgolette, quelle considerazioni che possono essere tanto del narratore come dell’autore…” (Luciana Stegagno Picchio). È la suggestiva "oralità" di Saramago.Leggetemi a voce alta”, si raccomanderà l’autore.
Ma torniamo al romanzo. All’hotel Bragança Ricardo Reis incontra Lidia, una delle muse ispiratrici dei suoi versi che, per ironia della sorte, scende dai Campi Elisi della sua poesia e si fa donna in carne e ossa. Probabilmente, fin troppo in carne e ossa. Lidia, infatti, è una cameriera d’albergo con la quale Ricardo riesce, sia pure nei pochi momenti di vita vissuta insieme e sempre nel rispetto più o meno pieno della differenza di classe, a trovare un’autenticità di vita. Poi c’è l’altra musa Marcenda, anche qui un nome proprio “gerundio” come la Blimunda del Memoriale del convento sempre di Saramago, e pure in questo caso, la presenza di un difetto fisico: del braccio e della mano sinistra di Marcenda, inerti e privi di forza; della mano, sempre sinistra che stavolta è addirittura mancante, del compagno di Blimunda, Baltasar, nel Memoriale.
Con l’eterea Marcenda ci sarà solo un bacio. Con Lidia addirittura Ricardo Reis, sia pure con quella involontarietà che solo può avere un uomo che si lascia vivere, avrebbe pure un figlio.
Proscenio di queste vicende, è un macrocosmo in cui, e qui c’è tutta l’ironia del comunista Saramago, la “rigenerazione” dell’Europa procede a passi da gigante prima in Italia, poi in Portogallo, subito dopo in Germania e in Spagna (“questa è la terra buona, la semente migliore, domani raccoglieremo le messi”).
Dal canto suo, il fu Fernando Pessoa, sotto forma di fantasma, di immagine ora visibile, ora invisibile, e che ha solo nove mesi di supplemento di vita (“tanti quanti ne passiamo nelle pance delle nostre madri, credo sia una questione di equilibrio”), continua a fare visita a Ricardo Reis, prima all’hotel, poi nella casa in cui il medico decide di andare a vivere o forse, più opportunamente, a lasciarsi morire.
I due poeti discutono delle “piccole cause che fanno battere i piccoli cuori” così come, quando se ne presenta l’occasione, dei loro voli poetici sempre appesantiti dal pessimismo di Saramago perché il pessimismo spinge all’azione, mentre l’ottimismo non distoglie dalla contemplazione del mondo."
Alla fine i nove mesi sono agli sgoccioli, Ricardo Reis, pur da monarchico e da conservatore dell’ordine costituito, si trova a soffrire per il fallimento della rivolta contro il ripristino della dittatura in Spagna: anche in questo caso, una sofferenza indotta dalla ribellione altrui, nello specifico di Daniel, il fratello marinaio di Lidia.
Pessoa è pronto per l’ultima visita al suo collega ed eteronimo prima della fine irredimibile. Questa volta però, e il cerchio di Saramago si chiude, “Ricardo Reis si tirò su il nodo della cravatta, indossò la giacca (…). Allora andiamo, disse, Dov’è che vai tu? Vengo con te (…)

martedì 22 marzo 2016

Wake up, sì al referendum del 17 aprile

                                            

Per il referendum del 17 aprile, niente di meglio che far proprio l’invito del rapper salernitano Rocco Hunt (Wake up) e declinarlo in una valanga di sì

Sì contro le solite, stucchevoli manfrine da cerchiobottisti che infiniti lutti addusse all’ambiente. A cosa mi riferisco? Basta pensare al mamma li turchi urlato dagli occhi sgriddati dei piddini (solo dagli occhi, per carità, chè una parola in tal senso avrebbe incorporato del tutto Verdini nel pantheon del partito) al solo timore che alle concessioni pro trivelle potesse essere affibbiato un termine; ma mi riferisco anche al silenzio imbarazzante e imbarazzato dei media sul referendum del 17 aprile.
Ecco, per l’appunto, il referendum. Su cosa e perché siamo chiamati a votare sì?
Il 17 aprile andiamo a votare sì per abrogare la norma, introdotta con la legge di Stabilità 2016 (grazie, Renzi, grazie!), che permette alle piattaforme petrolifere di continuare a trivellare ed estrarre gas o petrolio dal sottosuolo entro le 12 miglia dalla costa nonostante la scadenza dell’autorizzazione.
Per essere più chiari e a scanso di fraintendimenti, la vittoria del sì al referendum non farebbe cessare da subito le trivellazioni in mare entro le 12 miglia (come pure qualcuno, evidentemente in malafede, si ostina a ripetere), ma solo alla scadenza naturale delle concessioni (che attualmente durano 30 anni più eventuali altri 20 di proroga). Basta solo questa precisazione per zittire le cassandre sempre in forma smagliante della perdita dei posti di lavoro perché non si può perdere il lavoro quando già adesso le società petrolifere hanno assunto personale (quando l’hanno fatto e come l’hanno fatto) per quell’orizzonte temporale (come dicevamo, e fin dall’inizio delle trivellazioni, 30+20). Né tantomeno, come pure asseriscono con invidiabile faccia tosta i sostenitori del no al referendum, la vittoria del sì potrebbe pregiudicare i tanto strombazzati “interessi nazionali”. Dovrebbe, infatti, essere noto a tutti che, dopo il rilascio della concessione, quello che viene estratto diviene di “proprietà” di chi lo estrae. La società petrolifera (udite, udite) è tenuta a versare alle casse dello Stato solo il 10% del valore degli idrocarburi estratti, se l’attività riguarda la terraferma; se invece l’attività afferisce, come in questo caso, al mare, solo il 7% del petrolio e il 10% del gas. Facendo il conto della lavandaia, quindi, il 90-93% degli idrocarburi estratti segue i desiderata della società estrattrice che può potarlo seco nei patrii lidi o, addirittura (e la beffa è bella che consumata!) rivenderlo direttamente allo Stato italiano.
Ma i motivi per votare sì al referendum del 17 aprile non finiscono mica qui?! Nossignore: nel nuovo rapporto di Greenpeace Trivelle fuorilegge, per la prima volta vengono pubblicati i dati relativi al funzionamento di oltre trenta trivelle in attività nei nostri mari che mostrano una grave contaminazione da idrocarburi policiclici aromatici e da metalli pesanti, in grado di risalire la catena alimentare. Catena alimentare che sarebbe ancora più minacciata dagli air gun che, qualora il referendum non vedesse la vittoria del sì, sarebbero perpetrati dalle società petrolifere sine die. Il metodo di ispezione dei fondali marini con scoppi ad aria compressa (air gun, per l’appunto), infatti, produce un rumore pari a 100mila volte quello del motore di un jet, capace di provocare lesioni permanenti o letali alla fauna marina.
In conclusione, e prendendo spunto nuovamente dal Wake Up di Rocco Hunt, occorre svegliarci e andare a votare, il 17 aprile, per un sì senza se e senza ma. Bisogna, in sintonia con l’appello firmato da varie personalità del mondo della cultura, tra le quali Dario Fo, Dacia Maraini e Moni Ovadia, e da alcune associazioni come Greenpeace, convincerci che “le trivelle sono il simbolo tecnologico del petrolio: vecchia energia fossile causa di inquinamento, dipendenza economica, conflitti, protagonismo delle grandi lobby”. Un simbolo, in definitiva, del tutto inconciliabile con gli obiettivi di riduzione delle emissioni fissati dalla COP21 nel vertice di Parigi per combattere i cambiamenti climatici, in cui si è sancita la volontà di limitare l’aumento del riscaldamento globale a 1,5°C.
Per tutti questi e anche per altri motivi: “Wake Up, guagliù, abbandoniamo le tastiere e facimm ‘a rivoluzione con un bel sì al referendum”.
 

lunedì 7 marzo 2016

Il mirabil topolino di Gramsci



La recente dichiarazione degli esperti delle Nazioni unite sul riscaldamento globale, è stata fin troppo chiara: ci restano 12 anni prima del disastro. Prima, cioè, che il superamento dei fatidici 1,5 gradi arrechino cambiamenti irreversibili a tutto l’ecosistema. Eppure una strategia per evitare la débâcle ambientale, ci sarebbe.

Siamo nel giugno del  1931. Dal carcere di Turi in cui si trova a scontare la pena inflittagli il 4 giugno del 1928 (20 anni, 4 mesi e 5 giorni di reclusione), Antonio Gramsci scrive alla moglie Giulia. Il cervello che, secondo la requisitoria del PM Isgrò, per vent’anni si doveva assolutamente impedire di far funzionare, vuole raccontare, per il tramite di Giulia, una favola ai suoi due figli, Delio e Giuliano. Si riserva uno spazio nella lettera alla moglie nel quale provvede a scriverla.

C’era una volta un topolino. O meglio, prima del topolino, c’era un bambino che dormiva.

Sulla tavola al centro della storia, un bricco di latte pronto per il risveglio del pargoletto.

Il topolino di Gramsci, spinto dalla fame, se lo beve tutto.

Succede il classico quarantotto: senza latte, il bambino strilla, la mamma si dispera. Il topolino, che al netto dell’ingordigia causata dall’atavica inedia, è un signor topolino, capisce che non serve a nulla battere il capo contro il muro. Occorre reagire.

Nell’ordine, quindi, corre dalla capra per avere il latte ma “la capra gli darà il latte se avrà l’erba da mangiare”; si rivolge alla campagna per l’erba ma quest’ultima, arida come solo le campagne del desolato sud sanno esserlo, reclama acqua; va quindi dalla fontana ma “la fontana è stata rovinata dalla guerra e l’acqua si disperde.”

<Che debbo fare?> chiede allora, angosciato, alla fontana il topolino di Gramsci.

<Vai dal mastro muratore affinché mi ripari, no?>

<Io  ti vorrei pure aiutare, – spiega sinceramente dispiaciuto il mastro muratore – ma per ricostruire la fontana di cui mi parli, mi servono le pietre. E le pietre, me le può fornire solo la montagna.>

L’indomito topolino, allora, si reca dalla montagna che è stata disboscata dagli speculatori e, ferita a morte, gli mostra dappertutto le sue ossa senza terra.

Il roditore, però, non può fermarsi proprio adesso che sta lì lì per riattivare la catena virtuosa e consentire, così, finalmente al bambino della storia di bere il suo latte. Cercando, allora, di far presa sulla montagna, le racconta tutta la storia di come all’inizio della fiera ci fosse un bricco di latte, e poi la fame sua, e il bambino….Insomma, grazie anche alla promessa fatta alla montagna che il piccolino, una volta cresciuto, avrebbe ripiantato pini, querce, castagni, etc., la convince a fornire le pietre.

Le pietre, così, vengono consegnate al muratore che riaggiusta la fontana; la fontana potrà fornire acqua alla campagna. Quest’ultima, dal canto suo, ritornerà a essere fertile, donando l’erba alla capra per produrre il latte.

Il bambino, finalmente, avrà il suo latte dopodiché, una volta cresciuto, non si dimenticherà della sua promessa, sia pure fatta per interposta persona, alla montagna. Pianta quindi gli alberi e tutto muta: spariscono le ossa della montagna sotto nuova vegetazione, le precipitazioni atmosferiche ridiventano regolari perché gli alberi trattengono i vapori e impediscono ai torrenti di devastare la pianura, etc.

E (immancabile!) vissero tutti felici e contenti.

Fuor di metafora, per evitare, in questi 12 anni che ci restano, l’esiziale aumento di 1,5 gradi della temperatura, occorrerebbe comportarci  come il saggio topolino di Antonio Gramsci: mettere in campo e rafforzare, cioè, quelle buone pratiche ambientali, da tutti conosciute ma da pochissimi poste in essere, che sole potranno assicurare un futuro alla nostra derelitta società.

 

 

mercoledì 24 febbraio 2016

Per la Salerno di tutti, Rifondazione Comunista c'è




C’è qualcosa che non quadra, che sfugge al rassicurante luogo comune. Cosa? Beh, innanzitutto l’ubicazione della sede. Dico io, siete comunisti? E allora, per la barba di Marx, dovreste ritrovarvi in un cantuccio oscuro e cospirativo, in una via che quantomeno evochi officine e quarto stato (non per niente, la sede nazionale si chiamava, a ragione, Botteghe oscure!). E invece trovo Rifondazione Comunista di fronte all’istituto tecnico Trani, in un palazzo dall’atrio luminoso(!) ubicato in via Gelso(!!).

A me non la fanno. Prima di citofonare cerco un significato recondito, cabalistico, subliminale del termine gelso: saggezza, simbolo dell’amore imperituro tra Piramo e Tisbe.

Alquanto contrariato, arrivo al portone. Mi apre un ragazzo sui vent’anni, sorridente, che mi fa segno di “parlare piano”, indicandomi una stanza chiusa.

“Bingo! Passi il ragazzo dall’aspetto gentile, ma lì c’è odore di setta segreta contro i plutocrati salernitani.”

<Oltre quella stanza – mi spiega il giovane ancor prima che possa gongolare per la ritovata cospirazione – ci sono i compagni del doposcuola popolare. È un servizio che rifondazione offre ai ragazzi delle famiglie colpite dalla crisi.>

E io, disperato: < Sì, ma a pagamento, cioè gli insegnanti…>

<I militanti – il mio interlocutore, quasi offeso – prestano – precisa – servizio di volontariato. Ma ecco il nostro segretario, Loredana Marino.>

A questo punto, m’arrendo. L’omaccione barbuto e sudaticcio dal cipiglio del “sotuttoio” della mia immaginazione stempera le sue fattezze in una ragazza bionda e riccia, con i tratti da ragazzina e lo sguardo determinato; insomma, una segretaria in equilibrio tra leggerezza e rigore.

Ormai ho abbandonato ogni pregiudizio e mi accingo ad ascoltare.

Vengo a sapere, dalla voce appassionata della Segretaria, che Rifondazione Comunista sta promuovendo un confronto con tutte le forze di sinistra per dare voce a una Salerno altra da quella deluchiana dei comitati di affari in città; una Salerno diversa che sappia fare tesoro dell’esperienza amministrativa trascorsa ma che sia anche in grado di aprirsi ai movimenti, alle istanze dal basso della società.

Loredana Marino, con l’accento dell’indomito cilento che ogni tanto fa capolino dalle sue parole, non si limita alle dichiarazioni di principio. Offre anche il modello che possa fare da collettore per le diverse esperienze di sinistra: quella Salerno di tutti che in questi mesi, oltre a costituire la dicitura per il nuovo simbolo per le amministrative, ha funzionato da vero laboratorio di idee in cui sono state affrontate tematiche vitali per la nostra città (urbanistica, luci d’artista, Ideal Standard, etc.).

<Ma non basta!> La segretaria di Rifondazione comunista, proprio nel momento in cui sembra aver trovato la stella polare da seguire, rilancia, consapevole della difficoltà delle prossime amministrative.

Ed ecco, allora, che la Marino mette in campo l’idea che sola potrebbe, da un lato, smuovere la fanghiglia che asfissia e ammorba Salerno da oltre venticinque anni e, dall’altro, dare finalmente peso specifico rilevante alla sinistra: una sintesi di esperienze, di competenze, di passione civile e politica, cioè, tra la succitata Salerno di tutti e il Comitato referendario per il No alla riforma costituzionale Renzi-Boschi.

Il varco è qui.

Il nostro incontro sta per volgere al termine. Nel frattempo che io e la segretaria stavamo parlando, la federazione si è riempita di età diverse e di professioni disparate.

Ma la politica non era in crisi di persone e di entusiasmi?

Mentre saluto tutti, resto colpito dalla biblioteca della federazione e da un sorpassato albero di natale fatto di…libri.

Sulla porta, la Segretaria di Rifondazione Comunista mi saluta. Poi, improvvisamente, il suo sorriso indossa i panni da lavoro.

<Scusami, abbiamo dimenticato di parlare dell’intervista di Asilo Politico uscita sabato sui giornali. A questo proposito, mi preme dire che nella costruzione di questo percorso che auspichiamo più condiviso possibile, siamo pronti a confrontarci anche con Asilo Politico, proprio partendo dal documento che hanno presentato alla stampa e ai cittadini.>

venerdì 19 febbraio 2016

Porto di Salerno:l'insostenibile leggerezza dell'accorpamento

 

Porto di Salerno: sto aspettando il mio uomo al Bar Dogana

Come, infatti, nell’antichità i Fenici si orientavano in mare, di notte, grazie all’Orsa Minore, allo stesso modo io, per raccapezzarmi nel microcosmo portuale, ho bisogno di un contatto: nella fattispecie, dell’ottimo Massimo Grimaldi, responsabile Yard e Gates del porto di Salerno.

Arriva trafelato, sempre inseguito dalle voci gracchianti della radio in dotazione.

Una stretta di mano, un caffè e via.

Giusto il tempo di circumnavigare il “Giù le mani dal porto di Salerno” e il “A difesa della nostra città” dei rimorchi blu e arancio testimoni della protesta, che arriviamo all’ingresso.

Il porto spalanca le sue fauci e m’inghiottisce con il suo caravanserraglio di sensazioni.

Sembra di essere all’interno dell’Etna, nella fucina di Efesto. I lavoratori, i container, le gru, le stive delle navi, tutto insomma, è ostaggio di un’ordinata alacrità.

Voglio conferme alle mie impressioni. Il mio cicerone mi accompagna dal responsabile pianificazione dello Yard, dr. Giuseppe Gallozzi.

Dalle parole giovani e competenti del mio interlocutore, oltreché dai documenti mostratimi apprendo, tra l’altro e in aggiunta a quanto letto in questi giorni, che:

  • l’Autorità portuale di Salerno, a differenza di quella di Napoli, spende fino all’ultimo centesimo dei Fondi europei;
  • il porto di Salerno è, per ordine d’importanza, la prima risorsa economica della città;
  • nel 2016, il tempo d’attesa per l’imbarco è sceso a max 2 ore dato, quest’ultimo, coerente con la politica di efficienza da sempre perseguita dall’Autorità;
  • recentissimamente si è provveduto ad alcuni ammodernamenti relativi alle banchine (le più vecchie, adesso, sono del 2011), ai fondali, all’imboccatura.
  • il porto di Salerno si aprirà ancora di più, a partire da marzo 2016, ai mercati di India, Sud Africa e di altre realtà economicamente vivaci;
  • con l’accorpamento del porto di Salerno a quello di Napoli, alcuni dipendenti diretti dell’Autorità, a oggi stimabili in circa 2000 unità, potrebbero rischiare il posto di lavoro.

Via via che ascolto le parole del dr. Gallozzi e leggo i documenti a supporto della narrazione, mi faccio persuaso di quanto sia insensato quest’accorpamento del porto di Salerno con quello di Napoli. E ciò, beninteso, non in nome di una gretta questione di campanile quanto, piuttosto, sulla scorta di una banale considerazione: Salerno e Napoli, pur geograficamente assai vicine, hanno dinamiche di sviluppo, strategie imprenditoriali e know-how del tutto diversi e, ciononostante, perfettamente compatibili. A patto, però, che si mantenga la doppia voce Salerno-Napoli, per parlare più forte e, all’occorrenza, anche di più il linguaggio già fin troppo vilipeso della nostra terra. Proprio per questo, e anche per altro, è necessario mantenere in vita l’Autorità portuale di Salerno accanto a quella di Napoli.

Trovata conferma alle mie prime impressioni, saluto il dr. Gallozzi e ritorno da Massimo Grimaldi. Dopo avermi fatto un cenno d’intesa, la mia guida si sente in dovere di regalarmi, compatibilmente con il suo tempo che è sempre gravido di impegni, una fugace visita all’Area Usmaf deputata, mi spiega solerte, all’ispezione dei container in entrata e in uscita (<Nessun porto – mi dice con lo sguardo orgoglioso – ha un’area Usmaf attrezzata come la nostra  e in cui si fa un controllo così approfondito dei prodotti dell’import e dell’export.>).

La radiolina riprende a invocare l’attenzione del mio accompagnatore. Risponde qualcosa al collega dall’altra parte del microfono. Mi fa segno che la visita è finita. Si ferma all’improvviso, però. Come indispettito per aver finanche pensato di soprassedere al suo proposito mi invita, ancora e per ultima cosa, a entrare nella pancia di una nave: <Un minuto solo – e una volta lì -Adesso chiudi gli occhi – mi fa – e ascolta.>

Mi basta proprio un minuto per capire quello che mi vuole far sentire Massimo Grimaldi. In questa stiva, per un minuto solo, ho ascoltato l’indispensabilità del porto di Salerno.

Ci salutiamo. Sono ormai fuori dall’organismo ospitante. Tempo di completare la manovra di retromarcia che il telefono squilla:<Vince’, so’ Massimo. Te ne sei salito per il viadotto Gatto, sì? Ma ci pensi alla nostra crescita, nonostante già adesso siamo il sesto porto d’Italia, con l’apertura delle gallerie Salerno Porta Ovest?>

lunedì 4 gennaio 2016

Lo spazzino di Santa Teresa e i rioni collinari


A tutti i salernitani sarà capitato, in quest’inverno che sembra finalmente avercela fatta a recuperare i suoi rigori, di farsi una capatina sulla spiaggia di Santa Teresa.
Di che parliamo, per i non salernitani? Col freddo linguaggio dell’occhio egualmente inesperto e incompetente (il mio), nient’altro che di una pedana di legno più o meno ingombrante, inchiavardata (con bulloni conficcati alla comevieneviene) su una sottostruttura di cemento; con il verso sempre torrido di suggestioni della poesia invece, ci riferiamo al Sacro Graal per il cavaliere templare, a La Mecca per i musulmani, all’uva sultanina per la volpe. Insomma, per chi non fosse di Salerno, la spiaggia di Santa Teresa è come lo studio di Barbara D’Urso: o lo frequenti o non conti un cazzo.
Ebbene, su questa lingua lignea consacrata agli allori dello struscio cittadino, ho incontrato la presenza: tra decine e decine di K-Way e Colmar sciorinati al sole, mi si è materializzato lui, lo Spazzino. Poco più alto di un castello di sabbia, se ne stava lì con lo sguardo arguto, il baffo alla tartara e il sorriso istituzionale sempre pronto all’abbisogna.
L’ho visto all’opera (Dio mi fulmini se dovessi esagerare) mentre, nell’ordine, raccoglieva qualche carta, raccattava una decina di mozziconi di sigarette, rastrellava la sabbia (!), setacciava (!!), granello per granello, tutta le panoramicissima rena della spiaggetta di Santa Teresa.  E come se non bastasse (e qua rasentiamo l’ultraterreno), ho visto il maniacale spazzino sorridere indulgente al bambino che gli centrava gli zebedei con un super santos calibrato male.
L’ho visto, dopo trenta secondi di pausa necessari a riaversi e a tergersi il sudore, sdraiarsi sulla spiaggia e, poco dopo, alzarsi, tutto fiero di sé, con un insolente pelo di cane (fulvo, per la precisione) tra le dita. Ha guardato il crine canino con l’occhio dell’ambientalista che scorge una chiazza d’olio nel lago, e lo ha relegato, offeso da tanto ardire, al civico cestino.
Questa è l’immacolata spiaggia di Santa Teresa.
Cambio scena.
Rioni collinari. Salerno anche qui.
In questi giorni di festa, mi è capitato di farmi un giro in bici per Giovi, Rufoli, Ogliara. Volevo stare solo con me stesso, con l’unica presenza dell’aria povera di PM10 che le frazioni alte sanno offrire. Ebbene, mi è bastato percorrere poche centinaia di metri da casa mia, per trovarmi, mio malgrado, in compagnia (Dio mi fulmini se dovessi esagerare) di due ali festanti, da una parte e dall’altra del ciglio della strada, di cartacce, di scheletri di gratta e vinci da cinque e dieci euro (O opulenta Salerno!), di buste dell’immondizia mangiucchiate dai cani, di pezzi di copertone,  di giocattoli, di preservativi e di ammennicoli vari.
Ebbene, cara, carissima (Tares docet) Amministrazione Comunale, domani è la festa dell’Epifania. Ora lo so che i rioni collinari, le periferie dell’Hippocratica Civitas, sono agli antipodi (per visibilità, per lo struscio di K-Way e Colmar di cui sopra, etc.) dalla spiaggia di Santa Teresa. Sono consapevole che le Luci d’Artista (?), manco col cannocchiale possono essere viste da Giovi, ma, come dire? Vorrei, sommessamente, sottovoce, che Tu ci mettessi la buona parola con la Befana, e la convincessi a regalare, a noi abitanti di Giovi, Rufoli, Ogliara Matierno, etc., non dico uno spazzino come quello della spiaggia di Santa Teresa (troppa grazia, Sant’Antonio!), ma almeno un surrogato, finanche claudicante e quasi invalido, dell’irreprensibile spazzino.
Sicuro di un mancato accoglimento in merito,
l’occasione mi è gradita per porgerTi
Distinti Saluti.
Sommessamente tuo, un abitante dei Rioni Collinari.

sabato 17 ottobre 2015

Acquisto di scarpe con le migliori intenzioni


Già dalla porta d’ingresso del megastore, inspiro l’aria contaminata da cuoio pressato, plastica traslucida, gomma avveniristica: è giunto il momento di comprare le scarpe

È già tutto deciso. Imbottito, nell’ordine, dai desiderata con retrogusto ammonitorio della fidanzata (“Le scarpe è opportuno comprarle buone, alte, alla moda…eppoi, per te che ci cammini tanto…resistenti, per carità!”), dalle minacce “defenestratorie” della madre (“Vedi come te lo dico, se ti compri di nuovo quelle scarpe strascinate, mo che vieni a casa, t’è vott’ a copp’abbasc, parola d’onore!”) e dalle lusinghe fricchettone dell’amico (“Con questo modello, che poi è l’unico modello che si porta, fai un’altra figura…altro che cu ‘sti pezze ca “attirano ‘sulamente scuorno”); ebbene, come dicevo, con il libero arbitrio proprio dell’operaio da catena di montaggio, mi accingo a compiere la ferale operazione.

Il tragitto è obbligato. Le prime tre file di scatole, rispettivamente per i nullatenenti, per i tamarri e per gli ancien regime, manco a parlarne. Dalla quarta fila in poi, una persona con la volontà ancora libera (beato lui!), potrebbe (e dico potrebbe) incominciare a gettare l’occhio a qualche modello di scarpe.

Inizio a guardarli, gli acquirenti liberi e leggeri, con qualche punta d’invidia. Ma è solo un momento. Io ho una missione da compiere e, fattomi persuaso una volta per tutte, mi dirigo incorruttibile verso le ultime file. E qui la dirigenza del megastore, evidentemente fan sfegatata delle Nozze di Cana del Vangelo di Giovanni dove il vino buono viene servito solo alla fine, ha pensato bene di far accomodare le stelle della scarperia. Proprio in questa fila, illuminate dal neon che tramuta quelle che dovrebbero essere comunque delle scarpe nel target (l’ennesimo!) che ti dà uno status, le vedo ammiccare lascive, con la giusta dose di snobismo del ce l’ho solo io.

Il commesso solerte, incasellatomi nella nicchia del modaiolo bisognoso di personalità riflessa, mi accoglie con il sorriso più largo che ha in dotazione. Certo, quando inavvertitamente abbassa lo sguardo sulle mie scarpe, smarrisce (per il tipo e per lo stato di avanzata decomposizione delle stesse) per un attimo la trebisonda. Lo smarrimento, però, dura solo una frazione di secondo. Come il navigatore quando l’imbranato autista di turno sbaglia l’uscita dalla rotatoria, ricalcola il percorso in men che non si dica. Ecco, mi ha riclassificato come modaiolo bisognoso di personalità riflessa sì, ma con una spruzzatina di eccentricità che non guasta mai.

“Sono belle. Sono alte. Sono resistenti. Si portano.

<Prego, guardi la tomaia, se le provi e capirà perché una volta indossate il suo piede non ne potrà fare a meno.>

<Le prendo!>

“Con gli stessi soldi avrei comprato i dieci romanzi di Camilleri che mancano alla mia collezione.”

<Ma non se le misura? Deve misurarle.>

<Le prendo.>

“Due paia di scarpe di queste, e mi compro il pianoforte digitale Yamaha p45.

<Ma il numero, il colore…>

<42, grigie.>

“200 euro e i bambini dell’Africa a piedi nudi…muoviti, stronzo di un scarparo!“.

Un altro commesso, relegato nei sobborghi delle prime file, si avvicina al mio:<E queste, dove le metto?>

Come il setter che punta la pernice, tutti i miei nervi sono monopolizzati unicamente dai miei cari sarcofaghi grigi che mi vengono incensati sotto gli occhi.

<Carlo, ma non vedi – perde la pazienza il top del commesso che mi sta vendendo il top delle scarpe – che queste vanno al massimo nella terza fila? Mi dica un po’ lei, ma come si fa – chiede (proprio a me!) tra il disperato e il canzonatorio – a voler piazzare in pole position addirittura le polacchine?>

Le polacchine! Le manifestazioni studentesche tra le cuciture del camoscio, il rosso sulla curva che accarezza il piede, i chilometri alla ricerca di sé tra le rughe della suola.

L’ultima carta: la citazione poetica. Visione, una distanza ci divide.

Niente, non c’è verso.

Polacchine amatissime…perché anche una scheggia di distanza tra noi è esasperante.

Scusa fidanzata, scusa mamma, scusa amico.

Esco dal megastore di scarpe, mi guardo le polacchine che ingentiliscono il piede e…sono felice.