venerdì 21 ottobre 2016

"La giostra degli scambi", di Andrea Camilleri

Leggere il Montalbano di Camilleri, magari uno degli ultimi come in questo caso, ha il sapore del ritorno a casa.

E sì perché, dopo un più o meno lungo viaggio tra le pagine di altri libri, dopo essere stati catafottuti in anfratti claustrofobici o, di converso, in esangui pozze di impressioni e suggestioni altre, l'approdo (l'ennesimo) a Vigata, sullo scoglio chiatto proprio sotto il faro dove Montalbano si fa la passiata (un pedi leva e l'autro metti) appena soddisfatto il pititto lupigno con pasta al nivuro di siccia, triglie allo scoglio e frittura di calamaretti,  ha il fascino della strada che sa di bucato e ragù dopo un anno di Fifth Avenue.
Questo Montalbano di Camilleriassugliato dalle vicchicaglie del tempo, riesce ancora una volta, come nelle migliori pillicole 'mericane, a venire a capo di una storia dove tutto sembra trovarsi in un posto diverso, scangiato, rispetto a quello indovi le cose stesse si dovrebbero attrovari: la giostra degli scambi, per l'appunto.
Eppure, malgrado, nell'ordine, il tiatro di ben tre sequestri di persona messi in scena senza torcere un capello (almeno nei primi due) e senza rubare niente alle malcapitate di turno; nonostante la farfanteria della scenografia pure apparecchiata di una possibile rivalsa contro gli istituti di credito; a dispetto dell'aver individuato (troppo presto, per gli scafati lettori del Camilleri-Montalbano) il puparo dell'opira dei pupi, il commissario Montalbano si arritrova, alla fine della giostra, di pirsona pirsonalmenti come direbbe Catarella, di fronte all'eterno guazzabuglio dal quale prende le fattezze ogni assassino e, soprattutto, ogni movente delle storie di Camilleri: l'abisso, insondabile e imprescindibile, dell'animo umano. A ben vedere, topos, quest'ultimo, praticamente incontrato in ogni indagine di Montalbano ma che adesso, ancora di più (ed eccola, la metabolizzazione della vecchiezza), affascina e arricchisce in primisi il commissario, in secunnisi il lettore.
A Camilleri occorre il saltafossoil trucco per avere la confessione finale. E' indispensabile, però, scegliere il momento giusto, il fiat passato il quale non ci sarebbe soluzione alcuna perché, perso quello, movente e assassino scomparirebbero in un vidiri e svidiri.
<Ora!> disse a se stisso il commissario. <Ora che si sta rilassanno, ora che si senti fora periglio, ora che ha abbasciato le difise...>
In alcuni punti più farraginoso di altri libri di Camilleri incentrati sulla figura del commissario Montalbano, La giostra degli scambi è il romanzo del rovello interiore del protagonista (testimoniato anche da un utilizzo più diffuso del dialetto), alle prese con un'età che non gli consente più la notatina dalla spiaggia di Marinella alle setti di matina ma che, in fondo in fondo, lo appaga per la sempre maggiore 'spirienza circa l'animo delle persone e le cose del mondo.

sabato 15 ottobre 2016

Odiosi Viceré di De Roberto, eppure già mi mancate!

I Viceré? "Un'opera pesante, che non illumina l'intelletto come non fa mai battere il cuore."

La causa.
Federico De Roberto? La sua scomparsa, a poco più di sessantasei anni, passò per lungo tempo quasi inosservata nell'ambiente culturale nazionale.
E quest'ultimo, automatico come gli interessi della cartella esattoriale, è l'immancabile effetto.
Ora, mi domando e dico: come poteva essere diversamente se l'autore della stroncatura de I Viceré di De Roberto è addirittura quel Benedetto Croce per mezzo del quale, all'indomani dell'apparizione del suo saggio Perché non possiamo non dirci cristiani (1942), anche i mangiapreti più incalliti non riuscivano più a professarsi atei?
Ebbene, pienamente d'accordo con Sciascia che giudica I Viceré di De Roberto, "dopo i Promessi Sposi, il più grande romanzo che conti la letteratura italiana", debbo registrare una clamorosa, forse l'unica, cantonata del Croce, proprio a proposito del suo giudizio sul capolavoro di Federico De Roberto.
I Viceré, questa "manica di ladri" (Verga) blasonati, hanno catturato la mia attenzione a ritmo di cinquanta e più pagine a notte, facendomeli maledire a ogni piè sospinto e, nello stesso tempo, stanando in me una ridda di passioni che mi hanno tenuto attaccato a loro come l'ubriaco alla bottiglia.
Nelle tre generazioni della famiglia catanese degli Uzeda di Francalanza che l'opera di De Roberto fa scorrere sotto i nostri occhi, non esiste un personaggio principale; e, cosa ancora più spiazzante, non c'è un solo protagonista che abbia le stimmate della positività.
Nel romanzo di De Roberto il "se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi" de Il Gattopardo, trova la sua prima e più perniciosa, perché meglio e diffusamente radicata nelle maglie parentali, declinazione. D'altronde, la frase che riassume la filosofia di Consalvo, esponente dell'ultima generazione della stirpe avida, pazza e paranoica dei viceré, è che "la storia è una monotona ripetizione: gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli stessi." E anche quando proprio Consalvo, che pure è stato allattato con il latte rancido del più bieco ossequio alle vestigia reazionarie, per riuscire ad essere eletto deputato, abbraccia il credo democratico, lo fa sempre nella convinzione che il solo titolo di viceré, quasi per volontà divina, è sufficiente al trionfo anche negli ambienti che dovrebbero essere più refrattari alla sua seduzione.
Nella famiglia degli Uzeda di Francalanza non esiste la coerenza tra idee o la fedeltà alle persone. Ed è proprio per questo motivo che, da una parte, lo zio Blasco, monaco gaudente di San Nicola, dopo averne detto peste e corna di Garibaldi, Mazzini e del nuovo Stato "che chiude i conventi", poi non solo compra il Cavaliere, l'appezzamento di terra dove sorgeva il monastero, ma investe anche nei titoli dello stesso Stato fino a un minuto prima esecrato; così come, dall'altra parte, lo zio duca d'Oragua prima si serve di Benedetto Giulente, suo nipote acquisito, per scalare le vette del potere politico, poi preferisce dare il suo appoggio al nipote Consalvo.
Non vi è alcun dubbio, ancora una volta d'accordo con Leonardo Sciascia, che I Viceré "sia il prodotto di una delusione, se non addirittura di una disperazione storica" che ha nell'ironia il filo conduttore; in quell'ironia cioè, che non può che nascere dal confronto e dalla contraddizione tra gli ideali che sembravano dover ammantare l'Italia appena unificata, la loro effettuale attuazione e, ciò che è ancor più disperante, tra la loro ormai conclamata inattuabilità.
Al termine della lettura dell'opera di De Roberto, finisci con l'odiarne tutti i protagonisti; col condannarne le loro intemperanze, la loro debolezza, la loro ottusa aristocraticità. Eppure, un attimo prima di voltare l'ultima pagina, un momento prima di abbandonarti al sonno dell'ennesima giornata di lavoro, non puoi non pensare che i viceré ti mancheranno; e che ti mancheranno tremendamente proprio non appena ti sfiora il pensiero del mondo di fuori che ti aspetterà l'indomani e che, miracolo della grande letteraturaè rimasto pressoché lo stesso, sia pure con forme, e parliamo solo di esteriorità, diverse.
Un perito agrimensore compose un opuscolo intitolato: Consalvo Uzeda principe di Francalanza, brevi cenni biografici, e glielo presentò. Egli lo fece stampare a migliaia di copie e diffondere per tutto il collegio. Il ridicolo di quella pubblicazione, la goffaggine degli elogi di cui era piena non gli davano ombra, sicuro com'era che per un elettore che ne avrebbe riso, cento avrebbero creduto a tutto come ad articoli di fede.
Più attuale di così!

mercoledì 28 settembre 2016

Giovi, la poesia antidoto al "si c'o puort, c'o truov"

Giovi, una periferia che la città di Salerno non è mai riuscita a coinvolgere del tutto.

Una sola frazione divisa in una quindicina di "case" e quartieri, sgrammaticata come solo può esserlo una realtà troppo ricca per sottostare ai diktat della sintassi; ebbene, Giovi, il suo pegno alla diversità e alla specificità, l'ha pagato, e pure con gli interessi : alzi la mano il lettore che al sentir parlare di Giovi non abbia pensato, con il sorriso allusivo di chi la sa lunga, al motto che dall'origine dei tempi condanna la nostra terra: "Juov, si c'o puort, c'o truove" (Giovi, se ce lo porti, ce lo trovi).
È incredibile come una rima possa inchiodare per sempre una frazione al legno ingrato della grettezza più bieca!
Già, una rima. E proprio una rima di una delle oltre 240 poesie presentate alla II edizione del Premio Nazionale di Poesia "Spiga di grano", per una sorta di nemesi storica, viene a costituire l'antidoto più efficace contro l'ingiusto e immeritato epiteto affibbiato a Giovi.
Tutto è iniziato poco più di un anno fa. Come tutte le rivoluzioni, il grimaldello che ha scardinato il pregiudizio è stato un gesto semplice: l'intuizione di un giovane amante della poesia e poeta egli stesso, Angelo Palatucci, subito capita e supportata da una coraggiosa associazione culturale-sportiva, quella delle "Colline di Giovi" (allora presieduta dal dr. Massimiliano Natella e oggi, invece, dal sig. Gerardo Rocchino).
Dall'incontro tra l'idea illuminante e la voglia di crederci, nasce la prima edizione del Premio di Poesia "Spiga di Grano".
E così il "si c'o puort, c'o truov",  inizia a vacillare sotto i colpi della cultura, sola dispensatrice di una generosità capace di intaccare anche i più inveterati e stupidi luoghi comuni.
Il 24 settembre, c'è stata la II edizione del premio predetto.
L'Auditorium della Scuola Media di Giovi, allora, ancora una volta e ancora di più rispetto allo scorso anno, ha fatto da cassa di risonanza ai versi di quella "poesia-eco" prefigurata da Carl Sandburg, che "chiede all'ombra di ballare".
La serata del premio, per evitare che la nave, per quanto strutturalmente inaffondabile, potesse colare a picco a causa dell'impatto con gli iceberg  dei cuori refrattari al bello, è stata affidata alla conduzione dell'ottimo Enzo Landolfi.
Alla fine dell'evento, possiamo dire che anche grazie alla maestria e alla leggerezza "colta" del conduttore, la nave è giunta vittoriosamente in porto.
Sul palco, così, si sono alternati versi (in italiano e in vernacolo), intrecciate rime, sovrapposte età (dalla ragazzina di 11 anni alla nonna di quasi 90), azzerate distanze (sono giunti, alla segreteria del premio, componimenti da tutta Italia, da Cefalù a Milano). In altre parole, si è fatta cultura, mettendo in difficoltà, per la bellezza dei componimenti giunti in segreteria, anche la titolata giuria del premio presieduta dal prof. Andrea Natella.
Per inciso, nota di merito va riconosciuta alla lettrice di molte liriche in concorso nonché, come diremo tra poco, anche di alcuni passi dell'opera presentata nell'occasione del premio, la dott.ssa Sonia Postiglione, che ha dato profondità e ali ancora più robuste al volo delle liriche.
Prima dell'apertura ufficiale della II edizione del Premio Nazionale "Spiga di Grano", come accennavamo, si è svolta la toccante presentazione del libro "Tra sogno e realtà...Dottor Cresta di Gallo ed il suo mondo magico: la fantasia di due bimbi...si trasforma in...Magia...", Pubblisfera Edizioni.
Trattasi di un racconto lungo scritto a quattro mani da Angelo Palatucci ed Emmanuela Rovito in cui, attingendo a quella fantasia che solo può imbrattare le pareti asettiche di un ospedale con l'incantesimo della magia, addirittura il guanto di una sala operatoria può assumere le fattezze di una...cresta di gallo.
E inizia il Sogno capace di redimere le vite dei due piccoli protagonisti, convinti che anche la loro vita, nonostante la problematica partenza, debba fiorire in un tripudio di colori.
Scritto di getto, tra telefonate e chat fb (...), questo racconto è un piccolo Arcobaleno che gli autori, Angelo Palatucci e Emmanuela Rovito, vogliono disegnare nel cielo di coloro che...nella vita vivono o hanno vissuto troppi temporali!
Giunti quasi alla fine di questo pezzo, torniamo al punto di partenza, all'alfa di questo nostro articolo: Giovi, e il suo "si c'o puort, c'o truov". Ma per farlo, abbiamo ancora bisogno del racconto lungo di cui sopra.
Nella penultima pagina, subito dopo i ringraziamenti, i due autori scrivono, con una pudicizia che è propria delle grandi azioni, che "il ricavato (delle vendite, ndr) verrà devoluto alle pediatrie ospedaliere".
Nell'ultima pagine, invece, c'è l'elenco degli sponsor che hanno permesso la pubblicazione di quest'opera.
Attraverso il riflesso di un'ora tarda di fine settembre, mi si squaderna, davanti agli occhi assonnati, l'anima di Giovi. Do una sbirciatina. La vedo riflessa in quella ragazzina di 11 anni che c'invita a rispettare la natura, ma anche nella nonna novantenne che si è messa a scrivere poesie solo adesso, "perché prima era giusto dare la precedenza al vero poeta di casa mia, mio marito".
La scorgo, infine, nel poeta milanese che, dopo uno dei primi naufragi di profughi, ha sentito il bisogno di mettere su carta la tara della sua pietà verso questi disperati.
Stanotte, grazie anche alle iniziative culturali come quelle messe in piedi da Angelo Palatucci, dall'Associazione Culturale-Sportiva "Colline di Giovi" e da tutti gli altri, persone fisiche e enti vari che ci hanno creduto, la mia Giovi non mi chiede niente né, tanto meno, chiede qualcosa agli altri.  Offre soltanto, come solo può farlo un cuore innamorato di poesia.

martedì 20 settembre 2016

Facebook e l'incubo del caschetto biondo

Dopo il suicidio della povera Tiziana Cantone, tutti gli italiani, a partire da quelli appena capaci di accordare una pariglia di sostantivi a una decina d’indicativi, hanno risposto alla chiamata di Facebook.

E allora, da un popolo di commissari tecnici, eccoci tramutati tutti, con le nostre tavole della legge a tracolla, a soloni della privacy, a censori del così ci si sta su Facebook.
Illusi!  La verità è che Facebook, questa effe pudica su sfondo color pervinca, conosce ognuno di noi; e di ciascuno di noi, le sue paure. Già, proprio come, in “1984”, il Grande Fratello di Orwell conosceva l’unica paura di Winston Smith in grado di farlo consegnare, armi e bagagli, all'annientamento della spersonalizzazione.
La vulgata comune, a proposito del venerabile Licio Gelli, capo indiscusso della Loggia P2, parla di un archivio praticamente sterminato di cui era in possesso. Di ogni uomo, a prescindere che fosse amico o nemico, quel Gran Visir di Licio conosceva vita, morte e miracoli. E tra la vita, la morte e i miracoli, soprattutto le paure. Già, la paura, l'unico sentimento in grado di sottomettere qualsiasi uomo al ricatto perenne.
Eppure nessuno pensa al fatto che, con l’avvento di Facebook, anche gli incubi inchiavardati nelle segrete della nostra coscienza più profonda, potrebbero essere portati alla luce della condivisione. E, in alcuni casi, rovinare per sempre la reputazione che ci siamo costruiti per tutta una vita.
E sì perché Facebook non conosce selezione, non si lascia ammaliare dalle (a volte) rassicuranti correnti del fiume Lete. Nossignore, il social network più famoso del mondo conosce solo l’accumulo, l’affastellamento di ricordi su ricordi che, una volta in rete, possono essere sempre ripescati dagli abissi della sua elefantiaca memoria.
Pigliate, ad esempio il mio, di incubo. Sono un direttore d'orchestra, di quelli che inaugurano le stagioni teatrali. Frequento persone che danno del tu al potere.
Tutto va ben, madama la marchesa.
Ma ho un amico. Che sta su Facebook. Un amico di quelli scemi. Di quelli che t’affatichi una vita a crearti una reputazione e poi…zac, vengono loro, e ti appioppano lo stigma dell’infamia. E quindi, la bussola va impazzita all’avventura, si sbriciolano i teatri,  gli amici raffinati se la svignano, le tue benemerenze s’involgariscono.
E non pensiate che non mi sia dato da fare per arginare il pericolo. Mi sono sbarazzato, come solo ci si può sbarazzare di un accidente, di tutte le foto su Facebook che richiamano quel periodo della mia esistenza. Sono arrivato addirittura a eliminare dagli amici l’amico di cui sopra. Eppure, il mio incubo non mi dà pace.
Una foto, c’è ancora una foto, testimone muta ma più ciarliera di mille pettegolezzi, che mi toglie il sonno e la ragione. Un’immagine dalle potenzialità devastanti, che io, pur tra mille e succulente blandizie, non sono riuscito a far eliminare dal Facebook di quello scemo del mio amico. Che in quanto scemo, ovviamente, è estremamente imprevedibile.
Teatro Verdi. Poco prima dell’ouverture, per la durata interminabile di un minuto, la mia schiatta di frac distinti e di violini aristocratici, guarda incredula il display del cellulare. Poi, quasi in ossequio a un muto intendimento, mi pianta all'unisono il nero e il mogano in cui è impresso il logo di Facebook direttamente negli occhi.
Passata la paura: è una innocua e deliziosa foto che la mia orchestra fa del proprio Maestro in ambasce!
E io, di rimando, li guardo grato, finalmente in grado di far perdere il pomo d’adamo in qualche binario morto delle interiora; in qualche passaggio segreto lontano mille miglia dalla foto di me adolescente, con un improbabile caschetto biondo platino, nell'inequivocabile omaggio al Nino D’Angelo di Nu jeans e 'na maglietta. 

giovedì 8 settembre 2016

Prendete un corpo...




Prendete un corpo. Sì, un ammasso di ossa e muscoli. Solo il "soma", senza alcuna trascendenza "animata".

Chiudetelo da qualche parte, uno sgabuzzino, un bunker. Un luogo chiuso, insomma.
Per 5 secondi, soltanto per 5 fottutissimi secondi (a tanto, da una ricerca effettuata, ammonta il terrore che la nostra immaginazione può rappresentarsi), raffiguratevi 1, 2, 5 mani.
Non vi chiedo di immaginare l'attività di queste mani intente a rovistare nel e su quel corpo.
Concentratevi sull'atto, non sulla potenza.
5 denti fratturati. E poi 2 scapole, l'omero destro, il polso, le dita delle due mani e dei due piedi con entrambi i peroni ridotti in poltiglia, tutti rotti.
Segni di tagli e bruciature in ogni centimetro del corpo.
Rotazione della testa, fino a procurare la rottura del collo. 
Parliamo sempre dello stesso corpo.
Coup de theatre: "lettere" disegnate sulla regione dorsale, all'altezza dell'occhio destro, a lato del sopracciglio. Infine, una X sulla mano sinistra e sulla fronte.
I cani marcano il territorio.
Il medioevo delle torture ci ha insegnato che il corpo, ogni corpo, raggiunto l'acme del dolore, attiva la valvola di salvezza: diventa insensibile.
Su quel corpo ci sono state sevizie ripetute, fermate appena prima del soccorso di quest'ultima pietà.
<Ho dato un'identità a quel corpo, al corpo di mio figlio Giulio Regeni, solo grazie al riconoscimento della punta del naso.>
A volte, Dio non esiste.

sabato 3 settembre 2016

"Il Mastino dei Baskerville", Sir Arthur Conan Doyle

Si narra che Sir Arthur Conan Doyle, papà letterario del celeberrimo Sherlock Holmes, a un certo punto abbia voluto disfarsi della sua creatura.

E questo perché lo scrittore, sempre secondo la vulgata giunta fino a noi, si aspettava la consacrazione del suo talento soprattutto grazie ai romanzi storici, e non certo per il tramite delle opere imperniati sulla figura dell'infallibile investigatore.
Anche sulla scorta di questo rumor dell'epoca, quindi, è probabile che il buon sir Arthur si decise, una volta per tutte, a far precipitare Sherlock Holmes e la sua leggenda dalla cascata del Reichembach, provando gusto a lasciarlo lì, almeno fino a quando le proteste unanimi dei lettori e degli amici non ebbero la meglio, costringendolo a riesumarne il corpo e le gesta letterarie. E sì perché, come dicevamo, sir Arthur Conan Doyle avrebbe voluto de-mitizzare il personaggio che, ormai fu chiaro fin dalla sua prima apparizione nel romanzo Uno studio in rosso (1887), gli sarebbe sicuramente sopravvissuto.
A ben vedere, proprio alla stessa maniera di come, nell'ultima parte della sua vita, il brillante dottor Arthur Conan Doyle avrebbe voluto de-strutturarsi, pronto ad offrire i suoi elementi vitali alla creazione dell'opposto da sé, a quel sir Arthur cioè che, ormai, aveva deciso di sciacquare i panni della medicina nell'acido corrosivo dello spiritualismo.
Ancora una volta, quindi, l'eterno contrasto tra dionisiaco e apollineo, con un significativo, senile passaggio, per quanto riguarda il Nostro, dall'uno all'altro.
Sulla falsariga di questa stuzzicante prospettiva, mi piace pensare che lo scrittore abbia voluto, proprio nell'opera Il mastino dei Baskerville (1902), far le prove generali dell'annientamento di Sherlock Holmes, del suo abbandono nelle fumisterie dell'aldilà. E infatti sir Arthur, in questo romanzo, cala il campione del metodo deduttivo capace, ad esempio, di risalire dal colore e dalla consistenza delle macchie su un pantalone ai diversi sobborghi di Londra in grado di causarle, nella landa desolata e tenebrosa che fa da sfondo all'intero romanzo, sulle tracce di una leggenda foriera di lutti.
Sir Charles Baskerville viene trovato morto con "una distorsione facciale pressoché inverosimile": una paura folle ha stroncato il suo filantropico cuore.
Il dr. Mortimer, amico del nobile defunto, si reca a Baker Street, convinto che solo il famigerato Sherlock Holmes sia in grado di spiegare quel terrore gridato dagli occhi annichiliti di Sir Charles.
L'affidare l'incarico di far luce su quell'insolita morte e il raccontare al detective la sinistra leggenda che da tempo immemore cade come una mannaia sul capo dei Baskerville, è tutt'uno.
Un cane infernale, una fiera crudele e diversa di proporzioni mastodontiche e fluorescente si aggira per la landa, con l'unica missione di fare strame della genia dei Baskerville.
Cosa potrà la mente, il nous adamantino del detective contro il medioevo della ragione che muove il Mastino dell'anatema?
Sherlock Holmes e il fido dr. Watson (il personaggio, quest'ultimo, a cui Sir Arthur Conan Doyle più somiglia, anche fisicamente), sono ingaggiati, quindi, per un'impresa apparentemente impossibile: impedire che l'ultimo discendente dei Baskerville, il volitivo Sir Henry, venga immolato sull'altare della maledizione di famiglia.
Eppure.... Eppure.
Tra scarpe vecchie misteriosamente scomparse, tra ululati alla luna di ghiaccio della landa spettrale; e ancora, tra parentele di sangue che vengono spacciate per legami acquisiti, tra mire ereditarie nascoste nelle somiglianze dei ritratti esposti al maniero, ecco che il caso apparentemente insolvibile si avvia a una scenografica soluzione.
E sì perché, per quanto fantastica e irrazionale possa sembrare la maledizione dei Baskerville, lo stesso Mastino da Sir Arthur evocato e messo sulle tracce del suo amato-odiato investigatore, dovrà capitolare, e con esso tutto il mistero che porta con sé, al cospetto della implacabile analisi di Sherlock Holmes.
Al termine dell'appassionante lettura del romanzo di Sir Arthur Conan Doyle, non possiamo fare altro che concordare con chi ha affermato che nessun altro eroe letterario ha contribuito come "il segugio di Baker Street" a consolidare l'arte delle detection.
Le illuminazioni dei predecessori anche geniali sono diventate (con Sherlock Holmes, ndr) un agguerrito sistema mentale, una vera e propria teoria che vede nella deduzione e nell'analisi gli strumenti fondamentali: gli indizi più insignificanti, come le unghie di un uomo o le maniche di una giacca, possono condurre alle conclusioni più importanti, alle rivelazioni più inattese e determinanti.

lunedì 22 agosto 2016

"Aceto, arcobaleno", Erri De Luca


Aceto, Arcobaleno. Una casa di pietre antiche, di quelle che biascicano solo consonanti perché "la voce della materia non usa vocali".

Una ragnatela di lampi a secco, "micce di luce" che infilano le terminazioni nervose, percorrendole tutte come un circuito elettrico.
Un uomo, il fantasma di una presenza che testimonia ricordi.
Questi sono gli elementi che tratteggiano l'incipit di Aceto, arcobaleno di Erri De Luca. E da tutto questo, con la solennità propria delle memorie che diventano congedo, la casa prende le mosse per rievocare la vita degli ultimi ospiti.
In Aceto, arcobaleno c'è il compagno che ha "noleggiato il corpo a ore" come operaio in fabbrica, in edilizia, come facchino. Fatica fisica, per intenderci, ma sempre e comunque al riparo dell'etichetta impropria di lavoro manuale; impropria perché "non è nelle mani la fatica" bensì nel dorso: "è lì che si accumula lo sforzo." Ed è proprio un ricordo di fatica, quello che Erri De Luca evoca per primo. Sono le fattezze dell'amico "dall'inflessione meridionale che non aiuta chi la porta in giro, però dà peso alle parole".
Sono frammenti di una storia ossessionata dal rispetto per il lavoro e dalla condanna per ogni piccola astuzia cui  pur si ricorre per sottrarsi alla fatica. Il tutto nell'incrollabile convinzione, incrollabile perché corroborata dall'esperienza, che alcuni ultimi della Terra, "sotto un esilio di stenti, sono dei re".
Alla fine di questa prima storia, l'incontro del protagonista con la dittatura dell'ideale; lo stesso ideale che, nella cornice di una febbre malsana e illogica, lo porta ad impugnare le armi dapprima contro un bersaglio altro, di poi nei confronti dei propri, più prossimi affetti. Quindi, ecco il tempo della fuga, del chiamarsi fuori, dello stagno ghiacciato che preannuncia la fine: una morte epilogo di una vita vissuta nel ricordo di quelle due parole, "aceto" e "arcobaleno" per l'appunto, con cui si apriva il piccolo dizionario di inglese e francese che il babbo sfogliava la sera, dopo le interminabili fatiche del giorno, con il figlio.
La seconda presenza evocata dalla casa squassata dagli elementi della natura in cui, come ne La casa dei doganieri di Montale "uno sciame di pensieri vi sostò inquieto"è quella del compagno prete. Qui però, a differenza di quanto accade nella lirica del Montale, "il calcolo dei dadi torna" e si fa somma. Ed ecco stagliarsi nitida la figura dell'amico portato per la metrica latina che decide di accordare i suoi passi sul rumore dell'acciottolio che conduce a Dio, alla Sua giustizia troppo spesso incomprensibile per edificare una logica della fede.
Pe 'mmare nun ce stanne taverne: "è una frase che andrebbe regalata a chi prende i voti (...). Una frase come questa potrebbe salvare qualcuno, spalancandogli il vuoto sul quale si sta sporgendo".
Quando i morsi della malattia uniti a quelli della disillusione si accaniscono sul corpo e sull'animo del secondo personaggio di Aceto, arcobaleno, vengono in soccorso la polvere e i singhiozzi dello scrittore superstite che trova riparo nella parola tau (ultima lettera dell'alfabeto ebraico) ossia nella stessa parola che l'angelo sterminatore della Bibbia, passando per le vie di Gerusalemme, stampa sulla fronte dei sofferenti per poterli risparmiare.
L'ultima voce che anima la casa di Aceto, arcobaleno prima della rovina, è quella dell'amico amante della crittografia mnemonica che lancia messaggi a uomini e spazi in grado di decifrarli; del compagno che sposa l'ideale nomade, alla continua ricerca di esperienze capaci di riscattare una vita, come i navigatori del XVII secolo che percorrevano indomiti l'emisfero sud pensando di incontrare terre altrettanto vaste di quelle dell'emisfero nord; del puro di cuore che, all'interno di una cella d'isolamento ingiusta, poteva scrivere solo parole definitive, senza possibilità di correzione perché,  se solo fosse ricorso alle correzioni, avrebbe cancellato anche la pellicola di polvere di cui le parole erano formate.
"Le visite, le vite si dileguano, la casa cede, nessun racconto la sorregge più".