venerdì 13 marzo 2020

4,15, 4 e 17 massimo


4 e 15, 4 e 17 massimo. Anche stanotte. Così è, «né cangia stile.»
C’avevo provato a sottopormi alla tortura cinese del «Porta a porta» con Salvini. Eppure, nonostante avessi collegato ogni neurone agli ondeggiamenti ossequiosi del Bruno nazionale, malgrado mi fossi predisposto a servirmi di tutte le scempiaggine del Matteo «ruspante» a mo’ di scarica elettrica, non c’è stato verso.
A dispetto dell’ora tarda in cui è finito il programma stanotte, come tutte le notti, mi sono svegliato alle 4 e 15, minuto più, minuto meno. Ormai non disturbo nemmeno più la sveglia.
A che serve, infatti, interrompere la sua fase rem azionando il led rosso, quando già so a che ora al mio cervello gli piglia lo sghiribizzo di accomodarsi sulla sedia del regista? Che poi, a dirla tutta, ci starebbe pure che la mente si mettesse ad analizzare la giornata appena trascorsa e quelle ancora da venire a un orario preciso, sia pure insolito. Il problema è un altro: il mio encefalo-regista, avendo una predilezione per il genere horror-apocalittico-distopico, prende spunto dai pensieri, dalle paure di quel cristiano che vorrebbe starsene a russare pancia in su beatamente, e ne crea proiezioni…ovviamente inquietanti.
Morale della favola, occhi sgranati manco avessero visto l’arcangelo Gabriele dell’Annunciazione, e via a un codazzo di pensieri tutti intruppati nel pessimismo cosmico: e il collega che ti tira fuori dal cilindro il cavillo che non solo ti fa perdere la causa, ma che ti fa appioppare anche la condanna alla spese, con conseguente sputtanamento da parte del cliente; e quel leggero bruciore di stomaco che sarebbe naturale conseguenza delle melenzane sott’olio a mezzanotte, ma che si trasforma in un incurabile tumore attecchito lungo le sue pareti come cozza sullo scoglio; e il block notes finito sotto le grinfie di un emulo di Snowden che estrapolerà da qualche appunto il pin pronto ad aprirgli i forzieri del vitale, salvifico centinaio di euro; e quella tenue crepa che, come d’incanto, si estende a tutta la casa, sgretolandone le pareti e facendoti trovare, nudo come un verme, in mezzo alla strada terremotata dell’Ottanta; e l’editore che, dopo aver letto il tuo manoscritto e aver deciso di pubblicarlo, non solo si tira indietro, ma ti spiattella che uno scrittore scialbo come te non l’ha mai incontrato.
Mi fermo qui, ma potrei benissimo continuare.
Più tardi, poi, mi riaddormento e faccio sogni normali, almeno fino alle 4 e 15, minuto più, minuto meno, della notte successiva.
Quando in un futuro lontano, mi deciderò a tirare le cuoia, già so che lo farò alle 4 e 15, 4 e 17 massimo. Poiché, però, mi ricorderò delle preferenze della mente-regista in ordine al genere prediletto, la ciurlerò nel manico: lascerò il mio zibaldone di scritti e speranze a quell’erede che il film delle 4 e 15, 4 e 17 massimo, mi indicherà come il meno adatto a riceverlo.
Sarà lui, certamente, il custode più degno.

giovedì 12 marzo 2020

L'assunzione e l'esempio di Troisi


A volte basterebbe un nonnulla per trasformare una legittima aspirazione personale in una battaglia (sindacale, politica, generazionale) collettiva.
Come sappiamo, una delle tre ricercatrici che hanno isolato il coronavirus, Francesca Colavita, per la “vocazione per la ricerca” e per la “lodevole attività professionale”, è stata finalmente premiata: da vergognosa precaria a meritevole “effettiva” allo Spallanzani di Roma.
Tutto giusto, per carità. Immaginiamo però per un attimo, un attimo solo, che la ricercatrice Colavita avesse reagito diversamente all’assunzione propostale; qualcosa del tipo: “Sono lusingata, ma la mia coscienza m’impone, mio malgrado, di rifiutare. La ricerca è stata portata avanti da tre dottoresse rigorosamente precarie: o ci assumete tutte con contratto a tempo indeterminato oppure…”
Come dite? Una cosa del genere si vede solo nei film o si legge esclusivamente in qualche feuilleton d’infima categoria? Eppure io vi dico che vi sbagliate di grosso.
Nel 1978, un allampanato Massimo Troisi fu avvicinato da alcuni funzionari della Rai. Gli proposero di farlo debuttare in televisione, nello specifico all’interno del programma che avrebbe costituito la fucina per eccellenza della comicità italiana: “No Stop”. A una sola condizione, però: che fosse disposto, senza colpo ferire, ad abbandonare i suoi amici d’infanzia nonché colleghi Enzo De Caro e Lello Arena.
Un dirigente Rai presente alla scena ha sempre dichiarato che la reazione di Massimo fu di una naturalezza sconvolgente: “Cioè io solo senza i miei compagni? No, io vi ringrazio, ma…nun se n’parla proprio. O tutt’e tre, o nisciuno.”
Morale della favola, il trio “La Smorfia” è stata una delle novità più originali, belle e seguite mai apparse in televisione.
Tornando alla nostra vicenda d’attualità, c’è da rilevare anche un altro aspetto: probabilmente, se la dottoressa Colavita si fosse comportata come il rimpianto Massimino, in ogni caso ne sarebbe uscita vittoriosa: se fosse stata assunta insieme alle altre colleghe, infatti, avrebbe lottato e vinto per sé e per le altre, oltre a ricavarne una pubblicità (positiva) di enorme valore; se, viceversa, i dirigenti dello Spallanzani fossero rimasti fermi nel loro aut aut, al momento sarebbe ancora precaria ma il polverone (anche mediatico) che si sarebbe alzato, avrebbe indotto qualche altro prestigioso istituto di ricerca ad assumere lei e pure le altre tre colleghe.
A volte occorrerebbe prendere le distanze dal proprio “particulare” per riportare una vittoria che trasudi riscatto.

mercoledì 11 marzo 2020

Dalla Libia a Giovi



In Libia, ma potrebbe essere in qualsiasi altro posto del mondo. Io so che tu non dirai di più. Tu sai che io non chiederò altro.
Le missioni militari e la sensibilità dell’amico c’impongono la consegna del silenzio.
E nelle sporadiche dirette whatsapp, tra gli equilibrismi di Al Sarraj, l’invito a cena appena torni a Giovi, gli appetiti di Erdogan, il provino di calcio di tuo figlio, si arriva al consueto, divertito punto morto: “sei il solito comunista.”
Un altro paio di minuti in cui tu mi rinfacci di aver comunque fatto il militare e io che giustifico la mia naja con un improbabile soldato alla Thomas Sankara, che il tempo ci porta sottobraccio verso l’arrivederci.
Ormai ho imparato a riconoscere tutte le gradazioni dei tuoi silenzi. Ora, per esempio, ti sei zittito non appena hai accennato all’ultimo incontro con la popolazione locale. Io ho capito. La tua pausa trasuda rispetto per la dignità di quella povera gente martoriata. Taccio anch’io, ristabilendo quell’intesa atona che stupiva i nostri compagni delle elementari, tanto da farci guadagnare il soprannome di “yogurt alla banana”. Io banana, tu yogurt, questo me lo ricordo bene, ma fermati qui, non chiedermi l’aneddoto che ci avrà affibbiato questi strambi nomignoli. Mi costa troppa fatica ammettere di non rammentarlo più.
È proprio vero: la vita, a volte, è un fiume carsico. Si inabissa, segue vene così contorte e ramificate che ormai lo dai per perso, fino a che…puffete: te lo vedi ricomparire davanti, rigoglioso e rassicurante come se non avesse mai deviato di un millimetro dal tuo cammino.
La mia università, il tuo arruolamento. La tua famiglia, la mia instabilità. La tua parola inquadrata come recluta al C.A.R., le mie promesse infiacchite dalla professione. Poi, qualche anno fa, ci siamo ritrovati. Ci siamo riannusati per saggiare gli sconvolgimenti del tempo. Abbiamo abbozzato un sorriso soddisfatto: malgrado qualche inevitabile cambiamento, ‘sta vitaccia non ce l’ha fatta a stranirci. Tu il solito “tra due punti, c’è solo una e una retta”, io il consueto “la retta sissignore, ma una, due curve, no?”
Sorridi. Saluti.
E le folate del tuo ghibli riempiono i miei occhi di sabbia del deserto.
A presto, Augusto Parisi.   

giovedì 5 marzo 2020

Saramago ai tempi del Coronavirus


In “Cecità” dell’immaginifico José Saramago, si racconta dell’improvvisa e singolare cecità che colpisce un’intera cittadina. Gli amministratori locali, allora, per evitare oltremodo il diffondersi del contagio, pensano bene di internare i gruppi di ciechi in vari edifici.
Orbene, l’epidemia in atto serve al premio Nobel portoghese per evidenziare l’indifferenza e l’egoismo del genere umano con alcune, isolate eccezioni, come la moglie del medico: ella, infatti, perfettamente sana, pur di restare accanto al marito e di prendersene cura nell’edificio in cui questi è relegato, si finge cieca.
Fuor di metafora, anche l’impazzimento da Coronavirus paragonabile, almeno per ciò che riguarda l’isteria mediatica, alla cecità di Saramago, ci è utile per mettere in luce l’ingiustizia e l’inumanità di sistemi sanitarie e persone.
Osmel Martinez Azcue, un uomo di Miami appena ritornato dalla Cina con sintomi influenzali, ha avuto l’ardire di richiedere al Jackson Memorial Hospital un tampone per il Coronavirus. Ebbene, tornato a casa, l’amara sorpresa: si è visto recapitare una lettera a firma della sua compagnia di assicurazione che gli chiedeva di sborsare ben 3.270 dollari.
È la sanità americana, bellezza, un sistema, cioè, non universalistico, in gran parte in mano ai privati, a cui ha accesso solo chi dispone di coperture assicurative alte o chi può far fronte di per sé agli ingenti costi delle cure.
Poi ci sono le persone. Come l’autista di un bus di Napoli che, avendo visto una coppia cinese in attesa alla fermata, decide di tirare dritto e di lasciarli a terra tra l’ilarità generale dei passeggeri.
L’epidemia da Coronavirus, come nel romanzo “Cecità” di José Saramago, ci ha fornito anche esempi, pure qui di persone e sistemi, stavolta estremamente positivi.
Il giovane medico di Wuhan, Li Wenliang, che, dopo aver notato le analogie fra sette casi clinici, ha lanciato per primo l’allarme sul Covid-19, pagando con la vita il suo altruismo.
Per ciò che attiene al sistema sanitario, invece, l’esempio felice è fin troppo semplice, non foss’altro perché ce l’abbiamo proprio qui, sotto i nostri occhi: la sanità pubblica italiana che, malgrado alcune lacune, sprechi, inefficienze, nonostante la doppia velocità Nord-Sud, è ancora una delle più “giuste” del mondo.
Sta a noi vigilare per impedirne qualsiasi manomissione, soprattutto in chiave privatistica.
A proposito di “cecità”, quindi, teniamo gli occhi ben aperti sulla sanità pubblica.